28/03/20

Anastomosi - Poesie dall’esilio

di Cristina Taliento


Athier Mousawi | Fade and Float 9 (2019) | Available for Sale | Artsy
(Fade and Float, Athier Mousawi, 2019, Contemporary Art Platform, Kuwait)


L'anastomosi in chirurgia è l'abboccamento, dopo resezione, di due parti delle stesso viscere o di due visceri diversi.
Stoma in greco è la bocca.
L'anastomosi è l'aurora dell'intervento.
Prima o poi arrivi a quell'attimo.
C'è il taglio, il distacco, lo spento
c'è la connessione, il ritorno, lo splendore.
Due universi rivali che si sfiorano
come due bocche al loro primo bacio.


25/03/20

I poeti nella stanza

di Cristina Taliento



(Jeffrey Larson)



Sono morti i giornali. Sono morti Cohen, Reed e le nostre Parigi idealizzate. Le frasi scritte sui diari, l’amore cieco, le gonne di stoffa leggera.
Sono morti i nostri discorsi su Israele e Palestina.
Sono morti i racconti che scrivevo in piedi nel capanno degli attrezzi. Sei morto tu che li leggevi con voce solenne per poi scoppiare a ridere.
Sono morti Catullo, Orazio, Allen Ginsberg.
Sono morte le feste in maschera e il mio costume da aviatore giapponese. È morto il martedì grasso, il venerdì santo, i canti di messa.
Sono ingrassati i calciatori e tutti i guardalinee.
Sono morte le tavole anatomiche del Netter, le notti prima degli esami, gli alberi intorno al padiglione di Clinica Medica.
Sono morte le lune piene, i motorini e le strade che ci portavano al mare.
Sono morti i cuccioli di volpe che io e te avevamo trovato in campagna. I tuoi occhi felici per quella scoperta, sono morta io che ti tenevo ferma la torcia per vedere meglio nella tana.
Sono morti i lacci annodati intorno alle caviglie, i maglioni messi al contrario, i piercing sul sopracciglio, le trecce colorate e tutti i nostri tentativi di dire al mondo che eravamo liberi.
Più liberi. Ancora di più. Rispetto a cosa non lo so.
Non c’è più rumore.
Non c’è più chi suona la chitarra.
Tutti dormono nella noia di un futuro che sa di passato.
E cosi,
scrivo perché
sento che devo vegliare,
devo
restare
sveglia.


Io e gli altri poeti facciamo una videochiamata.
Non so nemmeno io perché mi sono connessa su Skype.
Leggo questa poesia.
Il critico di Autori Esordienti Oggi mi dice con un tono un po’ da rimprovero a tratti compassionevole: “dal tuo modo di scrivere traspare molta malinconia, ma non una nostalgia leggera, più che altro una tristezza pesante”.
Sorrido alla telecamera.
Sei, sette persone in collegamento.
Accidenti.
Nascondo l’ansia toccandomi per un attimo la fronte (vorrei morire).
Così dico e non mi viene proprio in mente nient’altro:
“Purtroppo la mia scrittura è sempre stata un po’ nostalgica e triste,
ma non credo che mi sarei espressa in altro modo”.



22/03/20

Quando finirà la guerra

di Cristina Taliento


(Europe after the rain, Max Ernst, 1942, Wadsworth Atheneum, Hartford, Connecticut) 


Quando finirà la guerra,
sarà una domenica mattina,
io starò bevendo il mio latte con i cereali
leggendo qualche articolo di giornale
con addosso quella vecchia camicia a quadri.
Alzerò il volume della tv
per ascoltare la notizia
e rimarrò seduta al tavolo della cucina,
da sola,
con un pugno di paglia al posto del cuore,
una lacrima sulla guancia,
le mie branchie di piccolo pesce da cui esce del sangue.

Quando finirà la guerra,
sarai in piedi, al centro del tuo corridoio vuoto,
con il tuo ultimo paziente
e avrai dimenticato la tua offerta migliore,
le rose che coltivavi sul balcone.
Un’ infermiera da lontano ti urlerà
che è finita la stramaledetta guerra
e tu rimarrai, da solo,
vestito come il primo uomo sulla Luna,
con una palla di stracci al posto del cuore,
la tua pinna di squalo giovane che perde sangue.

Quando finirà la guerra
non diremo niente,
non sapendo più come mettere in fila le parole.
Prenderò le chiavi della macchina
chiudendomi ad agio la porta alle spalle,
senza correre, senza ballare.
Ti passerò a prendere.
Salirai su,
sporcandomi il sedile con il sangue
che esce dalla tua pinna ferita,
con tutte le emozioni soffocate
nei nostri occhi pieni di morte.

Raggiungeremo la spiaggia.
Apriremo un pacchetto di caramelle alla fragola
che mangeremo annusando le onde.
E piangendo ti ricucirò con del filo da lenza
quell’enorme squarcio che ti hanno fatto
nella tua,
-che poi è anche un po’ la mia-
amata pinna.

E torneremo a stendere il telo sul sedile posteriore
al ritorno dal mare.

15/03/20

Preoccupazioni di Gi

               di Cristina Taliento




(The Hope of the World. William Kurulek,1965. oil on masonite, 69.2 x 76.8 cm. Private Collection)

Giaceva, questa volta, nel letto della sua abitazione. La sua defunta moglie lo guardava da dietro una cornice con uno sguardo di rimprovero che taceva quella famosa tanto odiata domanda: "Gi, che hai?".
"Non ho niente, lasciami in pace!" rispondeva burbero e soporoso a chi di preciso non si sa. Il gatto infastidito si voltava di profilo.

Delirava, teso e accaldato
arrampicato in mutande sulle pareti
di chissà che razza di stanza fosforescente della mente.
Francamente dispnoico,
febbrile,
solitario.
E quell'orribile vaso di cartapesta davanti alla sua vista,
persino in punto di morte.
"Quindi è così-pensava-
quindi è così che me vado...".
Ma non era un pensiero,
era al più il solletico
di un pensiero,
il solletico di giorni vissuti,
di pioggia incessante,
fette biscottate,
amore.

"Toglietemelo davanti!" esclamava nella sua testa. Tuttavia nella stanza non si udiva che un lamento.

Se la prese con me. "Non posso credere che poni fine alla vita del tuo più amato Personaggio facendolo crepare per mano di un virus!".
Alzai la testa dalla mia macchina da scrivere. "Prego?"
"Non per mano di un virus"disse tossendo.
"Non morirai, è solo un mio modo per esorcizzare la paura" dissi tornando a scrivere.
E aggiunsi guardando dalla finestra le nuvole: "Laggiù c'è un temporale".

02/03/20

Lo sciroppo per la tosse più altre medicazioni

di Cristina Taliento


tratto da alcuni appunti che scrissi nel 2016 


Il vecchio Genda erano anni che non si arrabbiava. Si mormorava in giro che avesse un "brutto brutto male" al polmone. Un male talmente maligno da provocargli una disfonia organica da deficit espiratorio. Quando mi arrivò questa voce dalle vecchie del paese ero arrampicata su una scala nell’intento di cambiare la lampadina del mio lampione da giardino.  Per poco non mi ribaltai dalle risate.  Io lo conoscevo, sapevo che era tutta una copertura.
Così andai da lui.
"Ehi signor Codardo!" lo chiamai ridendo con le mani in tasca. Eravamo vicini di scogliera. Lui aveva una casa di legno sulla roccia, una casa ancorata alla pietra come un nido di rondine, invece io passavo il mio tempo sotto, sulla spiaggia. 
Non lo andavo a trovare quasi mai perchè ero troppo concentrata sul mio freddo, organizzato, tranquillo lavoro. 
Freddo,
organizzato,
tranquillo lavoro. Organizzato,
freddo, tranquillo lavoro. Almeno, questo era quello che in realtà mi raccontavo. Nella realtà dei fatti invece mi teneva in vita una strana forma di ansia frenetica ed estenuante.
Avevo un cane, un pastore tedesco a cui davo da mangiare mentre pensavo ai cuori degli altri. Era una vita silenziosa, solitaria, immobile e alquanto impegnativa. 
Lo chiamai dal basso. Quel giorno pioveva. 
"Ehilà, vecchiooo! Cos'è sta storia che sei afono?".
Lui si affacciò alla finestra, alzò le spalle. Non disse niente. 
Aspettai qualche minuto. Per un attimo mi venne la paura che fosse tutto vero.
Alla fine, sbuffò e disse con la fronte tutta corrucciata: 
"Diobò, ragazza! Hai perso l'educazione? Che diavolo, per quel concorso per idioti che hai superato ti credi un vero dottore, tu?".
Mi misi a ridere, non sapendo che fare di diverso oltre che essere felice, per lui, i suoi dannati polmoni, per me e per tutti gli interessati e i non interessati.
Non aveva niente di analcolico da offrirmi e allora bevemmo un bicchiere di sciroppo per la tosse, io dissi che non chiedevo niente di meglio, dati gli ultimi tempi. Sentivo di star covando qualche strano virus. Allungò  il suo sciroppo con tre dita di rum.
"In paese dicono che stai male" dissi tamburellando le dita sul tavolo mentre lo guardavo da sotto la visiera del mio cappello da baseball rosa fucsia.
"Mah, sai, io a certe cose non ci credo" disse bevendo un sorso.
"Manco io". Presi un libro di poesia dalla borsa. Raymond Carver. "Toh, era quello che volevi, no?"
Lo guardò per un attimo. "Grazie, ma non vorrei sottrartelo a lungo"
"No, vabbè, figurati, io non mi occupo più di poesia. Devo lavorare, non ho tempo. Ho chiuso con i sentimenti"
"Addirittura". Mi guardava dubbioso. "E che lavoro è?"
"Un lavoro di dedizione". Fece una smorfia. Sospirai. Poi dissi: “Un lavoro serio”.
"La dedizione comporta un certo coinvolgimento emotivo, ragazza! Comporta un sentimento"
"Si, beh- tentennai - diciamo che è un sentimento ben ponderato, abbastanza ragionato. Come dire: maturo, ecco.".
"Addirittura" disse spalancando la bocca in segno di finto stupore, con quel fare sarcastico che raramente si addiceva ai vecchi come lui. Così mi vendicai:
"E tu, dimmi, che ne è stato della tua rabbia?". Il vecchio Genda abbassò gli occhi e si guardò i palmi delle mani. Aveva ancora la fede. Per un attimo sentii il suo dolore, come una corrente fredda sul cuore. 
"All’epoca, quando ero piccola e ineducata, era bello sentirti inveire contro questa società un po' incasinata" sorrisi. "Era bello". 
Tirò su con il naso e mi guardò. Le sue rughe erano come la corteccia del vecchio ippocastano. Scosse la testa. 
"A volte penso che la nostra rabbia sia solo spirito di conservazione. Forse è la paura di qualcosa di rivoluzionario"
"Io per esempio- dissi- non pensavo di essere così conservatrice. Vorrei tanto tagliarmi i capelli e invece non ci riesco"
"Non è un caso che questa rabbia è tipica dei vecchi come me, abituati a un mondo diverso. Sai, io credo che noi siamo l'epoca in cui siamo stati giovani. Lo credo, davvero. Io sono e sarò sempre il Sessantotto. Io sono e sarò sempre certi ideali, certe spinte, energie silenziose che, a quell'epoca, mi crescevano dentro come un fiore che germoglia tra le ossa. Se a quei tempi mi avessero sezionato un polmone ci avrebbero trovato rose di innovazione. E' solo che un tempo si parlava dei colori e tutti avevano dei colori diversi, uno era rosso, l'altro era nero. Mentre ora io non lo so, è come se fosse tutto bianco, la gente se ne sbatte completamente le balle di tutto. Io non lo so".
"Magari- dissi io- è anche questo un ideale: vivere semplicemente senza pensare di conquistare la Dalmazia!"
"Eh ragazzina, la Dalmazia n'è mica il Sessantotto eh!". Per la prima volta rise anche lui. 
"Si, va beh, io dico che nei tempi di pace le persone sono più rilassate, parlano di come cuocere il filetto, coniano nuovi vocaboli, bevono nei weekend; sono cose concrete, voglio dire che te ne fai di un discorso sulla Democrazia quando l'importante al momento è farsi notare? Al più, il discorso sulla Democrazia, al giorno d'oggi, lo fai per far colpo". Però, come per la maggior parte delle volte, non ero mai del tutto convinta di quello che dicevo. Lo dicevo, comunque, per infastidirlo.
"Vedi? Vedi? E' questo modo di vedere le cose che non sopporto, questo addormentarsi pensando che va tutto alla grande. Ascoltami bene, Caterina, Clarissa, Cristina, non mi viene il tuo nome, devi smetterla, cazzo, devi piantarla di ragionare così, di scusare questa disattenzione collettiva. Internet è il più importante, potente, mezzo che il popolo abbia avuto in suo possesso, ma pfff, è come se tutta la sua potenzialità fosse annullata. Da cosa? Da cosa mi chiedi? Bene, da tutte questi diversivi, questi social network che accentrano l'attenzione, la spostano, la indirizzano del tutto sulla cosa più debole che esista: l'Ego"
"Non sono d'accordo che l'Ego sia la cosa più debole che esista" dissi.
"Oh, fandonie, è questo Ego sciocco e autoreferenziale che non sopporto, che mi ammutolisce, che mi fa rassegnare. Gli ideali nascono in risposta a forze contrarie che noi sentiamo di dover contrastare con lo spirito, con la parola, con tutta la forza e il fiato che siamo in grado di soffiare, ma se è tutto un vociare soffuso, un vivere veloce, impegnato, di corsa, se la questione non è più essere liberi, ma di che colore tingere le pareti della propria prigione, io perdo il perchè del mio parlare. Tu mi capisci?"
"Si". Presi dalla tasca una caramella e la scartai lentamente, facendo meno rumore possibile.
"Non si tratta nemmeno di un disinteressamento alla politica, chi parla di questo, a mio parere, ha sbagliato bersaglio. Si tratta di un'ipnosi collettiva, ecco. Ad esempio tu, che diavolo di lavoro fai? Prima mi hai detto che non hai tempo nemmeno di leggere un libro di poesie"
"Un lavoro di dedizione, sacrificio, te l’ho detto, una cosa molto impegnativa” dissi togliendo il braccio da sotto il mento e ritornando seduta composta.
“Ah-ah che ridere, peccato che ieri sono caduto dal motorino, i medici mi hanno detto che ho la paralisi del nervo facciale, quindi non te la prendere se ho questa faccia qua, un po’ interdetta”. Ancora con il suo prendermi in giro da quattro soldi.
Annuii, come si fa quando si accetta un rimprovero. A lui non era mai andato a genio questo mio fatto di abbandonare la Scrittura per la Scienza. Io gli avevo sempre detto che le due cose “mica s’escludevano”. E lui, mi aveva sempre detto: “al diavolo, va’ a sprecare il tuo stramaledetto talento lontano dai miei occhi”.

“Io sono scettico. Tu lo capisci?”. Era uno dei suoi tic riperetere “tu lo capisci” in continuazione.
“Sono scettico perché ci sarebbero tante cose da dire e non riesco ad esprimerle perché a volte mi sento io a esser sbagliato e non gli altri che vivono senza uno scopo. Io pensavo di cambiare la prospettiva sulle cose, vedere il nostro mondo con occhio più comprensivo e, invece, io a certe stronzate non mi abituo! Non mi va, non mi va di vedere correre tutti da una parte all’altra come se si trattasse soltanto di riempire il tempo, non mi va che la gente debba mostrarsi sempre con questa aura di Vittoria e Sbruffoneria, non mi piace la parola sfigato, vorrei prendere a schiaffi tutti quelli che la usano. Mi fa schifo il sushi.”
“Mmm buono” dissi io che nel frattempo mi ero persa.
“La vera salvezza di questi tempi è avere una cazzo di vocazione, qualcosa che ti salvi e che ti faccia amare il tempo. Qualcosa che ti spinga ad amare veramente anche un’altra persona, un amore che non sia niente di tutte quelle baggianate sullo status, sui canoni, una cosa pulita, salva da tutta questa fanghiglia”.
“Fanghiglia” ripetei piegando la testa di lato.
“Ti prego, almeno tu, salvati” mi disse e mi guardò con gli occhi disperati.
Io allora dissi: “sono apposto così”. Come se stessi rifiutando il dessert dopo una cena al ristorante.
Ma sperai con tutta me stessa che la mia anima non si fosse già fottuta. 
Fuori pioveva come non mai.