29/05/16

Domande ascoltando i Metallica, ordinando la scrivania

di Cristina Taliento


1) Chi è che suona la chitarra alle sette di sera, ogni giorno, da tre anni, iniziando sempre con Stairway to Heaven? Chi sei, qual è la tua finestra tra le tante? Sai che c'è una nota, sempre quella, che non va, no?

2) Qual è la vera differenza tra il riso normale e il riso parboiled e perchè, anche se non la so, io scelgo sempre il secondo? Perchè siamo attratti dalle cose misteriose prebollite?

3) Noi siamo, per caso, segnati in qualche modo dal nostro nome di battesimo? Perchè mi rivedo così tanto nelle mie omonime? Perchè i Mattia hanno sempre qualcosa di strano?  Posso essere io così superficiale?

4) Chi glielo dice a quella persona che vedo tutte le volte in cui vado a correre, quella persona che guarda il fiume seduta ai piedi di un albero, coperta dal cappuccio della felpa, chi glielo dice che passerà, un giorno tutto questo passerà?

5) Da dove accidenti spunteranno tutte queste rondini nella rampa di scale se le finestre sono chiuse? Posso fare la liberatrice di rondini prigioniere per tutta la vita?

6) Che fine ha fatto Avril Lavigne?

7) Perchè si dice pastasciutta? Che vuol dire, che è asciutta? Vuol dire che non è bagnata? Bagnata dal sugo? E il sugo è un liquido? Non è troppo denso per essere liquido? Dipende dalle regioni? Quindi, è pastasciutta per chi non mette un sugo che, se presente, tende a essere "annacquato"?

8) Ci mancheranno mai i nostri pomeriggi a guardare il soffitto?

9) E se gli scrittori si fossero inventati tutto e noi abbiamo creduto ai loro sentimenti farlocchi, amplificati e deviati, condizionando le nostre esistenze con cose che non esistono? Possono alzare le mani tutte le cose che non esistono, per favore?

10) Siamo troppo fortunati per essere stressati?

11) Perchè (cazzo) non possiamo scrivere qual è con l'apostrofo? Perchè dipingere la Grammatica con queste vesti così proibitive e seriose? Perchè non legalizzare l'apostrofo se poi c'è pure la vocale?



28/05/16

Venti e passa anni stasera sui tetti e tequila



divagazioni di Cristina Taliento 


(Take me away, Ron Hicks, 1966, NY City)


Venti e passa anni stasera sui tetti e tequila da bere ballando perché c'è la luna e la luna si festeggia;  si festeggia ora, insieme, in questo presente dove si ama e si perde, questo presente che ferisce, invadente che ti prende per un braccio e ti bacia come se fosse possibile  (non è possibile) valicare i muri delle nostre austerità, delle nostre tenere ingenuità, quelle parti di noi che aspettano qualcosa senza chiedere, educate, speranzose, disperate. Quelle parti di noi che hanno fame. Che vogliono tutto, compreso perdersi in lande desolate e disperse oppure in spiagge non così solitarie, non così deserte. Festeggiare ora sui tetti, caffè e tequila, un vestito lungo, la luna, i capelli, che belli, i nostri occhi si assomigliano, le storie che ci hanno portato qui, tutto quello che siamo... è poco, sai, quello che siamo è poco. Uno crede di essere complicato, invece siamo tutti così semplici. Siamo semplici. Siamo qui e non vogliamo altro che essere liberi; liberi non vuol dire niente se inteso in senso così astratto e generale, ma liberi vuol dire essere noi, atomi e molecole in movimento nella notte, composti da cellule simili a microscopiche api luminose. Liberi di essere cento miliardi di neuroni e piogge di sinapsi, liberi che se mi gira vengo a chiederti se vuoi ballare e se poi me ne vado, ti sorrido. Liberi come l'acqua di cui siamo fatti e ancora di più se si considera che ci nutriamo di gas, per l'ottanta per cento azoto, gas che sono leggerissimi; ci nutriamo di cose evanescenti, rarefatte, intangibili, invisibili, espandibili. E siamo semplici anche se siamo strani perché ci piace pensarci conservatori e invece siamo progressisti, ribelli, cambiamo idea velocemente. Ci piace immaginarci dentro i confini che con amore e dedizione abbiamo imparato a delinearci intorno: le nostre sicurezze, passioni, le nostre idee, le preferenze, le nostre virtù. E poi ci scontriamo con le ombre di quei confini come se le nostre anime espandibili chiedessero più spazio, come se un giorno ci accorgessimo che non ci piace più lavorare la creta, come se un giorno ci svegliassimo con la voglia di andare lontano. Vai più lontano che puoi. 
Venti e passa anni sui nostri volti cambiati, diversi da quelli che erano quando avevamo sedici anni. I tuoi occhi, mi dici, sono stati sempre un po' riflessivi e malinconici e lo dici perché ti rassicura pensarti un punto, una cosa statica, una cosa che nasce con gli occhi malinconici e muore con gli occhi malinconici. E invece non è vero. Sarebbe bello sapersi sempre noi, sempre quelli, ma noi mutiamo e invecchiamo e il nostro Dna accumula errori, molti dei quali non vengono corretti. Se siamo sinceri, ci contraddiciamo. Cambiamo idea. Amiamo, odiamo. I tuoi occhi quando avevi sedici anni erano diversi, forse l'hai dimenticato, ma guardavano più lontano. La malinconia ha più sfumature, quella di allora non è quella di ora. Come puoi dirti lo stesso di prima?
Sono gli attimi che ci determinano e lo fanno in riferimento a quell'attimo soltanto e nulla più. Tequila stasera sui tetti e una canzone online, musica classica, mentre i satelliti brillano nel cielo e ci proteggono. Lo senti il vento che bello? Come sarebbe no? Cosa hai detto? Abbassa la musica, non ti sento.
E ballare, ballare per festeggiare questo momento, questo momento in cui noi, persone semplici, esprimiamo i nostri potenziali d'azione in compagnia, mentre i nostri sistemi limbici e tutte quelle cose che la Scienza non ha ancora scoperto si scambiano segnali di fiducia e affetto sincero, segretamente. 
Per cui il momento, questo segmento temporale del presente, è l'unico confine possibile che possiamo tracciare in tutta sicurezza, l'unico che ci vede davvero coscienti e collaboranti, convinti dei nostri sogni e desideri, perché il tuo sogno cambierà e i tuoi occhi anche e magari un giorno ti ritroverai a festeggiare da solo con dello champagne chissà dove e chissà perché e avrai il doppio di quello che hai ora, ma vorrai altro o la metà oppure un'altra cosa. E tu, allora, amico mio, ragazzo mio, dovrai ammettere di essere cambiato, dovrai ammettere che non ti piace più la tequila, che non ti piaccio più io, e non dovrai temere la strada che ti aspetta. 
Ma per ora muovi spalle e ginocchia su questo blues barocco e non ci pensare. Amo questo cd.


23/05/16

Il cielo infiammato



Per far sì che il cielo sfiammi
Che si calmino i macrofagi
E che poi ce ne possiamo andare pure a casa,

occorre somministrare
una sedia all' Osservatore,
una sedia dinanzi alla finestra
per far sì che non il cielo sfiammi
non il cielo,
ma l'Osservatore
(che è sempre più agitato del diavolo)
affinché possa calmarsi
calmarsi
guardando come spiove.
E piano piano diminuire...
diminuire il dosaggio della sedia
e del Tempo alla finestra
per aiutarlo a recuperare la parola
o, al più, un silenzio meno vuoto.


(C. Taliento)


22/05/16

Un posto al confine

divagazioni di Cristina Taliento



(Rain, steam and speed, William Turner, 1844, oil on canvas, National Gallery, London)


Quella domenica mattina presi la giacca a vento rossa, un ombrello, la mia dispensa di Neurogeografia e partii per un grande volo di fantasia. Pensai se prendere l'autobus oppure no. Durante i giorni festivi ne passava uno ogni ora e io mi rigiravo tra le mani il blister vuoto di Travel Gum contro il mal d'auto. Guardavo la strada, il blister, la strada vuota, il blister vuoto, un bambino su una bicicletta con la catena che schioccava a ogni pedalata. Così mi alzai dal bordo del marciapiede dove mi ero seduta e decisi di farmi la strada a piedi per riempire con i miei passi quell'inconcludente deserto domenicale, per incontrare, cammin facendo, un cestino in cui buttare il blister, la dispensa, l'ombrello e me stessa. Infatti, è così che andò. Dopo nemmeno tre minuti di cammino in direzione Ovest trovai un cestino. Mi ci buttai. E dopo tre minuti ero arrivata in quel posto al confine... Al confine di cosa non lo sapevo, non l'avrei scoperto mai.

Arrivavo lì, su quella scogliera, insieme a uno stormo di uccelli migratori. Ero un uccello migratorio anch'io, in fondo. 
Mi pioveva in testa l'acqua del mare che si infrangeva sulla roccia. Aprii l'ombrello non volendo fare nessun passo che mi allontanasse da quegli schizzi di Paradiso. Era così che io mi immaginavo da sempre l'Idrogeno.
Il cielo grigio balena era sbrindellato qua e là da lame affilate di luce boreale, verde, rosa. Non erano le mie latitudini e non sapevo che ora fosse. D'altronde la domenica non poteva che essere così. 
E mi ritrovai all'improvviso felice, sorridente in quella specie di fiordo normanno, sull'oceano, tra tutti quegli scambi di elettroni. C'erano delle foche sulla spiaggia, file e file di foche ridenti che a turno si lanciavano tra le onde. Avevo messo il costume? Potevo andare a nuotare con loro?
Il vento disegnava nell'atmosfera il ritratto di una ragazza dai capelli lunghi castani. Ero io, mi sorrisi. 
Dove fosse finita quella strada deserta da cui ero venuta non me lo ricordavo più e, lì, in quel momento nel Tempo, dove l'importanza delle cose svaniva nelle sfumature di quel cielo che mutava, capii che c'ero ancora e forse non me ne ero mai andata. C'era l'immensità dello Spazio e le campagne dell'entroterra, c'era l'eterna fragilità del mio essere giovane. I miei sogni, le mie paure e il terzo meridiano dopo quello di Greenwich.
Chiusi l'ombrello in segno di gentilezza e rispetto per quel posto al confine poichè non mi sembrava più giusto difendermi e proteggermi dall'acqua con un oggetto impermeabile inventato da chicchessia mentre l'Infinito si mostrava davanti ai miei occhi. Senza meritarlo, mi lasciai avvicinare, addomesticare dalla vastità dell'Oceano. Ero un pesce anch'io, in fondo.
Mi fu chiaro,  forse più chiaro di quanto già mi era sembravo lo fosse in passato, che noi siamo esattamente quello che vogliamo essere, in ogni momento del giorno, in ogni istante, sempre. Siamo noi e non ce ne andiamo mai per davvero anche se alle volte ci sembra di non riuscire più a ritrovarci, a vederci. Mi fu chiaro, mentre il vento mi diceva di buttarmi in acqua e io gioivo, mentre mi toglievo le scarpe e correvo, correvo libera verso il blu in tempesta, che le nostre energie più profonde sono radici forti come cavi d'acciaio e che le nostre debolezze ci rendono belli, di una bellezza complicata, simile al pianto. I nostri posti al confine dormono dentro di noi; è da lì che veniamo davvero. Ed è lì che rideremo, che ci ci ritroveremo, più pazzi e spettinati e più invecchiati e belli dell'ultima volta che c'eravamo stati. Nei nostri luoghi interiori ci sono tutte le albe e i tramonti di cui abbiamo bisogno,  i giochi di luce e i venti come li vorremmo e c'è sempre la voce di qualcuno che ci parla mentre noi sorridiamo senza capire... di qualcuno che ci dice: "io credo di essermi innamorato di te". 


14/05/16

La chewingum - Ritratti di re e regine


 di Cristina Taliento


(Ron Hicks)


E scriveva, scriveva, sotto le diverse sfumature luminose del giorno, con il buio, sotto la luce accecante del primo pomeriggio, con e senza ispirazioni, soffiandosi il naso, sbuffando, ridendo, piangendo, alzandosi di tanto in tanto per controllare il cellulare, prendere l'antistaminico o per mangiare cereali a secco perche il latte si era finito. Le cose che accadevano nella sua Testa erano confinate al Collo e al Foglio. Masticava confusamente chewing-gum di una marca tedesca che le ricordava la Volkswagen di sua zia tanti anni prima. All'ora di pranzo accendeva la radio e ascoltava per un po' le persone mentre la pasta si cuoceva e, nel frattempo, ripensava a quello che aveva scritto e avrebbe strappato tutto, tutto. Era uno stridente lavoro pesante quello di inventare le storie, dissanguarsi per trovarne un senso, una trama, un finale dimenticando il volto dell' Editore e facendo come se sotto non ci fosse che talento e passione.
"Prendi qualcosa dalla vita di ogni giorno" le aveva detto Cechov nei suoi sogni.
"Okay, Tony. Passami la penna e l'acqua" aveva risposto nei suoi sogni.
"Avanti... qualcosa dalla vita di ogni giorno, senza trama e senza finale".
"Non lo so, ora vedo".

Un giorno si accorse di non avere talento.
Se ne accorse da sola al centro di una pista da ballo. Erano balli latinoamericani, la gente si muoveva da ogni parte, lei rideva con il bicchiere in mano, il dj era laggiù, i ventilatori soffiavano aria nei suoi capelli. E lì, come quella volta tra gli scaffali del supermercato, intuì di non essere abbastanza brava. C'era che avrebbe voluto smettere di pensare, di scrivere, per una volta liberarsi di quel vociare, continuo vociare di api che trasformavano la sua vita, i suoi attimi, in una narrazione. Voleva ballare, lentamente nella musica incalzante. Voltarsi piano, sparire all' occorrenza, smettere di tergiversare, per una volta sputare la chewingum e piantarla di innervosire i muscoli facciali e guardare dritto negli occhi l'orizzonte, il dolore, guardare senza più nessuna difesa il cuore. E, giacché, cadere, se è tempo di cadere, alzare le mani e raccontare la storia in sincerità, anche se è invenzione, non fa niente. Tu devi dire le cose come stanno. Quello era il coraggio della vulnerabilità. Era lì che stava il talento, era lì che in lei mancava. Forse, i veri scrittori erano quelli che davanti all' agitazione non si agitavano mai. 

11/05/16

Il ragazzo che voleva impiantare le branchie ai gatti

 di Cristina Taliento



Il ragazzo che voleva impiantare le branchie ai gatti aveva avuto fin dall' infanzia problemi con la vista. Ipermetrope da bambino, divenne miope durante l'adolescenza.  Questo l'aveva portato fin da subito ad avvicinarsi agli oggetti, ai fenomeni naturali e innaturali che da lontano gli apparivano come ombre. Ben presto si accorse che in quel mondo sfocato si sentiva a suo agio, lontano dagli sguardi che lo intimorivano e vicino, qualora l'avesse voluto, al dettaglio delle cose. Quando l'oculista gli prescrisse gli occhiali, egli notò che quel vedere bene da lontano lo impigriva. Gli piaceva chinarsi sugli oggetti, vederne i particolari. Pensò che forse quel difetto nei suoi occhi era la sua spiaggia interiore. Senza nessuna bravura, né curiosità che fosse superiore alla media, il ragazzo, preso dalla sola voglia di compensare la miopia, aveva messo in atto un meccanismo d'abitudine che lo portava continuamente a fermarsi davanti alle cose, delineando i contorni di quello che altrimenti non avrebbe mai visto. Si fermava a respirare sugli insetti, sulla trama di un tessuto, sulle parole che una a fianco all' altra formavano una frase. E per un bizzarro paradosso, i limiti dei suoi occhi gli permisero di scoprire ciò che forse solo da una breve distanza si poteva osservare.
Quel modo di adattarsi finì ben presto per condizionare, al di là della capacità visiva, il suo pensiero. Osservare da vicino, pensò, era come riflettere, collegando i punti, accomodando con gli occhi e con la mente. Occhi e mente. Come in un valzer.
Cresceva osservando, scordandosi di sé.
Era infatti uno di quei ragazzi che non si sentono mai particolarmente depressi poiché si prendono troppo poco sul serio per dare importanza alle cose che li vedono protagonisti, uno di quei ragazzi semplici un po' bambini che salgono sui tetti a respirare il tramonto. Ma senza idealizzare il tramonto, senza fraintendere o caricare di significato l'arancione. Soltanto vedere il sole che si abbassa. Perché il sole è il sole ed è bello e non c'è bisogno di dire nient'altro. Quel ragazzo era fatto così.

09/05/16

Una storia dove non ci sono

di C. Taliento


  Una Storia dove non ci sono avrebbe inizio con io che mi allontano girata di spalle per una strada impolverata in stile Sahara, mentre i Protagonisti e gli Antagonisti sono pronti per essere descritti, sviscerati, sbugiardati eccetera. Il lettore non avrebbe idea di chi diavolo io sia, dato che non ricomparirei più nella storia, né nessun elemento si ricollegherebbe a me.
Qualche lettore dalla buona memoria rimarrà in guardia in attesa che si sveli la mia identità o che, da qualche parte, saltino fuori indizi su di me, ma girerà l'ultima pagina scoprendo che, in realtà, forse non ero un personaggio, solo una comparsa, un'ombra.  Quel lettore sorriderà di me e io dall' alto della mia Inesistenza alzerò le spalle. "Non ci sono minimamente" dirò da dietro gli occhiali da sole. E alzerò il volume di Radio Ciccio Riccio 91 punto 5 FM. E ci saranno in onda i Libertines. Ma vieni.

07/05/16

La geometria del tavolo

di Cristina Taliento


Era un tavolo ottagonale. Io ero una bambina di sette anni che mangiava lentamente  patatine Più Gusto. Al tavolo accanto al mio erano seduti due sconosciuti a cui diedi fin da subito dei nomi di fantasia.

Quando Luca disse a Sally "sei una maschera" cerchiando il "sei" con un compasso, tagliando ogni riferimento all' avere una maschera, sottolineando l'essere, Sally contrasse un muscolo, un muscolo che anni dopo imparai a chiamare "orbicolare della bocca".
Sally era geometrica nella sua figura e in quello che faceva. Luca mi sembrava invece un quadro di Pollock: secchiate di vernice su una tela.

Sally posò il bicchiere al centro del tavolo, il centro esatto del tavolo. Il riflesso del neon attraversò veloce l'ultimo sorso rimasto di Sciroppo alla fragola o di quello che, in realtà, era.

Essere una maschera doveva essere terribile, pensai masticando. Terribile.
Anche Sally forse lo pensava perché i suoi occhi si erano abbassati come due semilune gemelle che tramontano nel fiume.
Luca attendeva, come quei papà che vedevo seduti composti nella sala d'attesa del pediatra.
Io volevo che Sally dicesse qualcosa perché secondo me aveva qualcosa da dire.
"Sei una maschera" affondò la lama Luca, fredda fredda lama cattiva.

I miei non si erano accorti di niente. Il rumore nel sottobosco del locale li aveva fatti sintonizzare su frequenze diverse dalle mie.
E poi vidi una goccia cadere dagli occhi di Sally, una sola goccia di pioggia che scendeva sulla sua guancia perpendicolarmente all' osso zigomatico.
Dagli uno schiaffo Sally, pensai affondando nel sacchetto di patatine la manina di paprika.
Luca fissava il bicchiere al centro del centro del tavolo. Forse si chiedeva come aveva fatto Sally ad essere così precisa nell'individuare ad occhio il punto di intersezione delle bisettrici del tavolo.
"Tu non mi conosci" sorrise Sally asciugandosi la goccia di pioggia che era caduta dal soffitto. Forse c'erano delle infiltrazioni d'acqua.
Luca si mosse un po' sulla sedia. Non doveva sentirsi tanto al sicuro in un posto dove pioveva acqua sulla sua Ragazza Maschera, mentre io lo guardavo con occhi giganti dalla prospettiva che evidenziava di più la gobba del suo naso.
"Pago io" disse Sally alzandosi. Non finì nemmeno il suo Sciroppo alla Fragola. Se ne andò e svanì per sempre insieme alla sua geometria, insieme ai suoi "fa niente, lascia stare".
Luca rimase seduto un altro po', ma poi un Genitore mi prese per mano e mi disse che fissare le persone era un segno di maleducazione. Così salii in macchina e avevo le Più Gusto alla paprika ancora con me. Se avessi avuto anche un succo di frutta alla pera, sarebbe stato il massimo. Sally e Luca li avrei ricordati per anni, però in quel momento volevo solo tornare a casa.