12/02/11

Distopia

di Cristina Taliento



(René Magritte, La Trahison des images, 1929-29, Los Angeles County Museum of Art)
La narratrice, presa da una vigliaccheria fulminea, disse: "Le darò una divisa, ma non posso fornirle alcun tipo di arma da fuoco". Il personaggio, con voce tetra, rispose: "No, tu lo farai". E la narratrice, mentre si asciugava la fronte:
"Le mie storie non spacciano violenza"
"Dammi quella maledetta arma da fuoco, patetica scribacchina"
"Un fucile da caccia con...-fece per scherzare- con tre cartucce in regalo. Ti basta?"
Il personaggio biascicò qualcosa e, affondato l'occhio nel mirino, centrò il cervello.


Le carte si macchiarono di sangue mentre in radio Patty Pravo cantava ''Se peeeerdo te, cosa farò, io non so più restare sola, ti cercherò e piangerò come un bambino che ha paura. M'hai insegnato a volerti bene, hai voluto la mia vita: ecco ti appartiene; ma ora insegnami, se lo vuoi tu, a lasciarti, a non amarti più".

Il Personaggio sparò sulla radio e la voce di Patty Pravo si trasformò in quella di un capodoglio ferito, poi si spense fra le scintille . Dunque Personaggio prese il controllo della storia. Si assegnò tre revolver, una Winchester Magnum, due mitragliatrici pesanti, quattro Colt Metropolitan, due Colt Trooper, sette fucili a ripetizione, cinque carabine semiautomatiche, una Marlin. Personaggio premette il grilletto della Marlin, ma il colpo fece cilecca; la vena della sua tempia pulsò forte. Allora, Personaggio impugnò un Kalashnikov e fece fuoco sulla Marlin, la quale si sbriciolò come un pollo bruciacchiato. Siccome le armi non potevano essere sostenute tutte insieme sul suo corpo, egli, potendo crear tutto, far tutto e decidere su tutto, aumentò la sua statura di quattro metri e mezzo e, avendo constatato un improvviso dimagrimento che lo faceva assomigliare ad una canna di bambù, pensò che i suoi muscoli dovevano superare la tonnellata. E, d'altronde, così fu. Non passarono le due ore senza che Personaggio si fosse creato tre eserciti di uomini più bassi di lui, ma dotati tuttavia del suo stesso spirito di bontà e altruismo. Gli eserciti chiesero un salario più alto, lui piegò il sopracciglio, si afferrò il mento e disse: "Perchè?". Gli eserciti ammutolirono. Personnaggio: "Avanti, ditemelo, poltrone di mia nonna"
Gli eserciti: "Ma lei non ha una nonna!"
Personaggio: "Io creo tutto ciò che mi passa per la mente, avete capito?"
Gli eserciti: "Creaci un salario più alto"
Personaggio: "Non vi serve"
Gli eserciti: "Compreremo fiori alle nostre mogli"
Personaggio: " Non avete mogli"
Gli eserciti: "Creaci, dunque, delle mogli"
Personaggio: "Vi creerò delle mogli frigide"
Gli eserciti: "Balle. Dacci i soldi."
Personaggio: " A che vi servono se Io vi governo?"
Gli eserciti: " Distruggici ora"
Personaggio: "Potrei farlo"
Gli eserciti: "Fallo adesso"


Personaggio prese la mitragliatrice e fece fuoco. Per tre ore questa storia fu cosparsa di budella e crani spaccati. Puah.

"Io ho il controllo di questa storia. Cogito ergo sum!. Cogli l'attimo, cogli la rosa! Un, due, tre... stella!-gridò nella landa desolata- Superuomo! Mezzo di tutte le cose, mezzo di tutte le cose! Oh che bel castello, marcondirondirondello!".

Personaggio si grattò il collo e ammirato lo scempio, si sentì, curiosamente, solo. Lo agguantò il dubbio di ricreare un nuovo esercito oppure di resuscitare quello precedente. Prese a camminare avanti in dietro sulla cima della vetta. Un desiderio terribile di giocare a nascondino gli fece considerare l'ipotesi di creare un compagno. "E se poi anche questi mi chiederà un aumento di salario?" pensava. E così facendo, scartava le ipotesi che la sua mente offriva.

Allora, decise di imitare quello strano modo di ragionare che adottava la vecchia narratrice di fronte ai dubbi. Quasi si dispiacque di averla uccisa. Ad ogni modo, si sedette sulla sabbia e tracciò delle parole. In alto scrisse: "Io posso tutto. Ho ucciso la narratrice ed i personaggi ribelli". Poi collegò una freccia in basso: "Posso tutto su chi?". Un'altra freccia: "Sugli eserciti". Accanto, scrisse ancora: "Gli eserciti si sono ribellati". Crociò la parola eserciti come a dire "rest in peace". Rimaneva solo lui, generale di se stesso, padrone della storia. La narratrice era morta. Gli eserciti, distrutti.

"Che faccio?" disse. E l'eco nemmeno rispose.

Personaggio prese le armi e desiderò intensamente che la sua narratrice ritornasse in suo aiuto. La narratrice si svegliò di colpo, con il cervello dimezzato, i capelli insanguinati, ma di nuovo viva.
"Perdonami, scribacchina" disse Personaggio.
" Ritorna al tuo posto, farabutto" fece la narratrice.
"Sissignora"
"Impara che qui siamo tutti pedine e personaggi"
"Sissignora"
"Impara che tu non sarai mai il padrone di nessuno e che la tua volontà non è davvero la tua volontà, bensì un fritto misto senza acciughe. Sigh."
"Sissignora"
"E che devi a me la tua esistenza, come io la devo a Qualcun'altro. Noi siamo uguali, ma se tu segui le mie mosse, quello che io ti dico di fare, tu non avrai problemi. Tu saprai esattamente che sono io la mente, con i miei limiti e difetti. Io ti programmerò, ti plasmerò e saprai tutto di me: il mio nome, il colore dei miei occhi, la mia data di nascita."
"Vorresti dire che noi due siamo uguali? Vorresti dire che anche tu sei un personaggio?" chiese lui.
"Voglio dire che tu sai chi è il tuo narratore, mentre io non so chi è il mio."
Personaggio si mise a ridere fragorosamente:
"Ben ti sta, saputella!"

La narratrice lo guardò male.

01/02/11

Le ispirazioni maldestre

di Cristina Taliento
(Salvador Dali, Man with His Head Full of Clouds, 1936)



La strada in discesa che collegava la città con la casa di Eugenia non aveva i canali di scolo così, quando pioveva, si allagava fino a sembrare un oceano e il sindaco mandava a chiamare il vicesindaco per far avvisare il segretario comunale che i vigili dovevano assolutamente bloccare l’ingresso di quella strada perché se fosse successo qualcosa “il comune non aveva i soldi per pagare nessuno, eccheddiavolo”. I vigili andavano con fare svogliato sulla riva di quel pandemonio, bofonchiavano qualche ingiuria al governo, montavano due o tre segnali di stop un centinaio di metri prima dalla zona allagata e poi se ne andavano. E allora non s’accorgevano della bicicletta di Eugenia che svegliava le pozzanghere dividendole a metà e uccidendole all’istante. La pioggia rimbalzava sul manubrio e si incagliava tra le sue ciglia e tra quelle degli uccelli e delle bisce. Eugenia restava in piedi a guardare la strada-oceano mentre la sua mente si allungava a dismisura negli intrighi della filosofia e nell’odore di zolfo. “Ma a che cosa stai pensando?” chiedeva il pettirosso dalle piume umidicce. “Ah, uccellino, te ne prego, lasciami in pace”. Poi si sedeva su un masso e apriva un libro e restava a leggerlo fino a quando le gocce non scioglievano l’inchiostro delle pagine insieme al rimmel nero sui suoi occhi. “Stai, per caso, leggendo sotto questo tempaccio?” chiedeva ancora il pettirosso. “Oh, uccellino, sul serio, non t’impicciare”. Quando della carta del libro non era rimasta che una poltiglia, lei prendeva un nuovo volume dallo zaino e iniziava a leggere con voce maestosa, come una specie di Amleto a piedi nudi. “La teoria del bello, capitolo uno, paragrafo uno: la bellezza tra arte e tradizione” esclamava, soddisfatta. Intonava quelle parole al cielo, le lanciava in aria come confetti. Poi, più andava avanti nella lettura e più la sua voce si abbassava delusa, come se il tentativo di trovare una risposta fosse appena sparito insieme a tutti i suoi ombrelli fuorilegge. Allora, scrollava i capelli pieni di pioggia, mentre gettava con furia quel libro nella voragine silenziosa della strada allagata. “Ci risiamo” fischiettava il pettirosso. Ma Eugenia non lo stava a sentire. Presa da uno sfuggente principio d’ispirazione, ella si metteva in ascolto come un gatto che, captato il movimento di un topo, allungava il collo e le orecchie ma, avendo visto quella fugace idea perdersi nel nulla, aveva abbassato la testa come quello stesso gatto che faceva in tempo a scorgere la coda della sua preda per poi vederla scomparire per sempre dietro un vicolo buio. Le sue ispirazioni erano come starnuti che si dissolvevano prim’ancora di esplodere, erano mozziconi di sigari bagnati che nessuno avrebbe mai fumato; quelle specie di teorie luminose che abbagliavano i palazzi della sua mente la meravigliavano, la ammaliavano. Ma, quelle stesse teorie, morivano davanti all’autorevolezza del foglio di carta e della penna; si accasciavano vergognose con l’alta accusa di contorsionismo e plagio filosofico. Ella, allora, si alzava in piedi all’istante, rovesciava la sedia e correva in cerca di un’altra ispirazione che poi trovava nello scaffale dei trattati di Estetica o dentro le foglie del pero selvatico. Iniziava a scrivere un racconto e, dopo qualche ora o minuto, lo abbandonava per cominciare una poesia o uno sbadiglio, che anch’esso moriva nel mezzo. Eppure non smetteva di creare il suo nulla, non posava la penna. Preferiva atterrirsi davanti alla desolazione della sua inventiva, piuttosto che spegnere la lampada e rinunciarvi del tutto. Quindi sorgeva il sole che illuminava la sua testa coricata sul legno, e quei raggi rischiaravano con delicatezza i versi di una poesia. Senza delicatezza alcuna Eugenia inforcava gli occhiali e rileggendo la sua creazione, la rinnegava. Appallottolava il foglio con rabbia e lo gettava dalla finestra come un lanciatore di baseball. “Bella schifezza questi versi neoclassici più patatine fritte!” esclamava con sarcasmo. E dunque non replicava quando il pettirosso diceva: “Mia cara, non prendertela con le Muse, quando la colpa è di Cupido”.