29/09/19

Descrizioni del suono per non udenti - La pizzica

velleità di Cristina Taliento


"Chi balla la pizzica non muore mai"




E c'è un campo di orchidee, un mare di orchidee bianche. Io m'immagino sempre che sia il silenzio, l'assenza del suono, la meraviglia. Una casa cantoniera in lontananza, una decina di pini in fila...

La canzone inizia con un lieve venticello che spira da destra, non forte, ma tenue come tutte le cose tenui e delicate, come settembre, i colori pastello, la domenica, i giornali sul tavolo.
Poi cresce, non che cambi del tutto, ma si trasforma dalla sua idea semplice, come l'idea semplice di un settembre che all'improvviso diventa un torrido settembre, ventilatori ancora accesi, gente che si lamenta del caldo negli uffici postali. 
Un treno passa a un chilometro di distanza, i colori pastello vibrano sul tavolo. Il vento scompagina i giornali sul tavolo e tu sei di nuovo giovane, nel campo di orchidee del silenzio hai di nuovo diciassette anni e un nuovo amore, cento solitudini e un pugno di dadi da lanciare nel cielo.
E seduto sotto il portico della casa cantoniera c'è un vecchio che fuma sull'uscio e ti guarda lontano. Occhi di oceano, oceani di Novecento. Forse è tuo padre o solo il guardiano. Qualcosa di familiare, un leggero solletico come di giorni vissuti. 
Quando arrivano i tamburelli- e nella canzone arrivano dopo- le orchidee diventano gabbiani, uccellacci di porto, sfacciati e vivi come la tramontana che pure in quella campagna prende ad impazzare, insieme ai ricordi, perchè la pizzica è nostalgia, il tuo volto giovane dietro lenzuola stese al sole, che schivo teme e pur desidera, sorride, si nasconde, che scappa ridendo saltando da un terrazzo all'altro con un vestito lungo che alzi con le mani per non inciampare e capelli lunghi biondi spettinati volano nell'argenteo Tempo,  lontano dagli anni, nell'irriverenza di un antico pomeriggio, mentre rondini e gabbiani dipingono lo scenario del sogno numero quindici steso su vernice blu cobalto con strisce di blu oltremare e 
pesci rossi nuotano
in verdi damigiane
di vino bianco 
appoggiate sui muretti di casolari con gatti magri che ci camminano intorno, code rialzate, l'andatura lenta dell'attesa che non è altro che la pausa nel pentagramma, la mano che accarezza la pelle del tamburello e si riposa, il raggio di sole che esita sui vetri... e riprende, dopo la pausa riprende, cade un ramo, riprendi a correre, annaspando tra le extrasistoli, battere e levare, 
trattieni il suo sguardo,
 e dici scherzando, 
e non sei mai stata così seria, 
ritorniamo qui per sempre.

Alla fine tutto si riavvolge e sei di nuovo in quel mare di orchidee bianche. E poi inizia un'altra canzone.




(L'ultima volta, Francesco Guccini)


17/09/19

Sotto un tempo da lupi io mangio un gelato


di Cristina Taliento


Questo scritto risale al 12/06/2017




(St. George and the dragon, 1915 by Wassily Kandinsky. Tretyakov Gallery, Moscow, Russia.)


Sotto un tempo da lupi io mangio un gelato
È il titolo di questo sonetto
e le rondini volano alte.
La pioggia d'estate mi fa venire voglia
Di scappare di casa
Anche se questa non è casa mia
E sarebbe strano, un controsenso

Dunque preparo lo zaino
E pedalo semplicemente
Come un tranquillo anziano normale
Che pedala normale
Ma in realtà sto facendo al contrario
Il solito percorso
Con l'animo di un bambino irriverente
E da questa prospettiva
Mi sembra tutto diverso,
Persino quel ponte, diverso.
Però è bello
E questo potrei anche scriverlo in prosa, anche se mi servirebbe il doppio del coraggio, perché nei versi ci sei e non ci sei, salti da un rigo all'altro lasciando nel dubbio che fossi veramente tu o soltanto un riflesso, un sentimento generico, d'altri. Pedaliamo ancora sotto questo cielo di capodoglio ferito -e questa è in assoluto la mia metafora migliore - noncuranti di noi stessi, oppure troppo attenti ai dettagli per accorgerci delle cose più semplici.
Semplice tipo questo parco che incontro, pieno di rametti spezzati dalla tempesta, con tre panchine e un'altalena.
La pioggia d'estate accarezza gli alberi
E un signore col cane mi fa:
"Ragazza, ieri vento a ventinove kilometri orari!".
Faccio un cenno d'assenso e dico:
"Mare forza quattro!".

Dicono che nello Stretto di Bering ci sia un vento talmente forte da uccidere in media un pescatore al giorno. Lo chiamano il "gelo nero". Per questo il lavoro del pescatore di granchi reali del Nord è il lavoro più pericoloso al mondo. Le onde saranno davvero altissime laggiù.

05/09/19

Il fegato


di Cristina Taliento


Risultati immagini per mark rothko
(No.3/No.13, Mark Rothko, 1949, MoMA, New York)


La comunità di quel piccolo paese asseriva di sapere esattamente cosa passasse per la testa del vecchio John: che era un vecchio pazzo accasciato dalle delusioni e dagli anni, incline ai vizi tra i più temuti dalla società, dedito ad alcol, spaccio, erba buona, meno buona, scrittore da strapazzo, eccetera eccetera. Non era vero. 

Andai a fargli visita una sera di settembre. Le campane della chiesa accanto alla casa dove vivevo avevano suonato all’impazzata per tutto il pomeriggio, con cadenze prima allegre, poi da funerale, allegre, da funerale. Mi ero affacciata più volte alla finestra. Prendendomi appena un terzo dell’audacia socialmente consentita a una donna della mia età, avevo chiesto con solerzia cosa diavolo stesse accadendo. Mi era stato risposto da un passante: “Il giubileo!”. Contrariata, divertita e sconfitta, avevo allineato i fogli dei miei appunti, avevo sbarrato con una penna le pagine; contenta era invece la mia mancata ispirazione. Non se ne sarebbe fatto più niente.
Così, come dicevo, andai a fargli visita. La prima cosa che mi disse quando mi vide fu: “ho una ferita sotto al piede, quattro centimetri almeno!”. “Non sono mica il tuo medico”. “Sia ringraziato il cielo”. Non aveva proprio nulla.
La seconda cosa che mi disse fu: “Stai scrivendo, vero?”. Risposi: “Un po’ si, un po’ no, ho avuto da fare”. 
Mi guardò con sguardo severo come spesso si addiceva a un maestro.  Mi chiese: “Che cosa è per te la letteratura”.
Risi, gli dissi che la cosa non rientrava tra i miei pensieri elaborati nell’ultimo periodo e a dirla tutta nell’ultima vita, che non mi occupavo di evanescente pulviscolo filosofico preferendo di gran lunga a questo un -si sperava- duraturo soggiorno nelle liete lande dell’argentea Scienza!

 Alzò gli occhi al cielo. “Trovo limitante che tu debba a tutti costi sentire così forte questo sentimento del bivio. Come se una mente dovesse per forza amputarsi delle parti, come se due piante non potessero crescere nello stesso vaso”.
“Ma tant’è” risposi alzando le spalle.
Nella stanza c’erano libri dappertutto, accatastati per terra, sulle mensole, dentro il camino spento. Su un tavolino di legno il vecchio aveva usato un bollitore come vaso per dei girasoli.
“Che cosa è per te la letteratura” ripetè quindi mentre versava dei croccantini nella ciotola per il suo gatto Bob.
“Non lo so, il desiderio primordiale dell’uomo di comunicare all’altro i propri bisogni, necessità, paure?”
“Questa è veramente una risposta da scuola elementare” asserì accarezzando il gatto.  “Comunicare, vedi… lo facciamo continuamente. Il mondo è pieno di parole, fluttuano nelle strade, dritte come fili piombati, a zig zag, in salita, in discesa, parole ovunque, parole in equilibrio sulle spalline di giacche sartoriali, parole appese ai pali della luce, sospese e diradate nel grigio cielo prima del temporale. La letteratura, mia cara, non sono le parole. Quello si chiama cicaleggiare
Continuava a mancare di rispetto alla vita vera, alla lingua parlata. Incrociai le braccia.
“La letteratura è il resoconto sul nulla, fatterelli, fattacci, nobili fatti che ci narriamo da secoli per aiutarci a vicenda, per imparare a superare questa cosa, qualunque cosa sia”.

Dissi risentita: “Non esistono risposte assolute a domande aperte”.
Così gli raccontai di quella volta in cui il mio professore di Medicina Interna mi chiese al letto del paziente, davanti a tutti gli altri studenti, la definizione di "fegato".
Io avevo risposto sicura di me: “un organo parenchimatoso deputato a svolgere funzioni esocrine ed endocrine…”.
 Lui mi aveva guardato con occhi di ghiaccio e molto lentamente mi aveva detto: “Niente affatto”. Ci avrei scommesso.
Aveva poi aggiunto: “Il fegato è una ghiandola che produce albumina”. La cosa mi aveva sbalordita. Devo ancora farmela scendere. Non esistono definizioni assolute per sistemi complessi. 

Lo sapevano tutti che né per la letteratura né per il fegato sarebbe andata bene una sola semplice definizione.