25/10/11

La morte incantata del lupo

di Cristina Taliento

a J.D. Salinger


(Morning, Caspar David Friedrich, 1821, oil on canvas, Niedersachsisches Landesmuseum, Hanover)


Le dissero che lo avrebbe trovato dietro la collina delle rose e che per arrivare doveva camminare attraverso quei sentieri battuti dai pastori. Si avvolse la sciarpa tre volte e non aspettò che il gallo cantasse. Il lamento di un violino malinconico si trascinava sulle rive del piccolo ruscello che attraversava la valle . Nei prati le foglie invecchiate dal tempo si rincorrevano come farfalle e lontano crescevano foreste di alberi atterriti dall'oscuro sentore della loro stessa ombra. Al centro della valle c'era un tavolo con una tovaglia bianca e due candelabri d'argento, due sedie poste ai lati e un uomo seduto su una di esse. La ragazza lo vide da lontano e con lo sguardo basso lo raggiunse. L'uomo seduto era cieco; il collo di una camicia bianca sfiorava il suo collo increspato, le mani strette intorno ad un bastone di legno. Un lupo dagli occhi colore del cielo aspettava vicino alle sue gambe.

"Vi ho cercato a lungo, maestro" disse piano mentre accarezzava il lupo studiando quegli occhi di cielo.

L'uomo non rispose. "Vostra figlia vi sta cercando. Dicono che siete impazzito, alcuni hanno detto che il vostro libro pubblicato a marzo è l'ultimo. Vi danno per morto".

"Potete rispondere che sono morto e sto bene, grazie. Se ne vadano al diavolo tutti quegli imbecilli che per anni hanno inchiodato la mia ispirazione in un piatto di spaghetti. Via! Via! Farabutti schifosi, che il diavolo se li porti!".

"Maestro, non potete vivere aspettando in silenzio per sempre, fermo a guardare il cielo invecchiare e le stagioni morire, gli alberi e le volpi crescere... Non era questa la vita. Non vi ricordate?"

"Sono triste, lasciami stare. La mia Convalescenza non è finita, forse la mia cura è quella di non guarire e rimanere in questa valle per sempre. La mia cura è stare qui seduto e nutrirmi delle ghiande che gli scoiattoli mi lasciano in queste porcellane e dimenticare il tempo con gli occhi chiusi per metà. La mia cura è restare sotto la pioggia a bagnarmi le sopracciglia e poi morire come se non fossi mai nato. Oh, per Giove, lasciami stare!"

La ragazza non aveva mai detto altre parole che non fossero prego, la ringrazio, si accomodi. Sospirò e si fermò a guardare l'Incantato Scrittore, il vecchio maestro che le aveva letto la poesia. Era invecchiato e lei lo sapeva, ma in quella valle soltanto le nuvole restavano uguali... e il vento e i sassi. Si mise a piangere strillando: "No, voi dovete venire con me, non mi lascerete sola! Non potete farlo, maestro! Mi chiuderò nella mia tristezza, smetterò di uscire, di amare il rumore delle onde, non leggerò mai più uno di quegli stupidi libri che voi amate tanto!" Singhiozzò e si pentì per aver pianto, tuttavia non riuscì a smettere. Indurì la mascella bagnata dalle lacrime "Sono solo carta da strappare per accendere il fuoco. Le parole non sono vere, i racconti sono meschini come le vostre promesse, i personaggi di cui vi siete servito mi fanno ridere tuttora, i consigli che mi sussurravate mentre mi esercitavo sul foglio bianco non erano che bugie! Bugie! Bugie!"

"Smettila di insistere per riportarmi nel luogo da cui sono scappato! Tu non mi piaci, il mondo in cui vivi insieme a quelle belve non mi piace" urlò scontroso mentre iniziava a tuonare.

"L'arte che cercavate di insegnarmi porta, dunque, a questo? Finirò come voi, vecchio brontolone che pretendete la solitudine matto come siete nel vostro egocentrismo idiota?"

"Vi ho detto- scandì il maestro-che questa è la mia dannata cura e tu devi rispettarla, ragazzina!"

"La vostra dannata cura è un lusso che non vi permette di vivere. Scrivere significa vivere, cosa produrrete seduto a questo tavolo vergine, in questa landa dei cuori spezzati?"

"Sono già morto, non lo vedi?!" urlò il vecchio mentre le gocce iniziavano a cadere sul manto del lupo, sulle sue spalle, dai suoi occhi.

La ragazza pianse più forte: "Maestro, maestro!" gridò più volte fino a quando il rumore della pioggia non divenne assordante. Il lupo ululò di dolore. Poi l'incantò svanì.

15/10/11

Manifesto della Letteratura Smarrita


di Cristina Taliento



(Large Flowers, Mihàly Munkàcsy)



"Inizierai a darti delle arie, Cri. Inizierai a scrivere in corsivo con una bella grafia col gusto di spaventare i lettori". "Guarda! Una farfalla!". "Dove? Non la vedo". "Ma è lì, ma è lì! Mi è presa la paura: ho temuto, per un attimo, che fosse una foglia d'autunno!". Era un sogno romantico che mi era apparso alla mente... volevo scrivere una poesia e un sacco di altre cose, ma non c'era che aridità, un sacco riempito di mele afflosciato nell'angolo della cantina. Ma che cosa sto cercando? Tempus fugit. Era la voce del marinaio lesso. Un marinaio che perì nel Golfo del Messico mentre cercava la via di casa. E mentre cercava la via di casa- dicevo-una grandissima orca lo divorò per intero. Persino il suo giacchetto, tutto. Inoltre, nella mia mente sdraiata sotto le nuvole accecanti di ottobre c'erano quadri: cornici e cornici di quadri accatastati alla rinfusa sopra altre tele, altra pittura. Un maestoso miscuglio di nature morte e fiori dappertutto. Da lontano vedevo una giovane con un ermellino in mano che mi guardava zitta, immobile con gli occhi di fuoco bruno, rimaneva così per un po' e, all'ultimo, mi diceva piano: "Hai perso il tuo furor, sei venuta a cercarlo nelle cantine di Giove". Il mio furor, le cantine, non lo so. A dire il vero, ero uscita a prendere una rosa per masticarne i petali e adesso mi sono persa... voglio dire, questa non è casa mia, non è la mia ispirazione. La Dama adesso sorrideva, poi girava appena la testa e si immobilizzava per sempre, come se non si fosse mai mossa. Tutto ciò mi pareva strano, anche se strano non è un bell'aggettivo, stilisticamente parlando eccetera eccetera. "Questo è il punto- urlò qualcuno alle mie spalle- ti perdi nel suono degli aggettivi, nell'uso di quel verbo, su come canta il verso e poi non ascolti la tua voce, le tue esigenze, la tua sacrosanta sperduta ispirazione! Assurdo! Assurdo!". Era la voce di Willy Shakespeare, oppure di Dio. Allora rispondevo:

"A dire il vero, mio signore, io fuggo l'ispirazione e mentre parlo, perfino, vorrei non aver parlato a questo modo"
"Quale modo?" chiedeva Shakespeare oppure Dio.

"Ispirazione, poesia, scrittura. Vorrei non aver mai conosciuto queste parole, aver abusato del loro fragile significato. Fragile! Vedete? Che razza di aggettivo! Io non voglio mai più, mai più, dico e lo giuro, leggere di quel san Leopardi, del san Rimbaud. Mai più ammirarli, scrivere di loro, adoperare goffamente la loro arte".

E proprio mentre desideravo una risposta o un forte strattone, non mi arrivò indietro una parola, uno schiaffo, ma una pesante pietra mi colpì la testa. Era una spazzola quella che mi avevano lanciato? Me la meritavo? Si?

Avevo diciassette anni fino a questo momento, poi questo oggetto che mi ha colpito la testa mi ha fatto ricordare che potrei averne trenta, ottanta oppure essere già morta (e riposare sotto un pero selvatico, accanto ad un alveare). Chiudete i libri. Quale filosofo, ragazzi, vi è piaciuto di più? Io, credo, Hume. Poi si potrebbe incendiare tutto.

Non sei più concentrata. Puoi alzarti, dare una fine a questa meravigliosa e dolce farsa.