Scrivere fu il suo unico modo di allenare il metacarpo e tutte quelle falangi
24/12/17
Zuppa take-away
di Cristina Taliento
A quindici anni la mia mente ne sparava delle belle,
avevo idee da vendere,
l'universo mi batteva spesso il cinque
e mi credevo abbastanza intelligente
per la mia età.
Non so se sia dovuto al fatto di sapere di non sapere,
a quella storia di una società che educa all'eccellenza
o semplicemente a quella volta che urtai la fronte,
ma da un po' di tempo, dopo aver camminato,
per strade e sentieri,
mi siedo
e cerco di pensare a qualcosa di geniale,
niente di particolare,
una storia, un'invenzione,
basta che sia in memoria di me.
Bene, mi giro i pollici e sorrido alle mosche,
ci sarebbe soltanto da alzarsi e dimettersi,
però, a dire il vero,
una cosa l'ho pensata:
uno zuppa store, uno zuppa take-away,
tu vai lì, scegli la tua zuppa
e noi te la serviamo in un bicchiere di carta
così puoi andartene in giro per la città
senza dover per forza mangiare un panino.
26/11/17
Vuoto 142
di Cristina Taliento
Quando la finirai di parlare e tremare
e scaldarti tanto per ciò che non hai
per ciò che sei e non sei
calciando lattine vuote e indecisioni
che hai la velleità di chiamare oceani,
abbi perlomeno l’accortezza di notare,
mentre cammini bofonchiando
col cuore in gola e la luna storta,
quel bambino a quadretti e jeans
fermo nel buio di una strada inospitale
ad osservare annunci di gatti scomparsi.
Qualcuno se ne dovrà pur interessare,
qualcuno li dovrà pur cercare.
E se hai tempo e ti è rimasto del silenzio,
puoi fermarti a leggere anche tu
per toglierti dal centro del mondo
dal centro del centro del mondo
e poggiarti con le ginocchia sull’asfalto
per vedere se sotto le auto parcheggiate
ci sia un persiano nero
o un chihuahua con cappotto blu elettrico
su cui compare la scritta “Bob”.
Il mio telefono memorizza le note con “Vuoto” e poi il numero. Probabilmente è perché non inserisco il titolo, non so come si fa e poi che titolo vuoi mettere a delle righe scritte a caso mentre cammino scoppiando palloncini di chewing-gum rosa alla cannella. Non dovrei scrivere e camminare, soprattutto su strade autunnali, scivolose, tra spacciatori spettrali, bici sfreccianti, cani randagi. Dovrei stare più attenta, tenere gli occhi aperti.
Invece, ho la memoria piena di Vuoti numero 1, 2, 3... che se ne farà il mondo e cosa mai me ne farò io. Però, in un giorno in cui non avremo nulla da dirci, nè da scrivere o pensare, in un giorno in cui la legna da ardere sarà terminata, io probabilmente ti leggerò il Vuoto 142 che fa più o meno così:
Quando la finirai di parlare e tremare
e scaldarti tanto per ciò che non hai
per ciò che sei e non sei
calciando lattine vuote e indecisioni
che hai la velleità di chiamare oceani,
abbi perlomeno l’accortezza di notare,
mentre cammini bofonchiando
col cuore in gola e la luna storta,
quel bambino a quadretti e jeans
fermo nel buio di una strada inospitale
ad osservare annunci di gatti scomparsi.
Qualcuno se ne dovrà pur interessare,
qualcuno li dovrà pur cercare.
E se hai tempo e ti è rimasto del silenzio,
puoi fermarti a leggere anche tu
per toglierti dal centro del mondo
dal centro del centro del mondo
e poggiarti con le ginocchia sull’asfalto
per vedere se sotto le auto parcheggiate
ci sia un persiano nero
o un chihuahua con cappotto blu elettrico
su cui compare la scritta “Bob”.
03/11/17
Allegro disperato
di C. Taliento
In questa notte di nebbia e luna,
autobus vuoti e castagne alla brace,
In una notte- questa-
di ansia selvatica da studente,
di argentei kebab e tricolori,
io,
con il mio non piccolo,
indaffarato,
allegro disperato Io,
non mi aspettavo certo
un suonatore d’arpa
qui sulla Cattedrale.
Ombre di gatti ascoltano mute
e anziani sordi
guardano nuvole pipistrello
mentre si toccano le orecchie:
finalmente hanno trovato
qualcosa per cui valga la pena
accendere le protesi acustiche.
Io e quei gatti stiamo bene,
per carità,
ma
per la prima volta
temiamo l’otosclerosi...
E vorremmo che questo suono
come in fondo quest’animo
e questa notte,
seppur con le sue grane,
e tutti i pensieri, le persone,
le strade,
restassero
udibili
per sempre.
In questa notte di nebbia e luna,
autobus vuoti e castagne alla brace,
In una notte- questa-
di ansia selvatica da studente,
di argentei kebab e tricolori,
io,
con il mio non piccolo,
indaffarato,
allegro disperato Io,
non mi aspettavo certo
un suonatore d’arpa
qui sulla Cattedrale.
Ombre di gatti ascoltano mute
e anziani sordi
guardano nuvole pipistrello
mentre si toccano le orecchie:
finalmente hanno trovato
qualcosa per cui valga la pena
accendere le protesi acustiche.
Io e quei gatti stiamo bene,
per carità,
ma
per la prima volta
temiamo l’otosclerosi...
E vorremmo che questo suono
come in fondo quest’animo
e questa notte,
seppur con le sue grane,
e tutti i pensieri, le persone,
le strade,
restassero
udibili
per sempre.
29/10/17
Panco del Servizio Civile - Ritratti di persone
di Cristina Taliento
Panco del Servizio Civile lavorava ogni giorno con gli ex detenuti, guadagnava pochi soldi al mese, aveva ricominciato a fumare e non chiedeva mai per quale motivo quegli altri fossero finiti dentro.
Si era laureato in Medicina un giorno d’ottobre. Pioveva. Quel giorno non c’era che sua zia, il nonno e il vicino di casa. Gli avevano battuto le mani, poi la zia aveva detto scuotendo impaziente l’ombrello: “Andiamo che fa freddo”. E Panco del Servizio Civile aveva guardato le foglie gialle e i coriandoli per terra. Comunque, nè la sua condizione affettiva, nè la mancanza di supporto erano i motivi per cui Panco avesse deciso -così, senza molte chiacchiere- di posticipare l’esame di abilitazione alla professione medica e dedicarsi per un anno, trecentosessanta giorni e venti di permesso, a lavori socialmente utili.
Tutto quello che doveva fare consisteva nell’aiutare l’ex detenuto a incontrare la sua famiglia o portargli vino, frutta, aiutarlo a reinserirsi nella quotidianità.
Alto, magro e senza amici, Panco non chiedeva di meglio che essere una spalla, discreta, silenziosa, qualcuno con cui zoppicare.
A dire il vero non so perché ora stia qui a narrare di Panco in modo così superficiale. Farei meglio a scrivere due versi. Tipo:
La cucina di domenica
Brilla bianca
Sotto un raggio di nuvola
Mi domando come mai
I gatti siano
Creature paragonabili
All’edera.
Ma non importa. Panco leggeva la Divina Commedia. Aveva in tasca un fazzoletto di stoffa.
“Cosa se ne fa un giovane di un fazzoletto di stoffa?” gli aveva chiesto un vecchio spacciatore.
“Non lo so, per asciugarmi il naso se cola” aveva detto.
E lo spacciatore si era messo a ridere.
“Perché lo fai?”
“Fare cosa?”
“Perdere il tuo tempo qui”
“Non perdo il mio tempo”
“Stai cercando qualcosa?”
Panco, seduto sulla poltrona di velluto verde di proprietà dell’Associazione, con la faccia mescolata come un impasto da un cucchiaio di legno, aveva risposto: “Non sto cercando niente”.
Diversamente dagli altri ragazzi del Servizio Civile, aitanti, energici e con una ottimistica soluzione per tutto, Panco spesso non sapeva che pesci prendere. La sua pasta al pomodoro era sempre un po’ scotta e non sapendo giustificarsi, mangiava gli spaghetti ascoltando quello che l’altro diceva.
Sparecchiava. Lavava i piatti. Alle 19 tornava a casa. Lo aspettavano la zia e il nonno che parlavano di guerre, disastri ambientali. La zia si riferiva sempre a situazioni attuali, come ad esempio il conflitto siriano, la Corea del Nord. Il nonno le dava ragione e aggiungeva qualcosa su Alsazia e Lorena.
Panco si sedeva a leggere il giornale o le nuove linee guida di una malattia.
Come ritratto questo non ha un finale, non nel senso catartico del termine. Se stesse o meno cercando qualcosa, una risposta, un segno, nessuno lo seppe mai, nè io, nè gli ex detenuti, tantomeno sua zia che iniziava ad avere, tra l’altro, un principio di cataratta.
Quello che so è che dopo il Servizio Civile, Panco iniziò a frequentare un ambulatorio di un medico di medicina generale.
Molti dicevano che fosse un tipo apatico, indeciso, senza vocazione. Io non lo so. Secondo me, era un ragazzo tranquillo.
Panco del Servizio Civile lavorava ogni giorno con gli ex detenuti, guadagnava pochi soldi al mese, aveva ricominciato a fumare e non chiedeva mai per quale motivo quegli altri fossero finiti dentro.
Si era laureato in Medicina un giorno d’ottobre. Pioveva. Quel giorno non c’era che sua zia, il nonno e il vicino di casa. Gli avevano battuto le mani, poi la zia aveva detto scuotendo impaziente l’ombrello: “Andiamo che fa freddo”. E Panco del Servizio Civile aveva guardato le foglie gialle e i coriandoli per terra. Comunque, nè la sua condizione affettiva, nè la mancanza di supporto erano i motivi per cui Panco avesse deciso -così, senza molte chiacchiere- di posticipare l’esame di abilitazione alla professione medica e dedicarsi per un anno, trecentosessanta giorni e venti di permesso, a lavori socialmente utili.
Tutto quello che doveva fare consisteva nell’aiutare l’ex detenuto a incontrare la sua famiglia o portargli vino, frutta, aiutarlo a reinserirsi nella quotidianità.
Alto, magro e senza amici, Panco non chiedeva di meglio che essere una spalla, discreta, silenziosa, qualcuno con cui zoppicare.
A dire il vero non so perché ora stia qui a narrare di Panco in modo così superficiale. Farei meglio a scrivere due versi. Tipo:
La cucina di domenica
Brilla bianca
Sotto un raggio di nuvola
Mi domando come mai
I gatti siano
Creature paragonabili
All’edera.
Ma non importa. Panco leggeva la Divina Commedia. Aveva in tasca un fazzoletto di stoffa.
“Cosa se ne fa un giovane di un fazzoletto di stoffa?” gli aveva chiesto un vecchio spacciatore.
“Non lo so, per asciugarmi il naso se cola” aveva detto.
E lo spacciatore si era messo a ridere.
“Perché lo fai?”
“Fare cosa?”
“Perdere il tuo tempo qui”
“Non perdo il mio tempo”
“Stai cercando qualcosa?”
Panco, seduto sulla poltrona di velluto verde di proprietà dell’Associazione, con la faccia mescolata come un impasto da un cucchiaio di legno, aveva risposto: “Non sto cercando niente”.
Diversamente dagli altri ragazzi del Servizio Civile, aitanti, energici e con una ottimistica soluzione per tutto, Panco spesso non sapeva che pesci prendere. La sua pasta al pomodoro era sempre un po’ scotta e non sapendo giustificarsi, mangiava gli spaghetti ascoltando quello che l’altro diceva.
Sparecchiava. Lavava i piatti. Alle 19 tornava a casa. Lo aspettavano la zia e il nonno che parlavano di guerre, disastri ambientali. La zia si riferiva sempre a situazioni attuali, come ad esempio il conflitto siriano, la Corea del Nord. Il nonno le dava ragione e aggiungeva qualcosa su Alsazia e Lorena.
Panco si sedeva a leggere il giornale o le nuove linee guida di una malattia.
Come ritratto questo non ha un finale, non nel senso catartico del termine. Se stesse o meno cercando qualcosa, una risposta, un segno, nessuno lo seppe mai, nè io, nè gli ex detenuti, tantomeno sua zia che iniziava ad avere, tra l’altro, un principio di cataratta.
Quello che so è che dopo il Servizio Civile, Panco iniziò a frequentare un ambulatorio di un medico di medicina generale.
Molti dicevano che fosse un tipo apatico, indeciso, senza vocazione. Io non lo so. Secondo me, era un ragazzo tranquillo.
27/10/17
A parole mie
di C. Taliento
Sesto anno.
Autunni invecchiati come vini
E non sapere quale musica ascoltare
tantomeno che scrivere
nel tempo breve di una pausa thè.
A volte si vedono angeli sparsi,
ovvero l’impetuoso ritorno delle sensibilità,
quando si ha un’idea,
una bella idea,
mentre fuori la stagione cambia,
come i nostri giorni
e la poesia.
Una poesia più spettinata
Con vecchie scarpe bianche
una camicia pulita non stirata.
Una poesia poco alcolica
ma nemmeno Coca-cola
a tratti malinconica coraggiosa,
a tratti solo urbana:
tutta semafori e pedali,
marciapiedi, umanità, tramonti.
Un sacco di gente mi chiede
se ho l’accendino.
Sei anni fa dicevo oh mi dispiace
io non fumo.
Ora faccio segno di no.
Ma a sedersi al tavolo, un pomeriggio di questi,
si farà un bel narrare,
un bel ritrovarsi,
non c’è male.
E guardando il fuoco,
ti dirò ridendo che no, non fumo,
perché
non so perché,
mi fa starnutire.
Sesto anno.
Autunni invecchiati come vini
E non sapere quale musica ascoltare
tantomeno che scrivere
nel tempo breve di una pausa thè.
A volte si vedono angeli sparsi,
ovvero l’impetuoso ritorno delle sensibilità,
quando si ha un’idea,
una bella idea,
mentre fuori la stagione cambia,
come i nostri giorni
e la poesia.
Una poesia più spettinata
Con vecchie scarpe bianche
una camicia pulita non stirata.
Una poesia poco alcolica
ma nemmeno Coca-cola
a tratti malinconica coraggiosa,
a tratti solo urbana:
tutta semafori e pedali,
marciapiedi, umanità, tramonti.
Un sacco di gente mi chiede
se ho l’accendino.
Sei anni fa dicevo oh mi dispiace
io non fumo.
Ora faccio segno di no.
Ma a sedersi al tavolo, un pomeriggio di questi,
si farà un bel narrare,
un bel ritrovarsi,
non c’è male.
E guardando il fuoco,
ti dirò ridendo che no, non fumo,
perché
non so perché,
mi fa starnutire.
12/09/17
Conosco un malato di Alzheimer
di Cristina Taliento
Anni che perdo sempre qualcosa,
qualcosa dentro la tasca,
qualcosa dentro questo mio berretto,
Oh! qui! dietro l’orecchio.
Non qui, forza lasciami parlare,
Se non mi ascolti cosa capisci,
a destra, vedi, mi fa male.
a destra, vedi, mi fa male.
Vorrei… no, oppure. E se
andassimo a ballare?
Ragazza triste, ehi! Ci verresti?
Anni che ho il sentore di cose belle,
che siano accadute,
cose leggere, di pioggia incessante,
d’amore
e sebbene proprio non ti conosca,
né so veramente
perché diavolo
tu sieda zitta in questa bianca stanza,
mi calma il tuo sorriso
perché da qualche parte lì in mezzo
Io tutte queste cose
-che io davvero… io
io non saprei,
forse,
lo spero-
Tutte queste cose, dicevo
Ho come
il solletico
d’averle
vissute.
03/09/17
Un caffè biascica antichi dialetti sul fuoco
di Cristina Taliento
Seguo questa linea solitaria della mia ispirazione
Lungo sereni naufragi in cui battere le ali per la prima volta
Nel vento e poi volare
In calzoncini e scarpe da ginnastica
Come un cavaliere
Con un elmo di fiori e piume
Mentre suonatori jazz afroamericani su una nuvola
In giacca e cravatta spostano nuove correnti di voci e musica.
Le mie ali volteggiano
Tra onde d'aria compressa e rarefatta.
Compressa e rarefatta: adoro.
È sempre domenica
Il caffè biascica antichi dialetti sul fuoco.
È pronto. Ma io sto immaginando.
E la mia testa è in festa
Un ragazzino direbbe 'perbacco zia'
Per far notare lo sfarzo ridondante della mia anima.
Della mia anima, di domenica,
Prima che io parta,
Lasciando le calde braccia di questo posto,
Verso pianure d'esilio,
Pianure di quiete.
Seguo questa linea solitaria della mia ispirazione
Lungo sereni naufragi in cui battere le ali per la prima volta
Nel vento e poi volare
In calzoncini e scarpe da ginnastica
Come un cavaliere
Con un elmo di fiori e piume
Mentre suonatori jazz afroamericani su una nuvola
In giacca e cravatta spostano nuove correnti di voci e musica.
Le mie ali volteggiano
Tra onde d'aria compressa e rarefatta.
Compressa e rarefatta: adoro.
È sempre domenica
Il caffè biascica antichi dialetti sul fuoco.
È pronto. Ma io sto immaginando.
E la mia testa è in festa
Un ragazzino direbbe 'perbacco zia'
Per far notare lo sfarzo ridondante della mia anima.
Della mia anima, di domenica,
Prima che io parta,
Lasciando le calde braccia di questo posto,
Verso pianure d'esilio,
Pianure di quiete.
31/07/17
La torta - Racconti stravaganti per Tomaso
di Cristina Taliento
"Quest'estate l'idea era quella di scrivere un romanzo", ma mentre scriveva questa frase finì la penna. Era una penna in cartone, molto particolare e lei era andata in cucina in cerca di un'altra penna, aveva guardato nel cassetto dove c'erano la guida telefonica e i foglietti di carta, ma non aveva trovato nulla. Mentre continuava a cercare, si diceva che, come incipit, quello non era poi questo granché e bisognava cambiarlo. Le toccò andare fino al negozio vicino alla scuola elementare per comprare un mucchio di penne. La commessa le aveva messe in un sacchetto di plastica. Non ce ne sarebbe stato bisogno, poteva anche tenerle in mano senza troppe storie perché le Storie, in fondo, non c'erano, non c'erano mai state e quelle penne facevano bene a starsene in un sacchetto come qualsiasi altra cosa acquistata, un oggetto come un altro, mica un attrezzo per creare, da vivere, soltanto inchiostro, pennello senz'arte.
"Quest'estate l'idea era quella di scrivere un romanzo", ma mentre scriveva questa frase finì la penna. Era una penna in cartone, molto particolare e lei era andata in cucina in cerca di un'altra penna, aveva guardato nel cassetto dove c'erano la guida telefonica e i foglietti di carta, ma non aveva trovato nulla. Mentre continuava a cercare, si diceva che, come incipit, quello non era poi questo granché e bisognava cambiarlo. Le toccò andare fino al negozio vicino alla scuola elementare per comprare un mucchio di penne. La commessa le aveva messe in un sacchetto di plastica. Non ce ne sarebbe stato bisogno, poteva anche tenerle in mano senza troppe storie perché le Storie, in fondo, non c'erano, non c'erano mai state e quelle penne facevano bene a starsene in un sacchetto come qualsiasi altra cosa acquistata, un oggetto come un altro, mica un attrezzo per creare, da vivere, soltanto inchiostro, pennello senz'arte.
Così, tornata a casa, buttò le penne sul tavolo. Un tavolo di mogano perfetto per storie con un certo carico di dramma. Ma le Storie, come dicevo, non c'erano, non c'erano mai state... Dunque, si alzò, mise della cannella nel thè appena fatto, mentre il tramonto pitturava d'arancio l'oleandro e nell'aria si sentivano canti di messa. Cantavano: "Resta con noi, Signore. Resta con noi, Pietà". Era domenica. Lì vicino c'era una chiesa.
Il thè era troppo caldo, le rondini erano ferme sulle antenne delle case, l'unica cosa a cui pensava era cogliere l'estate, come l'attimo del mondo, per mettere su carta quella farfalla verde azzurrina con cui ella raffigurava da sempre il suo blues, il suo narrare variopinto. Quell'estate poteva essere l'estate giusta. Abbastanza ventilata, non molto calda e lei aveva spesso il cuore in gola. Durante l'anno aveva incontrato tante persone e alcune di loro le avevano chiesto di scrivere. Non ci aveva mai sperato. Anche quella volta, quella domenica, ci credeva poco, la sua strada era un'altra. Voleva più che altro studiare per diventare Astronauta.
Allora chiamò i suoi amici per vedere se avessero la voglia di andare al mare. Le risposero che non sapevano, una era incinta, un altro aveva un gatto di nome Lucio, morto da due giorni di leishmaniosi. Ella non si era mai effettivamente soffermata sul fatto che la leishmaniosi potesse arrivare a provocare conseguenze così estreme. Disse che le dispiaceva. L'amico rispose, non preoccuparti, però al mare vacci te. No, non disse proprio così, ma a lei parve di sentirlo. Ad ogni modo prese la macchina e lei non guidava quasi mai, anche se aveva la patente e tutte le carte in regola. Guidò fino all'ultima spiaggia del litorale che poi non era che il punto più lontano che fosse in grado di raggiungere, siccome teoricamente l'ultima spiaggia non esiste. La campagna si rabbuiava e comparivano le stelle. Spesso gli scrittori di ogni genere andavano in riva al mare a cercare le loro storie, ma secondo lei tra mare e montagna non c'era differenza, contava invece molto che razza di talento fossi o non fossi. Infatti, all'inizio il mare di notte servì soltanto a metterle la paura che, da un momento all'altro, potesse comparire un bandito d'altri tempi così dal nulla chiedendole cibo e silenzio. I giunchi sussurravano le solite storie che non c'erano, non c'erano mai state e lei le ascoltò tutte. Aveva portato con sé, in un barattolo di vetro, un pezzo di torta con fichi, mandorle e miele. Aveva trovato la ricetta su un blog tedesco. La mangiò al buio con la schiena appoggiata allo sportello della macchina, tra la paura d'esser rapita e l'odore del mare. In un momento respirò l'idea di aver creato, all'interno delle sue paure, uno spazio confortevole, buono anche per scrivere, ma, che diavolo, di quel mucchio di penne, ricordò di averne portata manco una.
Così salì in macchina senza l'intenzione di mettere in moto, accese la radio, stavano facendo un sondaggio su quale fosse il miglior regalo da fare per un diciottesimo compleanno. Chiamò il numero. Aveva intenzione di dire: "Un cappello". Tuttavia, le linee erano tutte occupate.
27/07/17
Andy Chaser - Ritratti di persone
di Cristina Taliento
(Claude Monet, Impressione, alba, 1873)
(Claude Monet, Impressione, alba, 1873)
Andy Chaser è questo ragazzo un po' paranoico sulla ventina, uno dei tanti, come ce ne sono a bizzeffe sparsi per l'Italia, tra Nord e Sud, magri, per niente abbronzati, introversi, mangiatori di schifezze e senza un particolare programma nella vita. Andy Chaser io non lo so perché abbia deciso di chiamarsi così su Instagram, invece di Andrea l'Inseguitore, per esempio. Lo scopo del suo account è raccogliere foto di tempeste, nuvole terribili e piogge di saette e, a dirla tutta, il nome inglese lo descrive meglio, si abbina con i calzoncini corti e le All Star Converse e con quei quattro peli biondi a mo' di barba che altrimenti stonerebbero su un solenne 'Inseguitore'.
Andy è così, anzi a dire il vero non ne ho la più pallida idea di come sia. Diciamo che sono una dei suoi pochi followers e ne ho fatto, a sua insaputa, un personaggio. Io me lo immagino sempre inforcare la bicicletta alla prima goccia di pioggia con degli occhialini da piscina sopra uno sguardo allertato, per poi pedalare a più non posso con le infradito verso la campagna sconfinata e deserta, schivando qua e là, con uno slalom mortale, le lattine vuote che l'uragano gli lancia contro. E, secondo me, proprio mentre è nella zona più grigiosamente appestata da nubi, ben lontano dalla salvezza, con la maglietta completamente zuppa d'acqua e di guai, Andy prende la macchina fotografica dalla custodia impermeabile e, con l'iride nell'obiettivo, aspetta quatto quatto il tuono. E aspetta il lampo e aspetta la meraviglia e chissa chi e cos'altro. Intanto bagliori di sommosse gli illuminano gli occhi e accusano violenti il suo lungo indugiare. Ma- attenzione- nell'istante in cui il fulmine sguizza via dal cumulonembo, lungo e veloce come un'anguilla, il vecchio Andy preme il pulsante di scatto, clic e fine della storia.
Quelle volte che piove e basta, senza bagliori né niente, io non riesco proprio a immaginare dove trovi il coraggio per non mollare tutto e cambiare hobby, senza perdere altro tempo a bagnarsi sotto l'acquazzone come i poveri cristi, ma probabilmente non ho capito il senso del suo inseguire, che la mia mente legge come sinonimo di cercare e magari invece no, non è lo stesso. O forse il bello per lui è soltanto farla franca. Un'altra volta e diecimila altre scappare a gambe levate con una foto appesa al collo e neanche un elettroshock.
15/07/17
Maracas
divagazioni di Cristina Taliento
(Hans Baluschek, Großstadtwinkel, 1929 © Stadtmuseum Berlin)
(Hans Baluschek, Großstadtwinkel, 1929 © Stadtmuseum Berlin)
C'è uno scrittore mio amico che ha buttato tutta la sua produzione letteraria in strada, specie nelle sere d'estate. Intendo che ha scritto per lo più cronache urbane o momenti, attimi dalla bassa visuale che si ha stando seduti su un marciapiede parlando del più e del meno con qualcuno incontrato per caso sulle note di un suonatore jazz pochi palazzi più avanti.
Ogni tanto lo vado a trovare, cioè entro nella sua letteratura, nel suo suono di vita e gli chiedo se c'è da far qualcosa, se posso restare. Lo scrittore amico allora mi apre la porta della sua estiva città notturna che non è come la vedo io, ma proprio come la narra lui e io divento ospite della sua personale visione, mi lascio guidare da quel suo modo di camminare nella sera, che poi è anche il suo modo di scrivere e tutto quanto.
La sua città è un po' diversa dalla mia. Io tendo a inserire fiumi, corsi d'acqua, anche dove non ci sono. Per lui non ha importanza: il fiume sono le persone, le loro voci, i vestiti che scelgono per sentirsi come si sentono, i loro pensieri, le smorfie. Talvolta gli dico per scherzare che la sua è 'letteratura da barboni' , dove la vita scorre come all'interno di un sacco a pelo nella moltitudine dei passanti. Lui si ferma, ci riflette su e dice che si, effettivamente è così, gli piace. Allora, senza la paura di spaventarlo, gli chiedo se sia più giusto per uno scrittore stare dentro o stare fuori, se la sua non sia una strana forma di emarginazione e come si sente a riguardo. Ride, dice che alla fine è solo una questione di posti, individuare quelli dove le dita battono sulla tastiera come pioggia, quei posti della mente che sono anche anima e pane, terra di casa, rifugio e mare aperto, dove sei, non puoi che Essere, anche se magari non possiedi niente al di fuori degli abiti che hai addosso e della tua pace.
Per farmi capire meglio mi porta sul piazzale più alto della città per respirare le luci che lasciano il passo alle stelle. Potrebbe essere Piazzale Michelangelo o Trinità dei Monti, non lo so, si vedono delle cupole e dei campanili. C'è un venditore di palloncini, delle famiglie che parlano, dei ragazzi che si baciano. Lui mi indica un'orchestra di contralti e violini. Dice che li conosce, sono suoi amici. Non mi meraviglia, siccome questo è il suo Racconto e le figure al suo interno non sono che parte della sua immaginazione. Ci avviciniamo.
I musicisti fanno segno di unirci a loro. Alzo le spalle, non so suonare. Così l'amico scrittore prende una maracas dal bagaglio della loro macchina, mi dice 'tieni' , mentre lui si siede al pianoforte. Cerco in tutti i modi di divincolarmi, però non è difficile tenere il tempo, il suo Tempo, abbracciati come siamo dalla calura di luglio, illuminati dai bagliori di sconosciute costellazioni, presenti e vagamente assenti in questa rumorosa sgangherata orchestra spettacolare.
28/06/17
Sotto un tempo da lupi io mangio un gelato
di Cristina Taliento
Sotto un tempo da lupi io mangio un gelato
È il titolo di questo sonetto
E le rondini volano alte.
La pioggia d'estate mi fa venire voglia
Di scappare di casa
Anche se questa non è casa mia
E sarebbe strano, un controsenso
Dunque preparo lo zaino
E pedalo semplicemente
Come un tranquillo anziano normale
Che pedala normale
Ma in realtà sto facendo al contrario
Il solito percorso
Con l'animo di un bambino irriverente
E da questa prospettiva
Mi sembra tutto diverso,
Persino quel ponte, diverso.
Però è bello
E questo potrei anche scriverlo in prosa, anche se mi servirebbe il doppio del coraggio, perché nei versi ci sei e non ci sei, salti da un rigo all'altro lasciando nel dubbio che fossi veramente tu o soltanto un riflesso, un sentimento generico, d'altri. Pedaliamo ancora sotto questo cielo di capodoglio ferito -e questa è in assoluto la mia metafora migliore - noncuranti di noi stessi, oppure troppo attenti ai dettagli per accorgerci delle cose più semplici.
Semplice tipo questo parco che incontro, pieno di rametti spezzati dalla tempesta, con tre panchine e un'altalena.
La pioggia d'estate accarezza gli alberi
E un signore col cane mi fa:
"Ragazza, ieri vento a ventinove kilometri orari!".
Faccio un cenno d'assenso e dico:
"Mare forza quattro!".
Dicono che nello Stretto di Bering ci sia un vento talmente forte da uccidere in media un pescatore al giorno. Lo chiamano il "gelo nero". Per questo il lavoro del pescatore di granchi reali del Nord è il lavoro più pericoloso al mondo. Le onde saranno davvero altissime laggiù.
25/06/17
Sabato sera - Poesie metropolitane
di Cristina Taliento
(Moscow I, quartiere rosso, Wassily Kandinsky, 1916)
Sabato sera è un posto più che un momento,
dove cammini sull'erba
una sera d'estate,
ancora luce,
qualcuno suona la chitarra,
mentre il camion dei rifiuti passa e spassa
e i giovani bevono sui marciapiedi
di fronte al bar, seduti vicini,
seduti distanti,
si guardano, bevono,
chissà che avranno da preoccuparsi tanto.
Sabato sera d'estate
è comunque sempre uno dei giorni
prima dell'esame
e del futuro, uno dei giorni dopo
ottanta grammi di pasta col pomodoro
ripetitiva
e notti insonni
e zanzare, silenzi, fogli, matite,
andare, andare, andare.
Un sabato sera d'estate
alla fine dei fatti è solo un posto all'aperto,
quattro amici,
finalmente una birra,
dove i nostri Altrove sembrano
affievolirsi in una risata,
sbiadirsi nell'ascolto,
nel ricordo di una strana barzelletta
che accidenti, cos'è sta roba,
solo io non l'ho capita.
(Moscow I, quartiere rosso, Wassily Kandinsky, 1916)
Sabato sera è un posto più che un momento,
dove cammini sull'erba
una sera d'estate,
ancora luce,
qualcuno suona la chitarra,
mentre il camion dei rifiuti passa e spassa
e i giovani bevono sui marciapiedi
di fronte al bar, seduti vicini,
seduti distanti,
si guardano, bevono,
chissà che avranno da preoccuparsi tanto.
Sabato sera d'estate
è comunque sempre uno dei giorni
prima dell'esame
e del futuro, uno dei giorni dopo
ottanta grammi di pasta col pomodoro
ripetitiva
e notti insonni
e zanzare, silenzi, fogli, matite,
andare, andare, andare.
Un sabato sera d'estate
alla fine dei fatti è solo un posto all'aperto,
quattro amici,
finalmente una birra,
dove i nostri Altrove sembrano
affievolirsi in una risata,
sbiadirsi nell'ascolto,
nel ricordo di una strana barzelletta
che accidenti, cos'è sta roba,
solo io non l'ho capita.
09/06/17
La minestra sull'oceano
divagazioni di Cristina Taliento
(Robert H.Lafond, artista)
Conosco- in prima persona, sebbene non sia nient'altro che finzione letteraria- una barca molto grande, grande quanto la parola 'transatlantico' scritta con un corsivo espansivo pendente a destra. La sua occupazione è specialmente commerciale, ovvero quella di trasportare container pieni zeppi di pop corn dal Giappone, dove vengono prodotti, verso i porti del mondo. È fatta di ferraglia rossa a tratti arrugginita e per salire a bordo bisogna essere ammiragli, marinai, scaricatori o medici che sappiano usare il defibrillatore manuale. Ci sono anche cuochi, addetti alle pulizie e tecnici del suono. A pranzo tutti quanti mangiano piatti a base d'arancia per scongiurare il pericolo d'ammalarsi di scorbuto: anatra all'arancia la sera, risotto all'arancia a mezzogiorno e così via. Il medico di bordo ha più volte ribadito che non è affatto necessario. L'ammiraglio tutte le sante volte ha risposto : "Si, ma è sufficiente". E ha strizzato gli occhi per il sapore frizzante del mandarino che stava mangiando.
Così, mentre quest'enorme barca attraversa gli oceani, il personale inganna il tempo pensando che, almeno, tra breve, sarà ora di mangiare, anche solo agrumi grumosi, grotteschi. Non è una vita entusiasmante, ma invero abbastanza tranquilla.
Ma il medico di bordo, un giorno, decide che si è rotto completamente le scatole di tale ridicola situazione. Inizia a credere che ci sia un complotto del perché si insista a somministrare arance ai pasti. In ogni caso, decide di non voler perdere tempo a indagare, essendo troppo impegnato a prescrivere statine, distribuirle, rimproverare per il fatto che si siano dimenticati di prenderle. Sceglie quelle cinque persone che più le stanno simpatiche e dice: "Ore diciannove e venticinque, vecchie cucine sul pontile Sud, cucino io". Una di queste persone è il marinaio più vecchio, poi c'è il metereologo, l'infermiere, l'ispettore dell'igiene, il pulitore e un sesto, l'elettricista.
Che bella compagnia.
Il menu è semplice: minestra fumante. Gli altri non hanno nulla da obiettare perché c'è anche della birra e nemmeno l'ombra di arance. Un' enorme vetrata sull'oceano riempie gli occhi di blu e luce a mezzogiorno, di tramonto viola a cena. Seduti intorno a un tavolo, dietro il fumo dei loro rispettivi piatti, quei sette lavoratori si sentono finalmente a casa. In effetti, così calmi non lo erano stati mai. Pasto dopo pasto diventano amici, giocano a carte prima di ritornare alle loro mansioni, oppure discutono di guerre o restano in silenzio, mentre fumano, pensando a niente.
Non è un club esclusivo e nemmeno segreto, siccome l'ammiraglio è democratico nel credere che "ognuno è libero di fare quel cazzo che gli pare, per carità di Dio, saranno le vostre gengive a sanguinare, stolti, non le mie".
Dunque, se qualcuno, ogni tanto, vuole sedersi al tavolo non deve che avvisare, così da decidere i grammi degli ingredienti, sebbene questi vengano valutati, come di consueto, a occhio.
Il medico di bordo si mette il grembiule e nel giro di mezz'ora serve i piatti, toglie il grembiule e dice: "buon appetito ragazzi". Perché quest'abitudine non l'ha persa.
Di solito, il pulitore sparecchia e il metereologo suona la chitarra sussurrando canzoni nel suo dialetto. Il vecchio marinaio beve l'ultimo sorso di vino, prima di alzarsi e ringraziare i presenti per la minestra e tutto il resto, già.
"Non c'è di che" dice il medico di bordo da sopra gli occhiali tartarugati.
E la barca si muove, liscia, tra rumori di forchette, bicchieri che vengono lavati, gridi di rondini e marinai. La barca si muove come un gatto persiano su un tappeto azzurro, fino a che non giunge nel porto, magari a New York, e allora lì tutti quanti non vedono l'ora di assaggiare una torta al cioccolato e fragole, tra le luci scintillanti della città irrequieta, nell'attesa che si ritorni a bordo, lontano dal molo, verso posti che non saranno mai tanto casa quanto una cucina sull'oceano in cui una minestra fuma nel buio.
30/05/17
L'alce americano
di Cristina Taliento
Ho visto un alce americano
di cosa fosse allegoria
non saprei, no;
era semplicemente
in mezzo alla strada
e mi guardava mansueto.
Il barman sulla porta fumava
e si chiedeva cosa quell'alce
volesse da me,
ma io aspettavo
sulle strisce pedonali
a pensare risposte
a domande mute.
Ho visto un alce americano
di cosa fosse allegoria
non saprei, no;
era semplicemente
in mezzo alla strada
e mi guardava mansueto.
Il barman sulla porta fumava
e si chiedeva cosa quell'alce
volesse da me,
ma io aspettavo
sulle strisce pedonali
a pensare risposte
a domande mute.
21/05/17
Senza trama, senza finale
racconti di Cristina Taliento
La leggerezza di Genda, come io l'ho vista un mattino d'estate, nel vento che adduceva le gemme al tronco e muoveva la sua camicia di lino, era calma come una pianura di grano, era la chiave del trattore in mano e il pensiero di far bene il suo tranquillo, organizzato mestiere.
È un lavoro pesante, un lavoro pesante, ripeteva di continuo sua moglie alle vicine. Pesante. Ma invece a lui andava bene, non avrebbe voluto essere da nessuna altra parte. Arava i campi e faceva il falegname. Entrambe le cose e tutte e due con un basso, notevolmente basso, tasso d'errore. La concorrenza infatti avrebbe voluto, da cinquant'anni a quella parte, che qualche sua mano finisse sotto un rullo oppure che la motozappa gli falciasse un piede. Ma parlava poco, aveva ottant'anni, odiava gli ospedali e faceva prevenzione stando attento, non rispondendo alle domande, pensando poco agli affari che non lo coinvolgevano. Spegneva la tv e guardava le nuvole. Guarda sempre le nuvole, le nuvole, ripete di continuo sua moglie alle vicine. Oh, oh, è così profondo, ripetono le vicine. Ma il vecchio spera soltanto che piova sulle sue melanzane, cosa diavolo ci vedono di profondo e profondo nei suoi piatti occhi grigi. Così distoglie lo sguardo da lassù, ma lentamente, perché, prima che quelle parlassero, stava ricordando una poesia, un'antica poesia, ora svanita, va be'.
Io non ero altro che la nipote di un suo vecchio amico. Non volevo andare a scuola, volevo imparare il mestiere.
"Insegnami come si ara il campo"
"È un lavoro da uomini, sei un uomo tu?"
"No" dissi.
"E allora che ci fai qui?"
"Niente" dissi e me ne andai.
Passò un mese, mi andò di tornare.
"La vigna, il campo" ricordai.
"Beh, ma almeno sai innaffiare?"
"No- dissi- sono una ragazza che non ha mai messo piede in campagna".
"E allora perché non vai a studiare giurisprudenza"
"Perché non so leggere"inventai.
"E che cosa sai fare?"
"Parlare tanto, spesso a vanvera, millantare, immaginare"
"Capisco" disse serio. "D'altronde è un tipo d'atteggiamento molto diffuso questo, soprattutto tra i giovani"
"Soprattutto" ammisi.
Me ne stetti a sbuffare con la schiena appoggiata alla palizzata, ferma lì, in camicia scozzese, ad aspettare la Vita, il Talento, il Momento.
Intanto maturava la stagione, la vigna cresceva in altezza ogni giorno di più, Genda non mi dava retta, e io non sapevo fare niente a parte osservare.
"Alle volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane" mi disse un giorno, mentre lanciava il pane alle anatre. Dovevo avere, in quel momento, la fronte corrugata.
"È una frase di Italo Calvino" dissi dopo qualche secondo, al diradarsi dei pensieri.
"Io questo lo so. Però, stando a quello che mi hai raccontato, che sei un'ignorante, sei tu che non dovresti saperlo"
"Alcune cose le so" dissi e mi pentii di avergli detto di non saper leggere.
"Non mi dire bugie" disse.
"Mi dispiace, l'ho fatto perché volevo essere gambo sottile, appena nato, tabula rasa facile da scriverci sopra, invece pur essendo giovane ho letto e pensato molto e in effetti non so se vado bene per questo lavoro"
"Ci sarà sempre una parte di te che vorrà correre dietro alle chiacchiere da romanzo e un'altra che vorrà guidare il trattore. Non perdere tempo a tagliarti le parti, ma, semmai, ad aggiungerne altre. Per quel che va al di là di questo punto, è presto pensare a insegnarti a fare il campo. Dato che sei una donna, però, puoi coltivare la malva in quel piccolo fazzoletto di terra che hai alle tue spalle"
"Va bene" dissi, non sapendo bene di che colore fosse la malva.
"Mia moglie la usa per le tisane".
Mi diede una zappa e andai a vedere che tipo di terreno ci fosse.
Scoprii che la malva era una pianta selvatica, in quel caso, già spuntata tra i sassi, richiedente poca acqua, se non quella piovana. Mi chiesi cosa avessi dovuto fare, avendo la natura già fatto tutto.
"Pensa alla malva" mi gridò da lontano.
"Ci penso, ci penso" mormorai.
Poi un giorno gli venne uno pneumotorace. Avrei voluto correre alla fattoria per rivoltare tutti i cassetti in cerca di una cannuccia e qualcosa d'appuntito. Invece, menomale, chiamai soltanto un' ambulanza.
Disse: "Innaffia la vigna quando sarò partito"
Dissi ridendo pensando scherzasse: "Cos'avrò in cambio, vecchio"
Disse: "Vino". Non scherzava.
Dissi: "Acqua per vino, è l'affare meno affare della storia".
Disse solo: "Abbine cura, è l'unico modo, l'unico modo, per fare sul serio".
Fare sul serio, ero giovane, cercavo l'effimero, ma mi sembrò il senso di tutto, delle azioni, del perché del giorno, della pioggia, del campo.
La leggerezza di Genda, come io l'ho vista un mattino d'estate, nel vento che adduceva le gemme al tronco e muoveva la sua camicia di lino, era calma come una pianura di grano, era la chiave del trattore in mano e il pensiero di far bene il suo tranquillo, organizzato mestiere.
È un lavoro pesante, un lavoro pesante, ripeteva di continuo sua moglie alle vicine. Pesante. Ma invece a lui andava bene, non avrebbe voluto essere da nessuna altra parte. Arava i campi e faceva il falegname. Entrambe le cose e tutte e due con un basso, notevolmente basso, tasso d'errore. La concorrenza infatti avrebbe voluto, da cinquant'anni a quella parte, che qualche sua mano finisse sotto un rullo oppure che la motozappa gli falciasse un piede. Ma parlava poco, aveva ottant'anni, odiava gli ospedali e faceva prevenzione stando attento, non rispondendo alle domande, pensando poco agli affari che non lo coinvolgevano. Spegneva la tv e guardava le nuvole. Guarda sempre le nuvole, le nuvole, ripete di continuo sua moglie alle vicine. Oh, oh, è così profondo, ripetono le vicine. Ma il vecchio spera soltanto che piova sulle sue melanzane, cosa diavolo ci vedono di profondo e profondo nei suoi piatti occhi grigi. Così distoglie lo sguardo da lassù, ma lentamente, perché, prima che quelle parlassero, stava ricordando una poesia, un'antica poesia, ora svanita, va be'.
Io non ero altro che la nipote di un suo vecchio amico. Non volevo andare a scuola, volevo imparare il mestiere.
"Insegnami come si ara il campo"
"È un lavoro da uomini, sei un uomo tu?"
"No" dissi.
"E allora che ci fai qui?"
"Niente" dissi e me ne andai.
Passò un mese, mi andò di tornare.
"La vigna, il campo" ricordai.
"Beh, ma almeno sai innaffiare?"
"No- dissi- sono una ragazza che non ha mai messo piede in campagna".
"E allora perché non vai a studiare giurisprudenza"
"Perché non so leggere"inventai.
"E che cosa sai fare?"
"Parlare tanto, spesso a vanvera, millantare, immaginare"
"Capisco" disse serio. "D'altronde è un tipo d'atteggiamento molto diffuso questo, soprattutto tra i giovani"
"Soprattutto" ammisi.
Me ne stetti a sbuffare con la schiena appoggiata alla palizzata, ferma lì, in camicia scozzese, ad aspettare la Vita, il Talento, il Momento.
Intanto maturava la stagione, la vigna cresceva in altezza ogni giorno di più, Genda non mi dava retta, e io non sapevo fare niente a parte osservare.
"Alle volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane" mi disse un giorno, mentre lanciava il pane alle anatre. Dovevo avere, in quel momento, la fronte corrugata.
"È una frase di Italo Calvino" dissi dopo qualche secondo, al diradarsi dei pensieri.
"Io questo lo so. Però, stando a quello che mi hai raccontato, che sei un'ignorante, sei tu che non dovresti saperlo"
"Alcune cose le so" dissi e mi pentii di avergli detto di non saper leggere.
"Non mi dire bugie" disse.
"Mi dispiace, l'ho fatto perché volevo essere gambo sottile, appena nato, tabula rasa facile da scriverci sopra, invece pur essendo giovane ho letto e pensato molto e in effetti non so se vado bene per questo lavoro"
"Ci sarà sempre una parte di te che vorrà correre dietro alle chiacchiere da romanzo e un'altra che vorrà guidare il trattore. Non perdere tempo a tagliarti le parti, ma, semmai, ad aggiungerne altre. Per quel che va al di là di questo punto, è presto pensare a insegnarti a fare il campo. Dato che sei una donna, però, puoi coltivare la malva in quel piccolo fazzoletto di terra che hai alle tue spalle"
"Va bene" dissi, non sapendo bene di che colore fosse la malva.
"Mia moglie la usa per le tisane".
Mi diede una zappa e andai a vedere che tipo di terreno ci fosse.
Scoprii che la malva era una pianta selvatica, in quel caso, già spuntata tra i sassi, richiedente poca acqua, se non quella piovana. Mi chiesi cosa avessi dovuto fare, avendo la natura già fatto tutto.
"Pensa alla malva" mi gridò da lontano.
"Ci penso, ci penso" mormorai.
Poi un giorno gli venne uno pneumotorace. Avrei voluto correre alla fattoria per rivoltare tutti i cassetti in cerca di una cannuccia e qualcosa d'appuntito. Invece, menomale, chiamai soltanto un' ambulanza.
Disse: "Innaffia la vigna quando sarò partito"
Dissi ridendo pensando scherzasse: "Cos'avrò in cambio, vecchio"
Disse: "Vino". Non scherzava.
Dissi: "Acqua per vino, è l'affare meno affare della storia".
Disse solo: "Abbine cura, è l'unico modo, l'unico modo, per fare sul serio".
Fare sul serio, ero giovane, cercavo l'effimero, ma mi sembrò il senso di tutto, delle azioni, del perché del giorno, della pioggia, del campo.
16/05/17
Una bacheca
divagazioni di Cristina Taliento
All'ingresso di un supermercato qualsiasi, appena nascosta da una moto-giostra a gettoni, c'è una bacheca abbastanza lunga, piena di biglietti Compro, Vendo, Cerco.
C'è anche un bancomat; così la mia amica mi chiede se l'aspetto mentre preleva. Okay.
Mi avvicino alla bacheca e guardo le diverse grafie. Sono molto diverse, eleganti, impacciate, coraggiose. Strano che mi colpiscano così tanto, forse perché nessuno scrive più biglietti e lettere, forse perché se cerchi o vendi qualcosa, ormai c'è Internet. Che razza di arretrati nostalgici quelli che scrivono ancora i loro post-it e li attaccano qui!
Però continuo a leggere con composto rispetto, come se fossi davanti a un epitaffio. Quello che vende la fisarmonica non potrebbe avere un corsivo diverso. Già.
Poi faccio un passo indietro e vedo tutti quei biglietti insieme, in un unico colpo d'occhio, ed è come se stessi guardando nient'altro che persone, un bel gruppo di persone, vecchie, curve, alte, giovani, con i loro grilli per la testa, i loro oggetti in mano.
Non ho nostalgia di come andavano gli affari prima della tecnologia, ho solo questa riflessione in tasca che, in effetti, su un bigliettino starebbe meglio che su un blog, ma tant'è.
"Fatto!" esclama la mia amica alle mie spalle.
Così ritorno al presente senza più pensare a come cambia il Mondo, a come cambiamo noi, le situazioni, le cose, se mi piace oppure no.
All'ingresso di un supermercato qualsiasi, appena nascosta da una moto-giostra a gettoni, c'è una bacheca abbastanza lunga, piena di biglietti Compro, Vendo, Cerco.
C'è anche un bancomat; così la mia amica mi chiede se l'aspetto mentre preleva. Okay.
Mi avvicino alla bacheca e guardo le diverse grafie. Sono molto diverse, eleganti, impacciate, coraggiose. Strano che mi colpiscano così tanto, forse perché nessuno scrive più biglietti e lettere, forse perché se cerchi o vendi qualcosa, ormai c'è Internet. Che razza di arretrati nostalgici quelli che scrivono ancora i loro post-it e li attaccano qui!
Però continuo a leggere con composto rispetto, come se fossi davanti a un epitaffio. Quello che vende la fisarmonica non potrebbe avere un corsivo diverso. Già.
Poi faccio un passo indietro e vedo tutti quei biglietti insieme, in un unico colpo d'occhio, ed è come se stessi guardando nient'altro che persone, un bel gruppo di persone, vecchie, curve, alte, giovani, con i loro grilli per la testa, i loro oggetti in mano.
Non ho nostalgia di come andavano gli affari prima della tecnologia, ho solo questa riflessione in tasca che, in effetti, su un bigliettino starebbe meglio che su un blog, ma tant'è.
"Fatto!" esclama la mia amica alle mie spalle.
Così ritorno al presente senza più pensare a come cambia il Mondo, a come cambiamo noi, le situazioni, le cose, se mi piace oppure no.
18/04/17
Giotto sull'acqua - Ritratti di persone
divagazioni di Cristina Taliento
(Painting by Rob Gonsalves)
Giotto sull'acqua è un artista che non usa la prospettiva e disegna sull'asfalto, sull'ultimo ponte, dove, a dire la verità, non passa quasi mai nessuno, a parte i corridori delle sette di sera che si spostano veloci di lato per non calpestare i suoi gessetti colorati. Il fiume è asciutto, verde di piante.
Giotto sull'acqua avrà trent'anni ed è senza lavoro.
Lo guardo, gli chiedo perchè disegna sempre un pittore di spalle che disegna. Mi sembra autoreferenziale.
Dico: "Sei tu quello?"
Dice: "No, perchè?". Non gli piacciono le domande, nè le persone che interpretano i suoi quadri. Mi giro, non c'è manco un cappello per lasciarci dentro qualche moneta.
Un gruppetto di sessantenni in tenuta da corsa ci circonda per un attimo come uno sciame di passaggio. Non dico niente e resto ad ascoltare il rumore di passi che s'allontanano.
Poi mi decido: "Disegni sempre un pittore di spalle che disegna per terra, una specie di specchio nello specchio. Che significa?".
"Già, specchio nello specchio, foto da foto. Che significa?". Mi guarda con sguardo interrogativo.
"Non lo so" dico alzando le spalle e aggiungo: "Non ho molta fantasia di questi tempi".
Tira su col naso.
Dice: "L'arte non deve avere sempre un senso. Basta che mi piaccia, che descriva il mio oceano interiore".
Quando parla ha un accento diverso da quello di questa città. Mi sembra dell'Est.
"Ti senti uno straniero, uno che si guarda dall'esterno?" domando su due piedi.
"Può darsi" e abbassa lo sguardo.
Così mi è venuto in mente un personaggio dei miei vecchi racconti del Mal Adriatico: il Sorseggiatore.
Il Sorseggiatore è un uomo sulla quarantina che parla poco e niente, gira per la città con una tazza di caffè in mano da cui beve qualche sorso di tanto in tanto, mentre guarda le scene di vita del paese. Gli altri ovviamente lo detestano, ma a lui importa poco. La cosa divertente di questo personaggio è più che altro la tazza di caffè che si porta dietro ovunque vada, tra le strade e nelle piazze del mondo, lontano dai tavolini di qualsiasi bar, lontano da se stesso. Il Sorseggiatore non sai mai se abbia l'intenzione vera di osservare, scrutare, oppure se tutto quello sguardo buttato a briglia sciolta sull' orizzonte non sia che il naturale passatempo di chi, in realtà, sta soltanto bevendo un caffè.
Poi penso, però, che Giotto sull'acqua non assomiglia per niente al Sorseggiatore, che probabilmente Giotto sull' acqua non avrebbe mai il coraggio di fissare qualcuno per più di due sbadati secondi.
"Foto da foto" ripeto sovrappensiero.
"Foto da foto, ovvero guardare attraverso il filtro del tempo e dello spazio per non tremare troppo".
"Apperò" esclamo per sdrammatizzare.
Sorride imbarazzato. È un artista.
03/04/17
Sotto al palco
(Cupola di San Giovanni Evangelista, Correggio, Duomo di Parma)
Sotto al palco.
La diligenza ci veniva facile,
non ci sforzavamo tanto
e bere non ci piaceva.
Eravamo ragazzi tranquilli,
ma con le Converse
in mezzo a manichini eleganti.
Con educazione,
ballavamo forte,
da soli,
gli occhi grandi di chi ha poco,
perchè la Libertà era
tutto quello che avevamo.
(C.Taliento)
26/03/17
Amnesia
divagazioni di Cristina Taliento
Amnesia è un paese, piccolo, molto piccolo, non so bene dove si trovi, magari vicino la costa oppure sui monti, chissà. Non mi ricordo se si scriva "Amnesia" o "Amnesya" con la "y". Però è un gran paese, sempre più grande ogni giorno che passa.
Le persone che ci abitano hanno sempre un gran da fare. Devono badare agli altri, alla casa, agli animali del cortile, ai fiori, devono pulire la cucina, studiare, mettere in ordine la scrivania, chiedere scusa, scrivere. Però, la maggior parte del tempo, non fanno niente.
Le loro emozioni sono maledettamente importanti, per loro sono quasi tutto. "Quasi" perchè c'è anche quel piccolo dettaglio, quel piccolo fatto che occorre considerare, ovvero che talvolta contano meno di zero, non ci sono, non si trovano, sparite.
Amnesia è tutto e niente, ha la durata di una foto, vive nel presente e poi muta in continuazione. I palazzi, le strade, il corso del fiume, ogni cosa a volte scompare, poi riappare, ma diversa, con un colore più chiaro o più scuro. Una volta, ad esempio, le nuvole sono diventate verdi! E tutti quanti ci hanno fatto un sacco caso, ma poi sono ritornate com'erano prima e nessuno ha riferito quel fatto, nessuno se n'è ricordato più.
Tutti e nessuno. Ad Amnesya si ragiona in questi termini e a chi importa chi diavolo tu sia veramente, che cosa ti piaccia; l'identità è un concetto duraturo e, in questo grande piccolo paese, il tempo è deformabile, molle e dolce come il miele.
Una volta è stato eletto il sindaco. Per un'ora c'è stato un bel baccano d'ideali e sogni, dopo l'elezione si è sentito un tuono e tutti a correre a destra e a sinistra, lungo la piazza, per mettersi a riparo dalla pioggia. Così quell'intera situazione è mutata completamente in una sorta di gara dentro i sacchi dove chi arrivava per primo vinceva un pacco di caramelle impermeabili. E degli ideali e dei sogni non è rimasto che il megafono attraverso il quale erano stati in precedenza urlati. Ora, immaginatevi un megafono abbandonato sull'asfalto, ancora caldo d'invettiva... buffo davvero. Il sindaco neoeletto si è chiesto come mai quel giorno avesse messo la cravatta. Ma non doveva andare a correre? Che accidente ci faceva lì, su quel palco, sotto la pioggia?
Ah... Amnesia è fatta così... non bisogna prenderla troppo sul serio, un giorno fa buio alle cinque del pomeriggio, mentre il giorno dopo alle dieci di sera. Non si vive male, per carità, però a volte ti viene una strana nostalgia di un posto che cercavi e che non trovi più e chissà se sia davvero esistito, oppure una nostalgia di certe persone e sentimenti di cui, tuttavia, non è rimasta nemmeno la memoria, nemmeno il più piccolo ricordo.
19/03/17
Luna bianca di piuma - Poesie metropolitane
Il cavaliere (San Giorgio), Kandinskij, 1914-15, Mosca |
Non siamo niente
tranne farfalle
che volano nella notte
tra autobus lenti
e musiche rock di una casa occupata;
si fa presto a far le due,
mentre tutto si muove
a parte la Luna,
bianca di piuma.
E non c'è davvero nessuno,
soltanto semafori rossi poi verdi
poi rossi poi verdi
e strade deserte,
così vuote che potremmo
cantare
o giocare ai Cavalieri:
"Ehi tu, fermo lì,
ti dichiaro colpevole
d'alto tradimento"
(C.Taliento)
25/02/17
Strade in febbraio verso Carnevale
di Cristina Taliento
(Dunlop Street, Little India by PaulArtSG)
(Dunlop Street, Little India by PaulArtSG)
Strade. Strade sotto nuvole, coriandoli qua e là. Cammino per vie che allungano il percorso, come spesso accade in febbraio, come dicevo sotto più nuvole che sole, tra i coriandoli, in mezzo ai ragazzini dagli occhi grandi che tornano da scuola. Autobus, fruttivendoli, lattine di birra per terra, mentre l'Uomo del Kebab esce dal suo locale, con ancora il grembiule addosso, guarda a destra, a sinistra, sono le tre del pomeriggio, chi vuoi che abbia ancora fame a quest'ora. Smontano dal turno della mattina i volontari di Croce Rossa. Alcuni li conosco, faccio un cenno del capo.
C'è una piazza più avanti - più avanti rispetto ad un posto indefinito- una piazza, dicevo, diversa dalle altre. Si ritrovano gli immigrati, ascoltano musica ad alto volume, appoggiati ad un muretto ridono, scherzano, mi chiamano 'bela ragaza'. Ma no, non è vero. Sembrano felici, sollevati, come se stessero bene. La musica è una musica che non conosco, qualcosa di lontano, diverso dai miei gusti, ci sono troppi suoni, a stento riconosco la presenza di una chitarra. Alcune mamme spingono passeggini vuoti, i bambini corrono per la piazza. Non so, vorrei fermarmi un attimo, inventare una scusa per restare lì con loro. Così, rallento, respiro quel sound semplice, l'energia di un gruppo di persone che sta condividendo qualcosa, cosa non so, magari soltanto un'idea, un ricordo, il senso dell'appartenenza. Penso che, se rallento il passo, do il tempo alle parole di maturare, di capire cosa sta sentendo il cuore perchè, alla fine di quella piazza, ci saranno strisce pedonali e palazzi, altre strade e chissà che fine farà quella sensazione, il calore. Così mi appunto queste parole in testa, accanto alla definizione di linfangioleiomiomatosi:
vi era una piazza,
laddove nessuno poteva non ridere alle battute del vecchio Amad
e dove i bambini correvano sulle punte dei piedi,
del resto, la loro leggerezza lo permetteva.
Per cui io mi toglievo il cappello,
temporeggiavo, volevo starci dentro,
altri trenta secondi soltanto.
E più o meno è sempre la musica a descrivere i colori, le strade. Il suonatore di fisarmonica dalle belle mani ha una visiera che gli copre metà del viso. Sbaglia una nota e poi un'altra ancora, ma è la strada, mica un teatro e chi se ne frega, è tutto un macello, un pomeriggio disordinato di gabbiani e corvi, clacson, tassisti in protesta, vecchi polemici che commentano ad alta voce le notizie sulle locandine all'esterno delle edicole e cani, tantissimi cani di tutte le razze, barboncini, rottweiler, pastori tedeschi, dalmata e jack russel.
Il negozio di prodotti Bio ormai va alla grande.
E tutto va,
come deve andare.
Per le vie del centro, poi, ogni volta, seduto, c'è il suonatore di xilofono. In realtà non è uno xilofono, ma una specie di strumento a corde che forse si è costruito da solo e che comunque si suona dall'alto, con entrambe le mani e non riesco mai a capire cosa stia afferrando. Si muove velocemente, scuotendo la testa come se fosse in un'altra dimensione, un posto lontano, in mezzo a chissà quante contraddizioni e pensieri strani. Me lo ricordo da sempre. E' anziano e forse schizofrenico. Una volta l'ho visto correre, in modo confuso, spaventato. Si guardava alle spalle, ma non c'erano che persone, distratte, di fretta, maschere innocue. Quella è stata l'unica volta in cui l'ho visto in piedi, camminare. E chissà se ha mai freddo a stare lì a suonare tutto il tempo.
C'era un uomo, un suonatore di strada
Pochi capelli, una giacca.
Il suo strumento l'aveva plasmato a immagine della sua anima.
Era completamente pazzo,
ma tra tutti i passanti,
il più vero, il più naturale.
24/02/17
Lo Studio e Le Onde
di Cristina Taliento
(Tolido's Expresso Nook, Singapore)
Ansia quieta un mattino d'inverno,
il cielo celeste come la Medicina,
la mia scrivania è un'immensa pianura,
ho una camicia a quadri e grinze,
sempre
la
stessa,
e aereoplani di carta,
barchette bianche,
ricordi d'infanzia.
Gli appunti come sono belli,
che bella scrittura...
ma solo io non capisco
quello che leggo?
Nei miei capelli, farfalle.
Ripeto in piedi,
dov'è il mio letto.
Tre tazze vuote, sporche di caffè.
Dov'è la matita.
Dove sono le mie Norvegie psicosomatiche
di cui ora non vedo che orizzonti lontani
e limiti.
E se invece,
sabato
andassi a respirare il mare
nel posto più vicino,
da sola?
Quanto disapprendere dovrei,
quanti libri all' incontrario sfogliare,
per ritornare a sentire
le onde, il silenzio del faro,
quel pomeriggio?
(Tolido's Expresso Nook, Singapore)
Ansia quieta un mattino d'inverno,
il cielo celeste come la Medicina,
la mia scrivania è un'immensa pianura,
ho una camicia a quadri e grinze,
sempre
la
stessa,
e aereoplani di carta,
barchette bianche,
ricordi d'infanzia.
Gli appunti come sono belli,
che bella scrittura...
ma solo io non capisco
quello che leggo?
Nei miei capelli, farfalle.
Ripeto in piedi,
dov'è il mio letto.
Tre tazze vuote, sporche di caffè.
Dov'è la matita.
Dove sono le mie Norvegie psicosomatiche
di cui ora non vedo che orizzonti lontani
e limiti.
E se invece,
sabato
andassi a respirare il mare
nel posto più vicino,
da sola?
Quanto disapprendere dovrei,
quanti libri all' incontrario sfogliare,
per ritornare a sentire
le onde, il silenzio del faro,
quel pomeriggio?
19/02/17
Le cose che abbiamo da dirci
divagazioni di Cristina Taliento
Vasilij Kandinskij - Zartes Gemüt (Delicate Soul), 1925. Watercolour and pen and ink on paper , 47 x 37.1 cm, Sotheby's Images, London
"Il mondo cambia" invento.
"Si" risponde il Mondo.
"Okay- e aggiungo- non è passato molto tempo".
Le cose che abbiamo da dirci sono per di più le seguenti:
Vasilij Kandinskij - Zartes Gemüt (Delicate Soul), 1925. Watercolour and pen and ink on paper , 47 x 37.1 cm, Sotheby's Images, London
Le cose che abbiamo da dirci- io e il Mondo- a volte sono tante, a volte sediamo di fronte, in un bar, io prendo in mano la saliera, inizio a giocarci, non so che dire. Il Mondo è chiunque, per esempio l'edicolante delle sette e dieci, l'edicolante che vedo una volta al mese quando esce il nuovo numero di Scienze; dice non appena mi vede cercando tra le riviste: "salve, ecco qui, l'ho messo da parte". Dico: "grazie mille". Che poi, perché mille?
Dice: "Nessuno legge più il giornale ora che c'è l'Internet". Sorrido per l'articolo: l'Internet."Il mondo cambia" invento.
Le cose che abbiamo da dirci- io e il Mondo- sono più belle quando non ci penso, quando non so chi sono, il vento soffia sulle stelle che brillano, quando non mi importa di essere capita o mal interpretata. È allora che il Mondo ride, sorride, per qualcosa che ho detto, qualche strano collegamento della mia mente che a lui è sembrato divertente e che io, boh, davvero manco mi ricordo. Mi fermo, il Mondo mi guarda e restiamo in silenzio a respirare l'aria della sera. Così io gli chiedo quando è stata l'ultima volta che si è sentito davvero sé stesso.
"Ehm- fa il Mondo alzando le sopracciglia - forse quando ho cucinato per mio zio malato. Di solito è mia nonna che se ne occupa, ma giovedì ci ho pensato io e ho sentito un bel calore nel petto, un essere me che mi piaceva".
"Giovedì della scorsa settimana? " domando."Si" risponde il Mondo.
"Okay- e aggiungo- non è passato molto tempo".
Le cose che abbiamo da dirci sono per di più le seguenti:
Mi scusi, potrei, la prego, quanto dista, grazie, prego, potrei chiederle gentilmente, grazie, vorrei, potrebbe per favore, non le dispiace se, che maleducato, non parlo la sua lingua, yes I speak english, mi fa passare, ma perchè non metti la freccia, si figuri, thank you, si non c'è problema, prego vada avanti lei, ma certo, no non ho la tessera, si ho la tessera ecco, grazie, prego, buongiorno e buonasera, alza gli occhi da quel cellulare.
Le cose che abbiamo da dirci - io e il Mondo - dormono nei sogni irrequieti in cui vorrei alzare la voce e dire la mia con la stessa indignazione di quando ero bambina, con quella rabbia bella che a volte credo di aver perso e a volte sento di provare.
"Ma come Cristellina- fa il Mondo- arrabbiata te, che sei la più calma di Me?"
"E invece me le hai proprio rotte!" esclamo.
Le cose che abbiamo da dirci...già. La maggior parte delle volte cambiamo argomento. Io e il Mondo seduti su una panchina del parco a mangiare le caldarroste . Vorrei parlargli del cielo e invece gli chiedo se cortesemente può evitare di buttare le bucce per terra.
14/01/17
Bowie
Era gennaio.
Assistevo a una laringectomia
In una sala sterile antartica,
puri iceberg di bisturi.
In seguito lì avrebbero detto,
Che avrebbero detto
Che il Re della Musica
nella sala a fianco,
moriva di cancro
E io nel frattempo
lasciavo di fretta il Futuro,
correvo coi jeans nel vento,
arrivavo in un lampo.
Stridevano invece
le sue corde vocali,
nerastre flebili note...
liquida flebile voce.
E altrove prima ridevo,
Lieta, niente sapevo
della sua malattia.
(C. Taliento)
13/01/17
Il club dei narratori senza narrazione
di Cristina Taliento
(Convergence, Jackson Pollock, 1952, oil on canvas)
(Convergence, Jackson Pollock, 1952, oil on canvas)
Questo è il giorno perfetto per scrivere, a volerlo fare, a saperlo fare. Ad esempio, il cielo è celeste e davanti al cielo c'è un albero verde scuro e questi due colori insieme ispirano tante cose, tante cose tutte insieme e se si fosse scrittori, si farebbe un bel narrare, un narrare liscio, senza ripetizioni nè malinconie, una roba forte doppio malto, doppio whisky da bere in un sorso e poi cadere stecchiti sul pavimento, simulando teatrali convulsioni, spasmi, morte. C'è persino del fumo poetico che esce da sopra un tetto, nell'aria gelida di un gennaio enigmatico. Questa mattina poi le strade erano ghiacciate e così in strada al posto delle macchine e delle persone c'era il Silenzio. E a certi scrittori, si sa, il Silenzio piace.
Eppure per i narratori senza narrazione, i giorni così sono buoni solo da vivere internamente, perchè questi narratori non hanno abbastanza parole adatte per descriverli, per farne Scrittura; invero, spesso si confondono e ridono, si perdono nei dettagli, respiri, più piccoli, quelli da cui non potrà nascere nè una trama, nè un finale. Sorridono, dicono che non fa niente e si toccano la fronte, a loro non importa se sono nati senza talento. Quello che fanno è andare semplicemente tutti insieme sul terrazzo della casa di Giò. Per convenzione, hanno deciso di salutarsi alzando la mano, evitando di dire "ciao" o altre riverenze del genere. Qualcuno fuma e qualcun'altro no, tutto qui. Le innumerevoli Storie che hanno in testa si possono paragonare ai fili elettrici che come ragnatele si intrecciano nelle strade e tra le quali, talvolta, resta impigliata una piuma, una busta di plastica o, se si guarda dalla giusta prospettiva, la stella delle diciassette e venti che ha tutta l'aria di essere un tramonto.
I narratori senza narrazione si siedono da qualche parte, dove trovano, in punti diversi, lontani tra di loro. C'è chi dà le spalle al vuoto e chi nel vuoto ci fa dondolare le gambe, sentendo il crepuscolo sulla lingua, mentre i primi lampioni si accendono e i merli camminano sui cornicioni.
Non sono sempre gli stessi. Quando qualcuno scrive un libro, saluta tutti e se ne va. Allo stesso modo, salgono sul tetto quegli scrittori che non hanno più niente da dire oppure non vogliono più narrare e si arrabbiano se chiedi perchè.
Per essere ammessi basta soltanto bisbigliare qualcosa a proposito dell'Infinito in senso metafisico o in senso organolettico, dichiarando di essere ispirati e incapaci, entusiasti incompetenti, commossi dal cielo, ragazzi dentro, orecchi musicali. E poi basta, ti siedi e stai lì con te stesso, con le Storie, le Descrizioni, i Capoversi, i Capitoli ed è una specie di racconto immaginato, sbiadito, evaporato nella sera. Come un blues, il tuo blues evaporato nella sera.
04/01/17
Il mio maestro di chimica
di Cristina Taliento
Il maestro di chimica m'insegnò la chimica in un'estate, era nato nel 1948, mi dava appuntamento alle sette del mattino, era un po' basso, assomigliava a Noam Chomsky. Io gli chiesi: "In quanto tempo si può imparare la chimica organica?". Avevo fretta, non sapevo niente, volevo fare a tutti costi lo studente di Studi sull'Uomo, dovevo sostenere dei test per essere ammessa. Mi guardò e sospirando disse: "Dipende da come la si affronta, da quanto si scende in profondità". Va bene, va bene, dissi calma, dissi disperata, va bene dissi sedendomi.
Iniziamo, disse.
Aveva uno strano metodo d'insegnare. Si prese il mio quaderno, me lo sfilò da sotto il naso e iniziò a scriverci sopra- lentamente- le definizioni, le spiegazioni che diceva ad alta voce.
Troppo lento, troppo lento, pensavo, col cuore in gola, senza fiatare, non ce la faremo mai.
La sua grafia pendeva a destra, non abbreviava quasi mai.
Abbrevia dai, è lunghissima sta parola, pensavo.
Iniziai a portare due quaderni: uno era il suo, quello dove scriveva lui e l'altro me lo presi io, per scrivere anch'io, per stare attenta. Mentre parlava, scrivevamo. Iniziai a trovare delle difficoltà, mi perdevo, sbagliavo quegli esercizi, lui c'entrava il punto. Capiva cosa non capivo. In breve, mi correggeva. Andavamo avanti.
Ogni tanto bussava sua moglie, ci chiedeva se volessimo il caffè. Io dicevo sempre "no grazie", a quel tempo ancora non ne bevevo, avevo in circolo una strana bizzarra adrenalina che non mi faceva stare calma neanche quando ero seduta e silenziosa. Anche il maestro di chimica non prendeva il caffè, come se non volesse interrompere il filo del nostro discorso, ma tutte le volte ringraziava sua moglie e questo mi faceva credere che egli non fosse così abitudinario, che magari qualche volta accettava di berlo e sua moglie considerava quella possibilità.
Riprendevamo velocemente. Non c'era tempo.
Mi dava appuntamento alle sette di mattina. Io mettevo la sveglia alle sei di un agosto afoso. Una volta mi disse che alle sette di mattina lui tornava dalla campagna. Ci andava alle cinque. Per tutte le pigne di Re Quercia, pensai. Quest'uomo è la mia guida, il mio esempio, pensai. Un chimico contadino. Perbacco, perbacco, è questa la Vita.
Fu un'estate di lunghi silenzi e, tuttavia, di pace assoluta. C'ero io, i miei altissimi muri, le mie paure che avevano le sembianze di pagliacci e piante infestanti. E poi c'era quel metodo di scrittura lenta che il maestro usava per farmi capire, quella tana calda del pensiero da cui non volevo muovermi, quel modo così lontano dalla velocità con cui di solito facevo saltare in aria i concetti, uno a uno, quando imparavo da sola.
Mi buttavo spesso giù. Non mi dava retta. Era anziano. Agli anziani certe previsioni incerte sul futuro non interessano. E se non avessi passato i test, avrebbe detto: "prendiamoci quel caffè, ah no, tu non ne bevi", e io avrei detto: "forse è il caso di iniziare a farlo". Invece venni ammessa. Lui sorrise, quel giorno sorrise.
Disse ridendo: "e chi l'avrebbe mai detto che ce l'avresti fatta proprio tu". Non ero l'unica tra i suoi studenti.
Sorrisi, risi, una lacrima. È strano come ci troviamo a fare delle scelte di vita quando siamo solo dei ragazzi, impauriti, emotivi, incapaci, pieni di incertezze.
Morì due anni dopo per un tumore dello stomaco. Me lo disse mia madre al telefono, dopo una lunga conversazione riguardo a come fare e non fare il ragù, me lo disse alla fine, così, come per le cose non proprio importanti.
Invece, era importate, lui era il mio Maestro.
In memoria (1948-2014)
Il maestro di chimica m'insegnò la chimica in un'estate, era nato nel 1948, mi dava appuntamento alle sette del mattino, era un po' basso, assomigliava a Noam Chomsky. Io gli chiesi: "In quanto tempo si può imparare la chimica organica?". Avevo fretta, non sapevo niente, volevo fare a tutti costi lo studente di Studi sull'Uomo, dovevo sostenere dei test per essere ammessa. Mi guardò e sospirando disse: "Dipende da come la si affronta, da quanto si scende in profondità". Va bene, va bene, dissi calma, dissi disperata, va bene dissi sedendomi.
Iniziamo, disse.
Aveva uno strano metodo d'insegnare. Si prese il mio quaderno, me lo sfilò da sotto il naso e iniziò a scriverci sopra- lentamente- le definizioni, le spiegazioni che diceva ad alta voce.
Troppo lento, troppo lento, pensavo, col cuore in gola, senza fiatare, non ce la faremo mai.
La sua grafia pendeva a destra, non abbreviava quasi mai.
Abbrevia dai, è lunghissima sta parola, pensavo.
Iniziai a portare due quaderni: uno era il suo, quello dove scriveva lui e l'altro me lo presi io, per scrivere anch'io, per stare attenta. Mentre parlava, scrivevamo. Iniziai a trovare delle difficoltà, mi perdevo, sbagliavo quegli esercizi, lui c'entrava il punto. Capiva cosa non capivo. In breve, mi correggeva. Andavamo avanti.
Ogni tanto bussava sua moglie, ci chiedeva se volessimo il caffè. Io dicevo sempre "no grazie", a quel tempo ancora non ne bevevo, avevo in circolo una strana bizzarra adrenalina che non mi faceva stare calma neanche quando ero seduta e silenziosa. Anche il maestro di chimica non prendeva il caffè, come se non volesse interrompere il filo del nostro discorso, ma tutte le volte ringraziava sua moglie e questo mi faceva credere che egli non fosse così abitudinario, che magari qualche volta accettava di berlo e sua moglie considerava quella possibilità.
Riprendevamo velocemente. Non c'era tempo.
Mi dava appuntamento alle sette di mattina. Io mettevo la sveglia alle sei di un agosto afoso. Una volta mi disse che alle sette di mattina lui tornava dalla campagna. Ci andava alle cinque. Per tutte le pigne di Re Quercia, pensai. Quest'uomo è la mia guida, il mio esempio, pensai. Un chimico contadino. Perbacco, perbacco, è questa la Vita.
Fu un'estate di lunghi silenzi e, tuttavia, di pace assoluta. C'ero io, i miei altissimi muri, le mie paure che avevano le sembianze di pagliacci e piante infestanti. E poi c'era quel metodo di scrittura lenta che il maestro usava per farmi capire, quella tana calda del pensiero da cui non volevo muovermi, quel modo così lontano dalla velocità con cui di solito facevo saltare in aria i concetti, uno a uno, quando imparavo da sola.
Mi buttavo spesso giù. Non mi dava retta. Era anziano. Agli anziani certe previsioni incerte sul futuro non interessano. E se non avessi passato i test, avrebbe detto: "prendiamoci quel caffè, ah no, tu non ne bevi", e io avrei detto: "forse è il caso di iniziare a farlo". Invece venni ammessa. Lui sorrise, quel giorno sorrise.
Disse ridendo: "e chi l'avrebbe mai detto che ce l'avresti fatta proprio tu". Non ero l'unica tra i suoi studenti.
Sorrisi, risi, una lacrima. È strano come ci troviamo a fare delle scelte di vita quando siamo solo dei ragazzi, impauriti, emotivi, incapaci, pieni di incertezze.
Morì due anni dopo per un tumore dello stomaco. Me lo disse mia madre al telefono, dopo una lunga conversazione riguardo a come fare e non fare il ragù, me lo disse alla fine, così, come per le cose non proprio importanti.
Invece, era importate, lui era il mio Maestro.
In memoria (1948-2014)
02/01/17
Pranzo
Voglio restare qui seduta a rimirare
due vecchi un po' brilli
che ricordano e bevono,
confondono anni e nomi di strade,
seduti scomposti,
seduti di lato,
nessuno li ascolta,
sono sordi,
e forse matti,
però attorno a loro io sento
un bel venticello,
un vento marino
che rischiara i colori;
le finestre son chiuse,
le candele accese,
può darsi si tratti di un'altra energia,
può darsi sia questa la Vita.
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