31/12/12

Le mani

Discorsi di alcune Bic nere cadute per terra e da me ritrovate

di Cristina Taliento

(Monna Lisa, Leonardo da Vinci, 1503-1514, olio su tavola, Louvre)

"Mi dicono spesso di fare la modella ma io sta storia nn la capisco xchè io nn mi piaccio per nnt. Le uniche 2 cose ke mi piacciono di me sn la mente e le mani. La mente xchè sn creativa, so osservare, valuto e prevedo anke in tempi brevi, mi ricordo d cose lette x caso sul giornale a distanza d anni. Mentre le mani sn belle, riescono in movimenti precisi, nn m tremano mai. Quando avevo 3 anni, mia madre mi faceva spostare le tazzine d porcellana xchè sapeva ke nn le avrei rotte. Mente e mani. Fanculo, io da grande farò il chirurgo". (La Bic di Marta)

"Quando è nata mia figlia non facevo che guardarle le mani. Erano piccole e rosa, non color carne, ma proprio rosa. Si, erano proprio rosa e anche le dita erano dita di rosa. E dicevo a mia moglie: guarda le mani, guarda le mani. Ma lei sorrideva come se fosse normale, invece a me sembravano proprio fuori dall'ordinario le sue mani. E continuavo a ripetere: guarda le mani, guarda le mani..."
(La Bic di Leonardo)

"Che non mi si dica che io non l'abbia dimenticato, quel bastardo. Specie da quando mi hanno detto che adesso sta con una certa Carla Qualcosa di non so dove e che a quanto pare è amore. Auguri. Comunque, a parte tutto, non me ne frega più un cavolo. Ci sono giorni che provo a pensare a lui, mi sforzo, ma a tratti non mi ricordo più nemmeno la sua faccia. Soltanto le sue mani ce l'ho stampate in mente, accidenti. Sono passati cinque anni e io vedo ancora le sue mani sul volante, che cambiano le marce, che sfogliano un libro. Maledette mani... quanto ancora le devo sopportare?"
(La Bic di Livia)

"La prima vera cosa che mi ha fatto sentire nostalgia della Spagna è stata presentarsi a qualcuno. Noi spagnoli ci salutiamo sempre con due baci sulle guance, anche con gli sconosciuti, mentre il resto del mondo occidentale ti mette una mano davanti e pone un metro di distanza. Così come il fatto del gesticolare. Io non ci vedo niente di sbagliato ad accompagnare le parole con gesti concreti. Se le mie mani parlano con me, allora avrò due bocche e sarà meglio di un microfono"
(La Bic di Charo)

"Io faccio tamburellare le dita quando sono nervoso. Sembro una specie di pianista impazzito, ovviamente senza pianoforte. Anche quella volta, con te, senza accorgermene iniziai a farlo. Forse stavo sovrappensiero, non so perchè. Certo è che avevo una paura nera di te, dei tuoi occhi e delle tue domande. Insomma, a un certo punto, io stavo lì seduto in quel bar del centro e non mi ricordo se guardavo fuori o verso la cassa. Fatto sta che d'un tratto tu hai bloccato la mia mano con le tue. Vabbè, lo sai come sono andate le cose."
(La Bic di Fulvio)

"Se c'è una cosa che mi fa saltare i nervi è avere le mani sporche. Non faccio che lavarle in continuazione con una media di cinque volte all'ora e obbligo i miei figli a fare altrettanto. Stando al mio analista, è un'ossessione, ma io mi calmo solo con il sapone e quindi non è un'ossessione, dottore, gli ho risposto, bensì una necessità. Lava e lava, insapona, strofina, risciacqua. Un lavaggio dura cinquanta secondi. Io li conto uno a uno. "
(La Bic di Francesca)

"L'amicizia è stendersi sul pavimento immaginando di essere a Central Park e puntare la luce del cellulare sul soffitto e fare ombre di animali con le mani, ma non le rondini perchè le rondini se ne volano sempre via..."
(Le Bic di Lorenzo e Vittoria)

"C'era qualcosa di buffo e di tenero allo stesso tempo in quel suo gesto di incrociare le dita nell'attesa di qualcosa. Studiava matematica, era al terzo anno e non aveva mai creduto in Dio, nè nell'oroscopo, nè alla sfortuna. Ogni volta che qualcuno evitava di passare tra due pali per superstizione, si metteva a ridere. Però, per tutta la durata dell'esame, chissa perchè, chissà per chi, incrociava le dita sotto la scrivania."
(La Bic di Anna)

26/12/12

Descrizioni del suono per non udenti


di Cristina Taliento

QUARTO: GREENSLEEVES (Piano)



Occhi arrossati dal vento e fiati accorciati da corse spietate fino all'ultimo albero di tiglio. Io arriverò in cima alla montagna, arrabbiata coi miei anni e la mia innocenza, alzerò la testa e, poi, mi accorgerò che oltre il mio ego c'è una casa. Sarà la casa di un vecchio sordo di vita e io busserò, ma non mi risponderà nessuno. Continuerò a bussare soltanto per non pensare più a niente, poi spingerò giù la maniglia e la porta, lentamente, si aprirà. La poltrona sarà lì, vicino al camino e lui seduto, mi guarderà per un attimo e poi tornerà a guardare il fuoco. Intanto, fuori, i lupi smetteranno di ululare all'amore e, chinato il muso, si allontaneranno verso una nuova libertà. "Proprio così che finisce la vita, allora?" vorrò gridare io al vecchio. "Che schifo mi fai! Sei solo un vecchio moribondo che pensa di essere già morto e la vita è questa, dunque? Soltanto illusioni? Guardami negli occhi, voglio sapere. Questo, nient'altro che questo?". Non mi guarderai e io piangerò per te; me ne andrò sbattendo la porta.
Poi, in silenzio, come un gatto, ritornerò da te per cercare nelle tue rughe il senso della vita e catturare dalla vecchiaia ciò che resta, oltre la chimica e la cellula, e, nel nome di questi miei studi, ti chiederò da lontano cosa ci fosse prima di quelle stanze buie e di quella poltrona, prima della solitudine e delle aritmie. Seduto con le mani sulle ginocchia, nascosto da una sciarpa, tu non mi risponderai.
 Il giorno dopo tornerò a trovarti e ti chiederò in piedi, sulla porta, se c'è abbastanza legna o se i cani hanno mangiato. Poi appoggerò le camice stirate e i medicinali sul tavolo e ti chiederò che cosa ne sia stato della tua voglia di vivere. Ancora una volta, tu non mi risponderai. E così sarà per altro tempo. Ma se un giorno io dovessi avvicinarmi alla tua poltrona e se un giorno io volessi sedermi accanto a te, ti chiederò di raccontarmi le cose che furono prima dei tuoi polmoni neri  e delle tende calate, dei tuoi modi burberi. E tu vorrai tacere un'altra volta, ma poi le parole usciranno da sole e batteranno come pioggia, scriveranno poesia. Così mi dirai che c'erano pianure estese fino al mare e campagne allagate e biciclette dentro l'acqua e amori dietro, mi dirai che c'erano cancelli dorati oltre i quali i boschi si aprivano in assolate radure di ginepro, campi di papaveri imprigionati da fucili tedeschi  e sorgenti fresche in cui specchiarsi. I tuoi occhi si tingeranno del colore di altri mondi e, piano, mi dirai che c'erano geografie sulle pareti e sconfinate Russie tanto grandi da potersi calare per sempre e sparire, climi freddi e bambini in braccio. Io mi alzerò lasciandoti parlare. Andrò al piano e suonerò una melodia antica. E le note copriranno l'emozione della tua voce e suonerò più forte tutte le volte che parlerai del tuo cuore. Ancora, mi dirai che c'erano ragazzini che si rincorrevano ridendo lungo spiagge straniere e un amore vestito con morbide maniche verdi, mosse dal vento, scogliere e incontri di due mari, c'erano balli d'estate e musica e fughe.
Mi dirai che c'era Greensleeves.

18/12/12

L'umorismo dei cervelli infranti

di Cristina Taliento (non necessariamente autobiografico)


(Self-portrait with skull, Carel Willink, 1936)


Imparai a conoscere tutti gli scienziati di seguito elencati. Ci uscivo insieme i pomeriggi e le sere per dovere o per interesse. In entrambi i casi, cercavo di mettere la mano davanti alla bocca quando mi veniva da sbadigliare. Comunque, metaforico o no, arrivati a un certo punto, loro mi lasciarono sul serio. Per la serie "Giochi innocenti per bambini deficienti" (434 a.C.-in corso), liberamente tratto dalle "Battute più vecchie del mondo", ecco come per l'ennesima volta, teatralmente, sportivamente, venni scaricata.

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-Fermi mi spiegò che in quel periodo si stava frequentando con tutt'altro tipo di bomba.

-Brønsted e Lowry esclamarono all'unisono che era tutta colpa della mia acidità. Volevano che accettassi tutti quegli ioni H+ come facevano quelle brave ragazze alcaline. "Ricordatevi sempre- dissi delusa e quasi piangendo-che ci sono sostanze acide che si comportano da basi e viceversa. Me l'avete insegnato voi.  Mai fidarsi delle apparenze, nè della mia apparente, impacciata indelicatezza..."

-Avogadro mi fece capire che la mia presenza nella sua vita non poteva che incrementare la mole dei suoi problemi. "Ma andiamo Amedeo... lo sai benissimo che la mole è una quantità fissa considerato che le particelle di problemi hanno tutte la stessa massa". "Eh beh si be'... ehm, come dirtelo... dunque, la verità è che non mi piaci abbastanza" concluse alzando le spalle.

-Hertz disse che, in definitiva, era stato un bel periodo, ma era meglio rompere, se intendevo vederlo con così bassa frequenza.

-Boyle già al primo appuntamento manifestò il disagio di sentirsi messo sotto pressione. Non sopportava che facessi confusione chiamandolo Boole. Un altro vecchio amore finito in corto circuito.

-Turing giudicò i miei  pensieri indecifrabili. Mentre con  Morse fu il contrario: era lui ad essere criptico.

-Copernico, oltre alla sostanziale differenza d'età, spiegò che si trattava, per lo più, di una questione di diversi punti di osservazione. Era necessario quel ribaltamento di prospettiva che non riuscivo a compiere. "Mettiti nei miei panni!". "Uffa... di nuovo con questa storia. Tanto non ti crede nessuno!"

-Watson e Crick, quasi contemporaneamente, mi lasciarono non tanto per i caratteri acquisiti quanto per alcuni geni espressi del mio Dna. Era ovvio, dissero, che non c'era complementarietà di basi.

- Kelvin disse che non poteva più  vivere con l'angoscia che lo mollassi per Fareheneit allo stesso modo in cui avevo usato lui per mollare Celsius. "Non vorrai scaricarmi per questo, Lord Kelvin, perdincibacco!". "Mi dispiace- argomentò aiutandosi con la mano- è fin troppo evidente che il calore non può fluire da un cuore freddo come il tuo verso un cuore caldo come il mio. In conclusione, io sono francamente stanco di essere trattato da zerbino o da zero assoluto, qual dir si voglia".

-Planck ammise che già da tempo aveva sospettato che noi due non fossimo sulla stessa lunghezza d'onda, ma, aveva aspettato a dirmelo perchè "in fondo è così divertente uscire con qualcuno per sentirsi superiore". Non trovavo forse? "Che razza di... di... di fotone!".  "Fottone? Come mi hai chiamato, prego?". "Fotone!". "Ah, ho sentito male io, allora".

Graham Bell inventò il telefono appositamente per la gioia di sbattermelo in faccia. Io, allora, andavo a piagnucolare da Meucci che, come un nonno, mi consolava dicendo: "Oh su via... Lascialo perdere quel copione birbante, quel gran monellaccio... ".

-Ohm credeva che opponessi resistenza alle sue idee per il semplice divertimento di contrariarlo. Per questo mi lasciò. E anche perchè continuavo a fingere di meditare facendo "om om om" tutte le volte che apriva bocca. "Devo smettere di farmela con te" disse un giorno. "No, ma perchè, dai, ci divertiamo". Non l'ho più rivisto.

-Coulomb all'inizio sembrava così elettrizzato, ma poi confessò che non ero in grado di dargli la giusta carica. 

-Freud mi disse, davanti i suoi illustrissimi amici, che dovevo seriamente piantarla di psicanalizzarlo. "Così ti impari!" fu tutto quello che mi venne in mente. Corrugò la fronte. "Chi la fa, l'aspetti!" continuai sullo stesso stile. Alzò un sopracciglio. "Non sei nemmeno un vero scienziato, tu!". A questa però ci rimase male.

-Heisenberg manifestò il disagio di dover "subire" la mia organizzazione e "pignoleria" in un mondo in cui "bisognava cedere il passo all'indeterminismo e al caso". Testuali parole. "E quindi, non ho capito, mi lasci per questo dopo anni e anni di fantastici momenti angolari?". "Si, ma non prendertela. Per una questione di principio".

-Newton, prima di beccarmi in fronte con una mela, mi urlò che non ne poteva più di vedere il mondo gravitare inspiegabilmente intorno a me. "Contro ogni legge!" esclamò arrabbiato. Presi la mela e lo colpii a sua volta.
Cadde a terra disteso. "Eccotela di nuovo la tua gravità, imbecille!".

-Faraday lamentò di sentirsi messo in gabbia. "E pensare che mi avevano avvertito" borbottò. "Che vuoi dire?" chiesi subito. "Quel Lavoisier mi aveva detto che gli toglievi l'ossigeno". "Se è per questo Quel Lavoisier credeva anche alla teoria del flogisto. Ci credi anche tu, bello mio?". Non rispose.

-Edison , dopo invani tentativi di "C'mon baby light my fire", m'illuminò dicendo che ero una persona alquanto spenta e che, senza offesa, lui era in cerca di esperienze folgoranti. 

-Mendel, citando uno pseudo De Andrè, disse che comunque era stato meglio incrociarci che non esserci mai incontrati. "Oh Greg- dissi io ridendo forte- solo perchè armeggiavi tutto il tempo con i piselli odorosi, non significa che noi ci siamo incrociati". "Lo vedi come sei? Fai sempre così, non sopporto questo sciocco ridere per ogni cosa! Come se tutto fosse un maledetto doppio senso!" rispose serio. E quindi ci lasciammo.
Soprattutto, lui stava per farsi prete.

-Tesla disse semplicemente che non era scattata la scintilla. Non ricordo se fu lui oppure Franklin a dire poi: "Ahimè, non c'è stato alcun colpo di fulmine!". O forse Galvani? E boh!
-Fleming si scusò dicendomi che non sarebbe rimasto immune al disordine dei miei discorsi.

-Schrödinger disse che la mia intrinseca incapacità di restare seria dinanzi alla morte/ non morte del suo gatto accennava a divergenze delle nostre sensibilità che sarebbe stato difficile colmare in seguito.

-Majorana non si fece più sentire. Zero chiamate. Nessuna motivazione. Sparito.

10/12/12

Necessità del maestro

di Cristina Taliento


(Max Ernst, Engel der Feuerstätte, 1937 ? )
  

Ho cercato a lungo un maestro; un Guglielmo da Baskerville in piedi vicino a qualche fermata dell’autobus, un Gandalf il Grigio del nuovo millennio seduto dietro un giornale; qualcuno che, in sostanza, fosse per me quello che Aristotele era stato per Alessandro Magno. Ho cercato nel mondo, nei libri e nella televisione il mio Virgilio contemporaneo e non l’ho trovato. In un periodo della storia italiana in cui l'istruzione è stata progressivamente depotenziata, dequalificata, privata in parte dei suoi compiti e delle sue virtù, io, tra risate carnevalesche e maschere di botox, ho cercato un maestro perchè non mi sembrava che ci fosse nient'altro di più necessario e importante. Ma non l'ho trovato. Mi sono incolpata di cecità e pregiudizi, quindi, per vedere meglio , ho allontanato il più possibile quelle reti di cui parlava Joyce, religione, lingua e nazionalità. Poi, mi sono messa all'ascolto. Sono salita sulla montagna più alta e ho sentito tutto il rumore del mondo, dopo sono scesa e all'orecchio mi è arrivato un brusio, ma della voce del mio mentore nemmeno una nota. Tutti laggiù a parlare. All'inizio ho pensato che dovesse avere qualcosa di rassicurante e di quasi poetico sentire quelle voci, le voci del mondo, dei miei simili, e ho pensato che, con quelle voci accanto, non fosse mai possibile sentirsi solo, ma poi mi sono detta: "Questo è solo un brusio che cresce, s'infittisce e non produce". Una conclusione arrogante, ho concluso, ma poi pensavo "o forse no". Anche per questo ho cercato un maestro: affinchè mi insegnasse a capire in che modo afferrare e con mano d'artiglio catturare, tra tutte le galassie di pensieri, quello giusto e, da qui, elaborarlo, perfezionarlo, potenziarlo fino a farlo volare da solo come un modellino d'aereoplano sulle teste stupite e sconvolte di una nuova umanità. Si... qualcosa di questo genere.
Sono andata a chiedere al poster di Dylan, non avendo altri nomi della lista che non fossero seguiti da epitaffi.
"Sii il mio maestro" ho detto.
"Non posso. Io sono solo un menestrello stonato che canta della vita" ha risposto.
"Ti prego, Bobby, mi puoi insegnare un sacco di cose"
"Non posso, mi dispiace. Sono un artista, non ho le risposte che cerchi"
"Va bene, non fa niente".
"Aspetta…Quanti anni hai?"
"Diciannove"
"Oh be', nessuno è perfetto. E perché vuoi un maestro?"
"Per parlare dei dubbi che ho, parlare del più o del meno e imparare le cose che credo di sapere e che, invece, non so"
"Uhm. Che genere di dubbi?"
"Su questa società, quello che c’è e quello che non c’è. Facebook, la Palestina, la democrazia…"
"Mi spiace"
"Già, grazie lo stesso, scusami se ti ho disturbato. Continuerò a cercare".

Se ci fosse stato un fiume e non l'asfalto, probabilmente avrei lanciato qualche sasso sconsolato prima di andarmene. E se ci fosse stato un maestro vicino a me e non un ragazzino con gli auricolari nelle orecchie forse avrei parlato così: "Maestro. Non mi riesco a togliere dalla testa quel brusio di voci, semiminime e biscrome". E il Maestro avrebbe detto: "Parla più chiaramente, allieva". "Si, Maestro. Quello che voglio dire è che ognuno ha le sue idee e questo è un bene, perchè l' uomo dopo anni di rivoluzioni, ha raggiunto la sua libertà di parola, la sua libertà di pensiero. Ma a me pare che tutta questa libertà di pensiero ci sia scoppiata in mano come una penna che sporca d'inchiostro il collo della camicia e le guance e i polpastrelli. Siamo diventati i carcerieri delle nostre idee e dei nostri discorsi, i carcerieri del nostro libero pensare. Sosteniamo i nostri pensieri solo perchè ci appartengono e li chiudiamo in singole, isolate, torri d'avorio tutte uguali chiamate "profili Facebook" "Twitter Twoosh"... Non so se sto dicendo bene" avrei detto a quel punto. "Finisci il discorso, i dubbi alla fine..." mi avrebbe risposto il Maestro con lo sguardo chino sulle mani intrecciate.
"Dicevo... Il continuo, sistematico, cieco contraddire è diventato libertà d'espressione, la presunzione nei discorsi, invece, un atto di coraggio. Infiniti decibel di rumore sociale. Tunz tunz. Non c'entra il rumore della città, dei clacson giù per le strade! Io non me la prendo con il frastuono delle fabbriche come facevano Dickens e Parini. Nemmeno con la musica da discoteca, Maestro. A me spaventa il rumore di questo sottofondo di pensieri spezzati, un mormorare di sillabe brulicanti e frettolose, di ingranaggi che fluttuano in gel privi di sostanza. Temo, più dell'inquinamento e delle neoplasie, più dello scioglimento dei ghiacciai e della crisi energetica, la meccanizzazione della mente umana, lo svilimento dell'ascolto e il voler ridurre il pensiero a un pasto fugace imbustato come un Happy Meal, o peggio, un pranzo di pastiglie pseudo-proteiche e sali minerali. Perchè è proprio questo l'equivalente di tre righe scritte su Facebook per un limite massimo di otto. Circa...non so. Ad ogni modo, condividere un link non è appoggiare un'opinione; premere il tasto "Like" non è esprimere reale apprezzamento; dichiarare apertamente a "duemila" amici quali siano le tue paure, i tuoi desideri, non è mandare al diavolo il subconscio e liberarsi di esso. La nostra psiche è solo apparentemente compatibile con queste nuove forme di comunicazione, con i social networks, perchè si tratta di inscatolare metri e metri di un tessuto complesso dentro pagine bianche e blu che, sebbene siano chiamate Home, mai e poi mai potranno essere la nostra casa in quanto, prima di tutto, incorporee. A lungo andare si creerà come una "lettura sfalsata dell'immagine", ovvero quello che ci offre la connessione e quello di cui abbiamo veramente bisogno. E quando il sistema va in tilt, nascono i problemi, le dipendenze, gli attacchi di panico, i costanti mal di testa. Si parla a gran voce di droghe pesanti, delle droghe leggere eccetera e mai nessuno che gridi in tv, in uno di quei seguitissimi programmi del pomeriggio, che noi, signori, signore e signorine, curiamo lo stress a botta di paracetamolo, che siamo tutti drogati e nevrotici come i nostri discorsi e i nostri tic, che non dormiamo più la notte e che chiediamo a Google: chi sono io. Risposta: Babbo Natale".

   Se questi pensieri li avesse letti un Maestro e non un lettore capitato quaggiù per via di Max Ernst, probabilmente mi sarei sentita dire: "Non posso credere che tu abbia chiuso questa riflessione con Babbo Natale. Hai annullato in due parole tutto il pathos, che, presumo, volevi ottenere". "Figo, eh?" avrei esclamato io. No... non è vero, non avrei detto nulla e non per paura o per umiltà, ma perchè mi sarei trovata stanca di sentire la mia voce. Anche adesso, mentre scrivo, non vorrei sentire la mia voce, nè le vostre voci, ma quella del Maestro.
Voglio che tacciano i risonanti tamburi e che il Maestro parli.

05/12/12

Quei ragazzi laggiù con il pastore tedesco

di Cristina Taliento


     (Friday nights, Deborah DeWit Marchant, 2006, pastel, Portland, Oregon)

Erano forti e calmi. Modelli d’integrità morale e coraggio. Erano: cuori di quercia e intelligenti muscoli di ghepardo, denti bianchi chiusi intorno a bastoncini di liquirizia, dita sottili appese a corde di chitarre, capelli morbidi sempre legati, tagliati corti o nascosti dentro sciarpe di lana. Vedevano loro stessi come gladiatori sprezzanti della morte e degli anni diciannove, come i centauri taciturni delle solitarie pianure del  sud; profili di ragazzi persi a guardare il mare. Erano per di più figli maggiori severi e primogenite arrabbiate, riflessive, prudenti. Vivevano in robuste fortezze costruite con la carte da gioco del pensiero e non avevano paura delle raffiche di vento o di vedere quelle carte volare via come uccelli. Pazienti, all’indomani della tempesta, camminavano con sguardi bassi nell’alba e ricostruivano, dalle macerie, i muri delle loro personalità senza chiedere aiuto a nessuno. Erano tra i migliori studenti del Paese, gli inconsapevoli pilastri di una società nuova, potenziali giornalisti e futuri medici, biologi, matematici, scrittori. Ridevano sinceri ai matrimoni, alle feste organizzate per gli amici e, sebbene preferissero i solenni boschi del silenzio e della solitudine, era proprio in quei momenti che svelano il proprio essere; dopo una risata, per esempio, mentre gli altri cambiavano argomento o si versavano altro vino nel bicchiere, loro continuavano a sorridere come di un sorriso nostalgico e piano si toccavano la fronte. Osservare questi dettagli poteva essere quasi come rompere la loro intimità, entrare pubblicamente nel loro privato. Poteva essere come vedere i nodosi rami della loro esteriore, salda, dignità farsi più lunghi e flessibili, allungarsi muti verso fantastiche mete a sonagli di cui mai nessuno degli uomini seduti al tavolo avrebbe sospettato. Spesso erano creduti come giovani dai polmoni di ferro, troppo assenti dal fumo della vita e dai suoi giochi, lontani da ogni sorta di romanticismo e, in definitiva, poco inclini a lasciarsi amare. La sicurezza nel loro incedere, infatti, sembrava eliminare quella vulnerabilità da cui alle volte si innestavano i rapporti, le relazioni. La riservatezza delle loro spalle suggeriva, poi, a quelli che li guardavano da lontano a guardarli solamente, appunto, reprimendo l’impulso di gridare il loro nome per fare così la strada insieme. Oppure era l’emozione suscitata dalla leggera allegria schiva dei loro occhi a provocare negli altri un maggiore desiderio di fuga. C’erano delle sensibilità, soprattutto, che tenevano nascoste alle indagini serali dei loro genitori o nelle confidenze per i fratelli. Nessuno le vedeva, queste sensibilità, anzi i più dubitavano dell’esistenza, però se ne avvertiva il peso quando venivano silenziosamente ferite. Una parola detta per sbaglio ed ecco che il loro cuore si contrae, i loro sguardi si abbassano e scivolano nell’acqua di uno stagno. Una frase! Una frase basta a calpestare la delicata neve bianca che in molti avevano scambiato per marmo. “Ho detto qualcosa di sbagliato?” capita che chiedano i più attenti notando l’impercettibile vibrare del labbro. Oh no, niente. Eppure qualcosa si ritrae, si accorcia; il mento si appoggia deluso su una spalla e gli occhi si arrossano. Le gambe fuggono lontane giù per la campagna accompagnate dalle zampe di un pastore tedesco. Le braccia lanciano arrabbiate una palla che, dopo un po', un muso canino restituisce con tacita discrezione.
  Erano dei ragazzi vincenti, come dicevano i presidi con orgoglio, ben educati, come ripetevano le loro zie versando il tè alle vicine, e feriti, come avrebbero detto loro se avessero avuto voglia di parlare. In segreto, offesi dal mondo. Non lo davano a vedere, dopotutto. Nessun desiderio di sparire, nessuna canzone disperata per consolarsi, pagine di diario annerite prossime a zero. Camminavano invece alti e sicuri e magari gli anziani si inchinavano alla loro preziosa gioventù, forse alcuni coetanei, al loro passaggio, si sentivano stringere il cuore al pensiero di quanto fosse difficile, in fondo, imitarli, così com'erano, così liberi. Ma loro non si accorgevano di nulla e ogni tanto si interrogavano sul perché di quella spropositata sensibilità da occultare. Incolpavano i ricordi di infanzia, il funerale dei loro nonni, il giardino, i cartoni animati tristi, le poesie nascoste dietro le odiate foto sul camino, le illusioni volontarie, le ragioni che avevano portato a quelle illusioni, le paure, le estati trascorse a guardare con finta disinvoltura il cielo distesi sul prato e gli inverni passati sul letto a fissare senza pudore un immobile soffitto bianco, quasi sempre troppo bianco. Eppure non piangevano mai, nè si lamentavano per i mal di testa; rifiutavano analgesici e antinfiammatori. Si giravano sul fianco e prendevano sonno.