29/11/16

Il sentimento del Tempo - Ritratti

di Cristina Taliento


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(Edward Hopper, East Wind Over Weehawken, 1934)


Non posso fare Narrativa in due righi e non posso pensare di cavarmela con un sorriso. Però, volevo solo raccontare -un momento- di come Carlo quella mattina sentì il Tempo. Era una mattina d'inverno, fredda, forse non c'erano nemmeno tre gradi. Di foglie sugli alberi neanche l'ombra. Era una mattina di lavoro, magari era pure lunedì e tutte le conseguenze, gli stati d'animo del caso. Tipo: la tensione del ritmo ticchettante dell'orologio si abbatteva sui legamenti, i tendini del suo corpo, mentre il ribollire del caffè sul fuoco gli premeva sul collo come se quel rumore non fosse un rumore, ma due dita, due dita di mano di quercia, nodosa.  
Aprì la porta di casa, solo questo. 
Tutto il mondo s'affaccendava nei propri fatti più quotidiani. Il fumo nelle strade faceva assomigliare quel piccolo borgo di provincia a un quartiere industriale post Rivoluzione. Gazze nere percorrevano metodiche, avanti e indietro, le lunghezze dei fili elettrici. Carlo, dapprima, percepì l'Abitudine. La vide sulla sua giacca a doppio petto, nei mattoni rossi del palazzo di fronte e poi la vide lì, nel suo riflesso nella vetrina del parrucchiere. C'erano diverse frasi da dirsi, pensare,  quando le cose prendevano quel verso. Egli usava spesso dire: "E' così". 

Disse, invece: "Auuuuuuuuuuuu". Quanto fiato e quanta vita. Malgrado il diabete, il divorzio, la cardioaspirina, la terza età. Malgrado le canzoni che cantava suo padre, malgrado il fondo pensionistico, gli anni 70, il telo che si stendeva sui sedili della macchina al ritorno dal mare. Quegli anni 70- oh ragazzi- cosa avevano significato per lui. Cosa poco restava ora.
In molti sentirono il suo ululato. 
A tre km di distanza svegliò anche me. Pensai nel dormiveglia: "Endecasillabo sciolto". 
Poi, un cane abbaiò forte. Io lo sentii e mi dimenticai del lupo; tornai a dormire. Lo sentì anche lui e, con spavento, pensò di aver osato troppo. Quindi, cercò le chiavi della macchina e sgommò via in tutta fretta.
Sicuramente, si creò nell'atmosfera una sensazione di silenzio.

24/11/16

Uno stagno ai limiti del Tempo e dello Spazio

divagazioni di Cristina Taliento

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(Illustration by Alexander Jansson)

Chissà se esiste davvero uno stagno ai limiti del Tempo e dello Spazio. Ai limiti, vuol dire semplicemente che la sua posizione non sarebbe influenzata da nessuno dei due. O meglio, un po' lo sarebbe, ma al limite, così e così.
Uno stagno, per esempio, mica tanto grande. Affiancato da un vecchio olmo. Anche se, al momento, un olmo non riesco a immaginarmelo. Beh... uno stagno, un olmo, la nebbia. Proprio questa nebbia qui che c'è a novembre che dopotutto è bella e semplice, senza troppi fronzoli.  Poi ci sarebbero, se vogliamo davvero rimanere al limite del Tempo e dello Spazio, tanto dentro quanto fuori, delle bancarelle. Per l'esattezza, due. La prima sarebbe una bancarella di grammofoni, se non ricordo male il termine. I venditori sarebbero due anziani gemelli con una barba lunga e la giacca a scacchi verdi e bianchi. Un gemello starebbe in piedi a rigirarsi le mani nelle tasche esclamando: "che freddo, che freddo". L'altro gemello, più riflessivo, pulirebbe tutto il tempo i grammofoni con un panno celeste, un panno morbido, morbidissimo. La musica si inoltrerebbe sullo stagno, attraverso la nebbia, tra i rami dell'olmo, nel condotto uditivo esterno, facendo vibrare la mia membrana timpanica e quella di tutti i presenti e i non presenti.
La seconda bancarella sarebbe invece una bancarella di biscotti di proprietà di un bambino sovrappeso che, in realtà, nel momento in cui fa per consegnarti il biscotto, ritira la mano e dice: "Non vorresti meglio un quadro?"
"No, bambino, vorrei un biscotto"
"Sei sicura?"
"Si, però non voglio un biscotto fatto di materia, bensì l'essenza pura del biscotto, ossia la felicità che mi procura il fatto di pensare ad esso"
"L'essenza pura di biscotto è un dipinto che non abbiamo" direbbe il bambino.
"Va bene. Compro il quadro blu allora"
"Quello blu è stato già prenotato" 
"Oh" mi dispiacerebbe.
"Ci sono tante persone che amano il blu e appendono il Blu a un muro" mi informerebbe il bambino dall'alto della sua esperienza nella vendita di quadri e biscotti.
"Che strano, in effetti, appendere il sommo Blu a un muro... è molto strano, è un controsenso" penserei.

E il Tempo passerebbe così, a discutere con un bambino guardando intensamente le radici di un olmo. Quanto allo Spazio, non saprei. La mia immaginazione non riesce dettagliatamente a definire uno Spazio al limite, un posto che c'è e invece no.
 Forse, ci riuscerei soltanto pensando a uno Spazio in cui incontrerei le persone che fino ad ora sono entrate e poi uscite nella mia Storia, persone che tra di loro non si conoscono e, magari lì,  nel maestoso Limite, sarebbero quasi amici.
E certe volte m'immagino di trovarci tutti insieme a tirare i sassi nello stagno. Loro mi insegnerebbero a farli rimbalzare sull'acqua dato che io non ne sarei capace. Un circolo di amici e parenti, stretti, lontani, dove io non sarei nient'altro che l'ultima ruota del carro, la ragazza da non lasciar parlare troppo, le cui minchiate zittire con un silenzio. Per cui, io non dovrei fare altro che guardarvi facendo finta che m'importi davvero qualcosa del sasso. Perché, nel Limite, le cose che ci importano, in realtà, non contano poi così tanto. Magari conta il Momento, solo quello, chissà. Proverei a tirare. Il sasso affonderebbe senza rimbalzare.
Il bambino, comunque, alle mie spalle direbbe: "Per quanto mi riguarda e per ciò che la nebbia mi consente di vedere, quel sasso potrebbe star rimbalzando in direzione di molteplici galassie".

Il gemmello Grammofono direbbe: "Bambino, parla come mangi". 
Ma io, ripeterei annuendo: "In direzione di molteplici galassie".

20/11/16

Il campetto da calcio

divagazioni di Cristina Taliento


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(illustration by Gregory Muenzen)

Mio fratello gioca a calcio con un gruppo di ragazzi neri che avranno vent'anni. Lui è il più piccolo e l'unico bianco. Se la cava abbastanza bene, anche se, come gli dico spesso tanto per ridere, è un pappamolle che gioca senza altruismo e senza fantasia. Lui è quello che porta la palla, quello con le scarpe.
"Non ti puoi mettere le scarpe se gli altri non ce le hanno" gli ho detto.
"Comunista"
"Rischi di fare del male agli altri, di conficcare il tacchetto nel metatarso di qualcuno"
"Vuoi venire a tifare?".

Dovevo studiare.
"Devo studiare".

Ha inforcato la bici e se n'è andato, con i pantaloncini azzurri e la maglietta a righe. Così ho guardato il libro e ho guardato il cielo; ho appoggiato la matita, mi sono alzata e ho iniziato a camminare verso il campo da calcio perché avevo bisogno di vedere qualcuno che facesse un benedetto lavoro di squadra, presa com'ero e come mi avevano insegnato a correre sempre e soltanto da sola.
Il campetto era un quadrato di erbetta sintetica sotto il sole con due porte di reti ai lati. Avevano già iniziato a giocare.
 Mi sono avvicinata alla rete per guardare. Mio fratello si era tolto le scarpe. Gli ho fatto un cenno col capo.
Lì vicino alla rete c'era anche un cane che viveva in una cuccia di legno dove era appeso un cartello che vietava ai vicini di portare lì i loro avanzi. Avevano scritto: "Si prega di non dare cibo in eccesso al cane. Gli animali vanno nutriti il giusto". Ho concordato risentita.

Quei ragazzi facevano la loro partita di pallone in un campetto lontano da casa e io mi immaginavo le loro storie, distorcendole, caricandole di dramma ed eroico coraggio, non sapendo nulla, divagando alla grande sullo stato dei loro sentimenti. Scientificamente, invece, vedevo con maggiore realismo gastrocnemi contratti, adrenalina, iperattività ghiandolare, sudore, ventilazione nella polvere, urti sulla cartilagine, battiti, sentivo i loro cuori tachicardici urlare. No, in realtà, non potevo. Era di nuovo soltanto immaginazione. Magari erano bradicardici e io da laggiù non potevo saperlo. Com'era strano talvolta sforzarsi di considerare soltanto le evidenze, escludendo il resto, compresa l'esperienza, la supposizione. Dei ragazzi che tirano i calci a una palla sono quello e basta, nel momento in cui lo fanno, sono quello e basta. Il presente è potenzialità. Tutto quello che siamo non è ciò che abbiamo vissuto, nè l'idea di quello che verosimilmente potrebbe essere, accadere. La cosa che sei ce l'hai addosso, dentro, nei tuoi muscoli, nel polmone. A partire da questo, potenzialmente, possono eviscerarsi molteplici realtà, azioni, scelte, goal, cadute, triplette, fuori gioco, gioco sporco, gioco pulito. L'esame obiettivo ci dice: a partire da ora. Non importa cosa tu abbia fatto nel primo tempo. Osservazione presente, flash e tutto il resto è futuro.

"Senti, ti va di stare in porta con l'altra squadra?" mi ha detto mio fratello al di là della rete mentre la mia vista era appannata da queste divagazioni, pensieri buffi, senza molto senso.
"Non so" ho tentennato mentre ritornavo alla realtà.
"Dai, tanto la palla non ci arriva nemmeno in quella metà di campo".
"Okay va bene".

Ero una schiappa. Una vera schiappa anche a parare. 





18/11/16

Il viandante nel mare di nebbia - Racconti scritti in novembre


 di Cristina Taliento

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(Viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich, olio su tela,1818, Hamburger Kunsthalle, Amburgo)


Una volta- in un inverno enigmatico, nebbioso, purulento- c'ero io, uno che si faceva chiamare Lenny Cohen e il viandante nel mare di nebbia. Eravamo un trio pazzesco. Lenny Cohen probabilmente era per davvero Leonard Cohen o qualcuno di quel calibro lì e il Viandante non ci dava che le spalle, confidenza zero. Io e Lenny gli dicevamo: "Senti, parla ogni tanto". Ma quello non poteva, non voleva. Era, tutto sommato, il personaggio di un quadro dipinto nell' 800 da un tipo tedesco, Caspar David Friedrich. Un tipo veramente tedesco. 
Dovevamo portare a termine un compito assegnatoci dall'Accademia della Crusca, ovvero diffondere l'uso del qual è con l'apostrofo. A quel tempo non c'era Internet, non c'era niente e gli inverni erano lunghi e freddi. Studiavo in una facoltà detta La Facoltà Estrema. Non sapevo spesso che fare, che dire. Finivo il più delle volte a leggere il giornale in un club per anziani ipovedenti (in prevalenza affetti da maculopatia senile) dove c'erano tre camini accesi, musica folk e caffè a volontà. L'età media era ottanta anni. Fu lì che conobbi Lenny. Era chiaramente pallido.
Dissi, per prima cosa: "Come vanno le analisi?"
Lui non si aspettava per niente questa domanda. Pensava che io non l'avessi assillato con quelle storie.
"Oh ragazza, mi sono rotto completamente le balle di tutta questa situazione, sai?" disse accendendosi un sigaro.
"Non dovresti fumare" gli dissi seria. 
Aveva un plaid a scacchi rossi e neri che mi ricordava il Natale. 
"Che c'è di nuovo sul giornale?" mi chiese cambiando discorso.
"L'Accademia della Crusca sta cercando personale per diffondere l'uso del qual è con l'apostrofo".
"Sia ringraziato il Cielo"
"Pensavo di propormi. Vuoi venire anche tu?"
"D'accordo" disse togliendo via il plaid dalle ginocchia ossute.

Così andammo a fare la fila dinanzi all'ufficio Mestieri e Quant'altro dell' Accademia. Lenny fumava il sigaro, io mangiavo caramelle gommose alla fragola mentre pensavo alle più belle frasi da dire per convincere la commissione a ottenere il ruolo. Ad ogni modo, andò tutto alla svelta.
Mi chiesero: "Credi che l'uso del qual è con l'apostrofo possa disturbare la classe media piccolo borghese italiana in un contesto socio-culturale in continuo cambiamento?".
Non capii la domanda, tuttavia risposi: "Onestamente, io non penso". Quel deciso uso del pronome personale "io" mi diede un tono e una credibilità che colpì in senso positivo l'esaminatore. O, almeno, m'illusi che fosse così.

Invece, al mio vecchio amico venne chiesto: "Come argomenterebbe in difesa del qual è con l'apostrofo davanti a una platea di grammatici conservatori poco inclini alle modifiche linguistiche?".
Lenny, a colpi di bronchite cronica, rispose: "Beh, che dire... direi, signori miei, scrivete qual è come cazzo vi pare e andatevene tutti affanculo". 
Mi venne un colpo. 
Comunque, lui arrivò primo in graduatoria. Io venni presa con i ripescaggi di gente che aveva trovato un lavoro migliore rifiutando il posto. 

Così mi andai a sedere sui gradini di un solenne edificio grigio avvolto nella nebbia, rattristata dal fatto che Lenny con la sua risposta si fosse piazzato in graduatoria al primo posto e io, invece, per come stavano le cose, dovevo ringraziare i rinunciatari. 
"Dai non fare la parte della prima della classe che prende otto invece che dieci" disse Lenny che con molta fatica era riuscito a raggiungermi e a sedersi vicino a me.
"Non è questo il punto" mi lamentavo io in uno stato di assoluto melodramma nascondendomi dietro il bavero della giacca.
"Finiscila, smettila. Si sa che queste cose vanno anche a fortuna".
"Tu hai detto anche una parolaccia, non è giusto" continuavo.
"Sei stata presa, basta. Non capisco davvero quale sia il problema" .
E fu lì che,  tra tutta quella nebbia, arrivò il Viandante.
Ci dava le spalle, non parlava. Ci sembrò fin da subito un caso disperato e, tacitamente, accettammo quella presenza sentendola abbastanza vicina ai nostri stati d'animo, sebbene fossimo contrari al Romanticismo europeo e a tutte quelle diavolerie filosofiche sulla sensucht , l'Amore, la Passione et compagnia bella. 
"Sei stato assunto anche tu?"
"..." sospirò.
"Non ho capito, scusa. Puoi ripetere?" chiesi. Magari ero io sorda.
Nessuna risposta.
"Vieni anche tu a diffondere l'uso del qual è con l'apostrofo?". Niente. 
Lenny si mise in piedi. Disse sbuffando: "Roba da matti".
Io non conoscevo il tedesco. Avrei voluto dire "benvenuto" o qualcosa del genere. Così dissi: "Hello". Che, a parte tutto, mi sembrava la cosa più universale che potessi dire.
Lenny alzò gli occhi al cielo e mi fece segno di andare. Mi alzai e andammo. Il Viandante ci seguì.

Avevo una curiosità e quindi domandai: "Viandante, come fai d'estate quando non c'è la nebbia?".
C'era una nebbia pazzesca. La realtà combaciava con la mia percezione miope di essa. I lampioni riscaldavano d'arancio pochi metri d'aria intorno. Tutto il resto era grigio. 
Non rispose. 
Di noi tre non si riusciva a vedere che la punta del sigaro di Lenny che bruciava nella nebbia di quell'inverno enigmatico.

16/11/16

Le ore libere del giovedì

divagazioni di Cristina Taliento

Io penso che noi tutti avremmo diritto a delle ore libere il giovedì, ore da passare in compagnia o in assenza di noi stessi, tipo seduti, qualora fossimo sempre in piedi, oppure in piedi, se di solito, usiamo stare seduti. Ore, per esempio, appoggiati a una ringhiera qualsiasi a pensare a cose diverse, lontane, vicine, cose per cui non si ha tempo durante il resto della settimana. Ore libere, immaginate, in cui andare incontro al proprio destino oppure fuggire da esso; Tempo, nient'altro che tempo in più. Una tasca temporale, in modo da vivere il tutto con meno fretta, lasciando che i ragionamenti diventino pensieri e i pensieri, farfalle. Ad esempio, le ore libere del giovedì potrebbero essere impiegate per la realizzazione di piccoli eventi irrisori, cose che di norma non siamo tenuti a fare.
 Siccome oggi è martedì, io potrei pensare di impiegare le ore libere di dopodomani a rincorrere quella paziente di oggi per ripeterle un'altra volta quello che il medico le ha già detto in modo chiaro, perché anche se non sono un pappagallo, penso che qualcuno le debba ripetere ancora che non si deve spaventare se deve fare un' altra risonanza, che è una cisti, è solo muco, non è una recidiva del tumore che ha già avuto, non c'entra, è un'altra cosa. E siccome oggi è martedì, mi toccherà correre oppure fare un bel passo veloce per tutta la città per beccare la signora che chissà dove sarà arrivata. Lei dirà con la paura ancora negli occhi: "Ma veramente questo mi era stato già spiegato; il medico due giorni fa mi ha detto di star tranquilla". Lo so, lo so. Volevo solo ripeterglielo perché,  sa, io non avevo mai visto cosa fosse davvero la paura prima di vedere le sue lacrime scendere di colpo alla parola risonanza e io volevo dirle ancora che deve stare tranquilla, che non è quello che pensa lei, insomma, ha capito.
"Chi è lei?" allora mi chiederà la paziente.
Potrei rispondere, studente, ma chi cacchio vuoi che sia io, per davvero.
"Nessuno" quindi dirò. 
"E che cosa ci fa qui nelle sue ore libere di giovedì?".
Potrei rispondere, approccio al paziente nel post operatorio, ma che diavolo sto facendo, in realtà.
"Niente" quindi dirò. 
Così, poi me ne andrò, magari prendendo una di quelle vie che portano ai campi da calcio del vecchio convento. Magari mi fermerò dietro la rete a guardare i ragazzini giocare, fino a quando qualche vecchio scorbutico in camicia azzurrina mi urlerà, dal finestrino della macchina, che le ore libere sono finite e che è il momento di pensare allo stato metabolico delle cellule, ovvero preparare la cena, concentrarsi, vivere. E mica pensare a ste cose qua!

05/11/16

Appunti su una campagna in Salento

divagazioni di Cristina Taliento


A noi ragazzi di pianura piace scattare foto con l'ultima luce del giorno, prendendo di taglio quel punto in cui la pianura dà l'idea della profondità addentrandosi in un paese di cui si vedono solo i campanili e i cipressi. La pianura racconta tanto e tutto insieme; si apre all'improvviso, non nasconde. E solo l'occhio e il tempo possono ascoltare quello che è nuovo laggiù, quello che da un punto più in alto si può sentire, senza neanche tanta attenzione, così, continuando a respirare.
 Quel giorno, tutto mi sembrava incredibilmente eccezionale, l'odore della campagna, il profumo del cielo misto alla nebbia. Non so, mi sembrò tutto strano e nuovo e aperto. In fondo ero cresciuta lì, erano le mie campagne, però non lo dicevo per scherzo, né per nostalgia se ogni cosa mi sembrava nuova e così piena di senso, mentre aprivo le braccia a quell'infinito celeste. Chiesi se anche lui notava questa meraviglia, se non era il solo frutto di un mio momento o di una mia illusione. Gli chiesi se anche lui sentiva il profumo di cielo che in altri modi non avrei saputo descrivere, perché probabilmente non contribuiva solo il mosto o l'erba secca o le ortiche, ma anche altre cose; cose oltre il grado di umidità, oltre i raggi di sole.
Sorrise davanti al mio entusiasmo. Non disse niente.
Avrei promesso di vivire lì per sempre.  In quel momento, avrei dato tutto per restare. Fece un fischio al pastore tedesco che già si allontanava verso l'orizzonte, laddove le luci di un paese vicino iniziavano ad accendersi con l'imbrunire. Egli aveva un maglione blu, lo stesso di anni. L'aria fredda imbiancava ancora di più i suoi denti, facendo assomigliare il colore delle sue labbra a quello degli anemoni di campo che spuntano sulle pietre. Pensai che l'idea di quell'attimo non poteva essere che soggettiva, vera solo per me, leggibile dal mio inconscio e, per questo, inspiegabile. Ma lui, lui che era restato, lui che in quel posto ci viveva, mi indicò la stella della sera che iniziava a vedersi sopra gli alberi lontani di una fattoria. E lì capii che egli aveva letto la stessa Bellezza, lo stesso spirito che aleggiava sulla campagna, sulla mia terra.


03/11/16

Novembre di notte

di Cristina Taliento

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(I nottambuli, Edward Hopper)


Novembre di notte e luci gialle, arancioni, blu. Perdersi in un'altra città. Mi hanno detto di prendere il 20, di scendere a Celso. Mi hanno scritto di cercare una fermata che si chiama Fanti. Mi guardo intorno, non la vedo. Ho le ginocchia a pezzi. Non fa niente, respiro la sensazione di non sapere dove diavolo andare. Dura poco perchè il mio istinto mi porta nel posto giusto, nella via d'uscita direzione casa, direzione sicura. E salgo su un autobus che è un po' l'immagine delle cose ovvie, delle cose salve, mentre i sogni e le paure e le stelle me le lascio alle spalle. Mi giro prima di salire, l'autista mi guarda, nota la mia breve indecisione. Penserà che sono una di quelle ragazze con uno zaino in spalla come una dozzina di altre. Lo so, me lo sto chiedendo anch'io. è che in queste notti finisce che una non sa più se è quello che è, oppure tutte le altre cose che invece possono essere, comprese le strade in cui non si avrà avuto mai abbastanza fede per perdersi. Mostro il biglietto. Guardi, lasci stare, signor autista, non si chieda quali siano i pensieri che fanno voltare le persone così d'un tratto nella notte. 
L'autobus è vuoto, a parte questo ragazzo con gli occhi d'autunno che mi racconta dei suoi progetti di speranza e inventiva. Fa l'architetto. Dice che ha fatto la tesi sulla rivalutazione di un paesino di montagna. Non ha detto proprio così, ma il senso era che c'è un paesino, magari uno di quei paesi con le case vuote, dove non nasce un bambino da sei anni, dove non c'è niente a parte alcuni recinti con le mucche. E secondo questo ragazzo, una cosa del genere si può risolvere. Penso che è una bella idea, anche l'autista ha sentito. Secondo me sto progetto piace anche all'autista. Butto una cosa da ridere come: "Punta alla luna, male che vada avrai camminato tra le stelle". Il ragazzo mi guarda come se fossi il suo segno, l'angelo di mezzanotte e dieci, il destino. Gli sorrido. In realtà io non so neanche dove accidenti devo scendere.
Poi come in un sogno, ritrovo la comitiva. Finisco in un posto dove si beve, dove si sta in piedi. Mi trascinano a ballare, cerco di divincolarmi mentre sbadiglio spiegando di essermi svegliata alle sei del mattino, ma restare è più semplice e mi faccio strada nella pista, verso la musica, dove il volume è più alto. In mezzo alla gente che si diverte, tra onde sonore avvolgenti, si può pensare persino all'Africa,  alle ciaramelle, ai ghepardi.
Infine ritrovarsi a spiegare con una certa sicurezza al barista che il mondo si divide in allodole e gufi e che io, sissignore, sono un allodola senza alcun dubbio.
"Buonanotte all'Italia" dice il barista. Lo diceva sempre anche mio nonno.