20/07/19

Xylella

di Cristina Taliento


(3 maggio 1808, Francisco Goya)


Ho provato più volte a scrivere degli ulivi, ma tutte le volte mi sembrava come cercare di descrivere un saggio col cuore profondo e gli occhi lontani, valore segreto e antico per cui nutro una certa riverenza, qualcosa più grande di me che per certi aspetti sono ancora una ragazzina.

Scheletri di alberi prima dell’orizzonte
strozzati da cordoni e nervi,
rami freddi, tesi, extraruotati,
soldati solitari nella pianura,
dispersi come mandrie abbandonate.

Un cane mi corre incontro,
il suono delle cicale, l’odore del grano.
Sono tornata a casa
dopo tanto tempo,
ma qui è tutto diverso. 

La notte sogno che secco anch’io, un orecchio va in necrosi, poi il primo dito del piede. Una voce mi dice che è consigliabile amputare. Mi sveglio spaventata.
Tuttavia con i miei vecchi mi mostro risoluta, da buona figlia del secolo nuovo dico: “Che sarà mai, che vengano estirpati e si pianti la vigna!”.
E tutti tacciono. La cucina viene invasa dai ricordi dei presenti che evaporano dalle teste e iniziano a ronzare intorno al lampadario. Nessuno li vede, ma io li sento vibrare. Mi fanno male. Per cui continuo : “Tanto è inutile piangere sul latte versato, no? Nella storia degli uomini queste cose sono sempre accadute, se non volete la vigna, ebbene che siano piante di avocado!”.
Appoggio il telecomando sul libro di Joyce. Piante di avocado. Addirittura.

Le campagne hanno i nomi così puoi identificarle, migliorarle, puoi averne cura.
 Così puoi dire “vado lì...” e non in una campagna qualsiasi, ma proprio quella, la tua. La tua perché se non cadesse la pioggia le tue orme si potrebbero contare a milioni, se i bambini non diventassero grandi, saremmo ancora tutti lì a rincorrerci, a ferirci le ginocchia, ad essere felici. Io ad arrabbiarmi, mia sorella a piangere, mia madre che ci rimprovera, il pastore tedesco steso sul prato.
E ognuno vivrebbe la campagna a modo suo,
 i vecchi come la loro vita, il loro giorno,
il loro spirito,
mia nonna come il suo focolare,
 io come un piccolissimo, minuscolo, spiraglio di infinito.

E fare tutto per loro, per gli ulivi, gioire se piove, se non piove, svegliarsi alle cinque e sentire di appartenere a qualcuno, di essere il custode di qualcosa di immortale, solenne, scolpito dai venti, guardiano del tempo; e piantarne di nuovi anche se hai ottant’anni e un cancro e non li vedrai più alti nemmeno di un centimetro. Tutto questo perché la morte dell’uomo non può fermare il patto tra gli uomini e gli ulivi, non può fermarne l’alleanza, le stagioni, la fiducia nel futuro.

Restammo a guardare quello che restava,
i cambiamenti del nostro sentire,
le fronde grigie.
Il vecchio si accese una sigaretta,
poi buttò il mozzicone nel falò.
Indietreggiai.
Fumo nei campi, ululati.
dietro le fiamme un cane lupo.
I nostri occhi si incrociarono.
Il cuore mi batteva all'impazzata.
Mi prese ad un tratto una forte voglia
di mostrarmi com’ero,
senza finzioni, senza riguardi per nessuno,
con quei quattro ideali ottusi
d’umanità, verità, giustizia
accettando sacrificio e dolore,
camminando sulle mie gambe
come sempre in direzione 
ostinata e contraria 
col mio marchio speciale di
speciale disperazione.

Ma questo non c'entrava con gli ulivi.
Era solo un' altra specie di discorso.

Disse: proveremo a innestarli.
Dissi: e se non funziona?
Rise: pianteremo quella stramaledetta vigna.