12/03/23

Di alci, di case, di eroi

 di Cristina Taliento 


In un periodo molto lungo della mia Formazione, dei miei giorni, delle mie ore indaffarate in cui corro tra il mare e le stelle, ci sarà sempre 

quella domenica in cui non lavoro 

dove porto fuori il cane e mi fermo a prendere un cappuccino da asporto nell'unico bar aperto di questa città medievale in cui sembra che tutto sia fermo al 1943, come in quadro di Giorgio De Chirico, tipo le "Muse Inquietanti". Quella domenica in cui non lavoro e nemmeno studio e nemmeno ascolto e nemmeno parlo, dove persino l'ultima edicola dell'ultima strada è miracolosamente chiusa. Chiuse sono anche le scuole, le chiese, le stazioni e le mura della città.

dove il cameriere aspetta sull'uscio che qualcuno entri per mangiare, ma non c'è nessuno sebbene sia mezzogiorno e, così, inizia a fumare. 

dove le idee sono solo potenziali e io non ho nessuna voglia di rincorrerle, al più le guardo sorridendo senza la pretesa che su di esse ci metterò mai il mio nome. 

quella domenica stile Lockdown 2020 per i single in case situate in strade poco trafficate con molto verde, discreto silenzio e staticità,

dove un alce americano, vista l'assenza dei presenti, decide di scendere a valle, continuare verso la pianura e poi addentrarsi nella città, quella città medievale, sempre quella e lì, poi, decidere di andare per quell'ultima strada alla fine della quale si trova quell'ultima edicola e lì, poi, trovare me che sono seduta sull'ultima panchina dell'ultima strada e bevo l'ultimo cappuccino dell'unico bar aperto della città. 

allora, l'alce mi guarda e il mio cane non abbaia nemmeno, si mette seduto e aspetta e io, con fare composto smetto di bere e gli faccio un cenno del capo. L'alce ricambia. 

il cameriere ci guarda e continua a fumare.  

e io non so nemmeno più dove sia casa mia e l'unica casa che mi resta è quella che ho in testa. 

26/10/22

Aver cura

di Cristina Taliento


La leggerezza di Genda, come io l'ho vista un mattino d'estate, nel vento che adduceva le gemme al tronco e muoveva la sua camicia di lino, era calma come una pianura di grano, era la chiave del trattore in mano e il pensiero di far bene e in pace il suo tranquillo, organizzato lavoro.
È un lavoro pesante, un lavoro pesante, ripeteva di continuo sua moglie alle vicine. Pesante. Ma invece a lui andava bene, non avrebbe voluto  essere da nessuna altra parte. Arava i campi e faceva il falegname. Entrambe le cose e tutte e due con un basso, notevolmente basso, tasso d'errore. La concorrenza infatti avrebbe voluto, da cinquant'anni a quella parte, che qualche sua mano finisse sotto un rullo oppure che la motozappa gli falciasse un piede. Ma parlava poco, aveva ottant'anni, odiava gli ospedali e faceva prevenzione stando attento, non rispondendo alle domande, pensando poco agli affari che non lo coinvolgevano. Spegneva la tv e guardava le nuvole. Guarda sempre le nuvole, le nuvole, ripete di continuo sua moglie alle vicine. Oh, oh, è così profondo, ripetono le vicine. Ma il vecchio spera soltanto che piova sulle sue melanzane, cosa diavolo ci vedono di profondo e profondo nei suoi piatti occhi grigi. Così distoglie lo sguardo da lassù, ma lentamente, perché stava ricordando una poesia, un'antica poesia, ora svanita, va be'.

Io non ero altro che la nipote di un suo vecchio amico. Non volevo andare a scuola, volevo imparare il mestiere.

"Insegnami come si ara il campo"
"Ragazzina, è un lavoro da uomini, sei un uomo tu?"
"No" dissi.
"E allora che ci fai qui?"
"Niente, in effetti" dissi e me ne andai.
Passò un mese, mi andò di tornare.

"La vigna, il campo" ricordai.

"Beh, ma almeno sai innaffiare?"

"No- dissi- sono una ragazza che non ha mai messo piede in campagna".

"E allora perché non vai a studiare giurisprudenza"

"Perché non so leggere"inventai.

"E che cosa sai fare?"

"Parlare tanto, spesso a vanvera,  millantare, immaginare"

"Capisco" disse serio. "D'altronde è un tipo d'atteggiamento molto diffuso questo, soprattutto tra i giovani"
"Soprattutto" ammisi.

Me ne stetti a sbuffare con la schiena appoggiata alla palizzata, ferma lì, in camicia scozzese, ad aspettare la Vita, il Talento, il Momento.

Intanto maturava la stagione, la vigna cresceva in altezza ogni giorno di più,  Genda non mi dava retta, e io non sapevo fare niente a parte osservare.

"Alle volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane" mi disse un giorno, mentre lanciava il pane alle anatre. Dovevo avere, in quel momento, la fronte corrugata.

"È una frase di Italo Calvino" dissi dopo qualche secondo, al diradarsi dei pensieri.

"Io questo lo so. Però, stando a quello che mi hai raccontato, che sei un'ignorante, sei tu che non dovresti saperlo"

"Alcune cose le so" dissi e mi pentii di avergli detto di non saper leggere.

"Non mi dire bugie" disse.

"Mi dispiace, l'ho fatto perché volevo essere gambo sottile, appena nato, tabula rasa facile da scriverci sopra, invece pur essendo giovane ho letto e pensato molto e in effetti non so se vado bene per questo lavoro"

"Ci sarà sempre una parte di te che vorrà correre dietro alle chiacchiere  da romanzo e un'altra che vorrà guidare il trattore. Non perdere tempo a tagliarti le parti, ma, semmai, ad aggiungerne altre. Per quel che va al di là di questo punto, è presto pensare a insegnarti a fare il campo. Dato che sei una donna, però, puoi coltivare la malva in quel piccolo fazzoletto di terra che hai alle tue spalle"

"Va bene" dissi, non sapendo bene di che colore fosse la malva.
"Mia moglie la usa per le tisane".
Mi diede una zappa e andai a vedere che tipo di terreno ci fosse.
Scoprii che la malva era una pianta selvatica, in quel caso, già spuntata tra i sassi, richiedente poca acqua, se non quella piovana. Mi chiesi cosa avessi dovuto fare, avendo la natura già fatto tutto.

"Pensa alla malva" mi gridò da lontano.
"Ci penso, ci penso" mormorai.
Poi un giorno gli venne uno pneumotorace. Avrei voluto correre alla fattoria per rivoltare tutti i cassetti in cerca di una cannuccia e qualcosa d'appuntito. Invece, menomale,  chiamai soltanto un' ambulanza.

Disse: "Innaffia la vigna quando sarò partito"
Dissi ridendo pensando scherzasse: "Cos'avrò in cambio, vecchio"
Disse: "Vino". Non scherzava.
Dissi: "Acqua per vino, è l'affare meno affare della storia".
Disse solo: "Abbine cura, è l'unico modo, l'unico modo, per fare sul serio".
Fare sul serio, ero giovane, cercavo l'effimero, ma mi sembrò il senso di tutto, delle azioni, del perché del giorno, della pioggia, del campo.

05/03/22

Maledetta provincia

di Cristina Taliento  

In un punto imprecisato della sua vita, l’Adolescente Arrogante, come le piaceva definirsi, si trasferì in uno strano posto di provincia, un luogo di villeggiatura, nella fattispecie un centro termale per vecchi. C’è un insolito sobbalzo dell’Io quando dalla Città ci si trasferisce in Provincia, è come se si ritornasse a guardarsi dentro, in solitudine, più da vicino, in silenzio. Questo le fu chiaro fin da subito, quasi. Negli ultimi anni l’Adolescente Arrogante si era appiattita nascondendosi nel furibondo casino della Città. Non era Città solo quel denso aggrovigliarsi di vite e finestre, strade, uffici, semafori, clacson; erano Città le Voci, quel fitto, fittissimo vociare di opinioni, ordinanze, divieti, ammende, programmi radio, dichiarazioni di guerra, titoli squillanti, le mode, le consuetudini, la pandemia. A piano a piano l’Adolescente Arrogante non aveva più voluto, potuto parlare né con gli altri né con sé stessa, dal momento che tutto quello che si poteva dire era stato detto e non rimanevano altro che le stelle sui tetti delle case.

L’Arroganza. Facciamo un passo indietro. Che cosa era sempre stata per lei l’Arroganza: per lei, l’Arroganza era ciò che per Eraclito era il Daimon, il demone che è in ognuno, l’argento, la forza, quello che lasci agli altri di te.

“Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe”. Ma siate anche Arroganti come piccoli arrampicatori, come quei vermi minuscoli che scavano interi imperi sottoterra pensando di potercela fare, non soccombete, non accontentatevi della sola Logica, contestate, andate dappertutto e chiedete, immaginate soprattutto e scrivete, raccontate, perché non puoi donare il tuo Daimon se non lo sai raccontare.

Col tempo la sua bella Arroganza aveva perso lucentezza per tramutarsi in una strana forma di pacata Accondiscendenza. A voler trovare una causa, ciò poteva essere semplicemente spiegato con il passaggio all’età adulta. Da Adolescente Arrogante era diventata un’Adulta Accondiscendente.  

L’Accondiscendenza. Che cosa era per lei: osservare la realtà, ogni dettaglio e trovarlo, effettivamente, al di là di tutto abbastanza giusto, diciamo ben collocato. Dietro un bel paio di occhiali spessi, ascoltava le risposte del Mondo, tutte quelle voci, senza avere nulla da obiettare veramente, quasi come se ogni frase, ogni affermazione, in fin dei conti, avesse la sua Verità.  Le Cose, le Opinioni, avevano tutta l’Arroganza di stare ben fisse al loro posto. Era lei, a spostarsi, a piegarsi per cambiare Prospettiva ed era come danzare, un fluido, continuo adattamento che finì, in quegli anni, per venirle naturale, siccome, dopotutto, si compiaceva di essersi elevata alla moltitudine delle cose, senza trovare mai barriere, ma solo correnti da assecondare, osservare, ascoltare, capire, senza contraddire.

Tuttavia, le capitò di rendersi conto che quell’Accondiscendenza non era il traguardo della sua formazione, né la naturale evoluzione di quella acerba, impacciata Arroganza. Che cos’era, dunque. Ragnatele, maledette ragnatele! Ecco cos’era.

Allora, dicevamo… la Provincia. Per l’Adulta Accondiscendente tutte le province si assomigliano tra di loro per le sensazioni più disparate che possono suscitare. Di seguito alcune immagini comuni che si hanno in quasi tutte le province del Mondo con le dovute differenze culturali: l’odore di polpette la domenica per le strade, i ragazzini con lo zaino in spalla che vanno in stazione o alla fermata del bus, i vecchi con la camicia azzurrina, le auto datate, i gatti che attraversano le strade deserte. Tutte queste scene, questi odori, si possono avere anche in Città, ma in Provincia è diverso. Lo sapete, è diverso.

Si trovò, dunque, in questa Provincia, che non era quella in cui era nata e cresciuta, ma aveva, per le sopra citate ragioni, un che di familiare. Era, come abbiamo già detto, uno strano posto, simile a un set cinematografico alla Wes Anderson: tra piccole case e viali alberati giganteggiavano vecchi hotel di lusso, alcuni ancora in funzione, altri abbandonati. La sera, al crepuscolo, le enormi scritte piazzate sul tetto degli hotel si stagliavano nel tramonto stellato, tra lo scarabocchio di una luna crescente e le antenne paraboliche, issando nel Cielo quell’audace gusto anni 90’ con nomi come “Metropole”, “Continental”, “Grand Hotel Des Bains”. 

I gatti attraversavano schivi le strade deserte. Era tornata.

 

18/12/21

Il vizio del miope


Forse in fondo è il vizio del miope

 quello di fermare il passo nella     n  e  b  bia

sopraffatti dal Visibile Tutto che non si palesa, 

esitare, prudenti come serpenti, 

senza avanzare, con un senso di dubbio sulle spalle. 

Forse è il difetto del miope bambino giocare con gambe più attente,

 curvarsi, chinarsi per vedere meglio, 

abituarsi a trovare in una realtà sfocata quel piccolo punto nitido   

per poi scoprire,

senza meritarlo, 

qualcosa-che-solo-da-molto-vicino-sipuòvedere. 


(C.Taliento)