30/08/19

Il faro ieri e oggi


di Cristina Taliento 



(The sea watchers, Edward Hopper, 1952, collezione privata)


1997. Capo d’Otranto.

Io mi ricordo di un pomeriggio al mare,
il sole che cadeva di taglio sulle onde,
la sabbia che volava e diffondeva la luce
come forse accadeva spesso
in quei posti deserti dell’Africa.

Io mi ricordo braccia simili alle mie ora,
braccia che mi trattenevano nell’acqua per
non affondare.
E stringermi a quelle era per me allora 
l’unico significato possibile di salvezza.

Io m’immagino sempre che laddove sia quel ricordo
lì sono io,
o, al limite, una buona parte di me.


Guidiamo fino alla spiaggia del faro. Che in realtà non è spiaggia, ma scogliera. La nostra idea di salvezza al momento consiste in qualcosa di decisamente più materiale, abbiamo venticinque anni, è passato non so quanto tempo dall’ultima volta che sono stata qui. Metto gli occhiali da vista. Il mare si estende a dismisura abbracciato dalla roccia nera. L’intonaco bianco del faro è linea verticale sicura, precisa, imponente, è la lucidità, è silenzio, è ordine. Tutto il resto si perde nell’orizzonte, muta, si sposta con le correnti, frana con le stagioni, insieme ad esse, nell’argenteo tempo, è incertezza, è stupore. Un vuoto che si contrappone a un pieno. L’energia del tutto, la fragile potenzialità dell’essere giovani e la bianca linea delle scelte tracciate, la mente sottilizzata, affinata.

“Volete una caramella?” ci chiede Gianni. 
“Si, grazie”. 
“Ma a che gusto è?”
“Non lo so, al miele forse, non lo so, leggi, dovrebbe esserci scritto”
“Miele e noci”
“Perbacco!”

Le nostre voci, quei nostri discorsi si diffondono nello spazio circostante come vapore, come una ninna-nanna. 
Qualcuno esclama: “Transire suum pectus mundoque potiri ”
“E che minchia significa”
“Lasciatelo stare, vuole ribadire che ha fatto il classico”
“Veramente sono anche dottore in Lettere classiche”
“Bella roba” e tutti scoppiamo a ridere. Il mare è sempre lì che ci osserva, che ci ascolta e forse per lui non siamo più quelli di una volta, ma alla fine che vuoi farci.

“È scritto sulla medaglia Field. Trascendere i propri limiti e dominare l’universo
“Una robetta tranquilla, insomma!” 
“Ah Carlooo! Vai a farti una nuotata, va!”

Così tutti si tolgono i vestiti e corrono verso il mare.

Io m’immagino sempre che laddove sia quel ricordo, lì sono io. 
Prendo gli occhialini dalla borsa e li raggiungo. 
Ci tuffiamo insieme nell’azzurro caos delle cose che saranno.








19/08/19

I cieli del mio account Facebook


di Cristina Taliento













(The Martha McKean of Wellfleet, Edward Hopper, 1944)


E se Facebook o Instagram
vendessero i miei dati
 a fantasmi, ombre incravattate
vorrei che nel mio account
ci fossero più cieli, foto di cieli,
descrizioni di cieli,
perché a volermi poi manipolare
a volermi poi
acquistare
sarebbero costretti a ragionare
-quantomeno-
in senso più poetico.

Dissi questa cosa al mio amico. La trovò divertente. Dissi come fai a non sentirti in gabbia oh tu figlio di questo secolo. Rispose che beveva e prendeva delle gocce prima di andare a dormire. Alzai le spalle. Sospirai: povero te. 
“Povero me? Perché povero me?”
“Perché non ti interroghi, non pensi, accetti passivamente che qualcuno ti pianti della gramigna nel cervello e l’unica cosa che sai fare è contribuire all’innaffiamento della suddetta pianta fino a quando le radici non ti spaccheranno a metà quella maledetta testa e l’unica cosa che farai sarà ridere e fumare e connetterti su Facebook, ridere e connetterti su Facebook. Bravo, fuma eh!”
Si accese una sigaretta, si grattò i capelli. Ero abbastanza sensibile a quel gesto. 
“Forse stai un po’ esagerando” 
Forse non ti sei accorto che ci stanno togliendo le nostre identità, il nostro valore, la poesia. Gli ideali...”
Mi guardò e scoppiò in una risata. 
“Dove è finito il tuo spirito di leggerezza?” mi interrogò.
“E dove è finita la tua lucidità?” gli chiesi. Tuttavia iniziai a provare nostalgia per la leggerezza, la privacy, il cielo di notte quando stendi sulla sabbia un telo umido e l’unico rumore che senti è quello del mare. 
“Se ti piace scrivere, vuol dire che ti piace raccontare e implicitamente che gli altri ti leggano. Quello che fai non è molto diverso dal postare le storie su Instagram. Non capisco perché tu te la prenda tanto” disse sedendosi sul marciapiede. Mi sedetti anch’io.
Intanto il cielo era tramontato e il buio cadeva sulle sue labbra, dentro i suoi occhi. Volevo avere più certezze nella vita. Bevvi un sorso d’acqua dalla bottiglietta che mi ero portata.
Non dissi niente.
“A volte le persone vogliono solo dire la loro attorno al fuoco” continuò. 
“In questo momento Google sa perfettamente dove siamo” dissi con lo sguardo ipnotizzato su un punto non meglio definito.
“Già” disse lui. 
“Già” dissi io.

Poi ce ne andammo. Io dovevo passare dalla lavanderia prima della chiusura. 

11/08/19

Salvare la bambina


di C. Taliento


E c'era l'adolescente e c'ero io,
ci siamo guardate per la prima volta
ed eravamo la stessa persona
soltanto epoche diverse,
ma quei sogni...
oh, quei sogni! sempre quelli, sempre uguali.
Capita quasi mai di sorridersi
guardandosi indietro,
ma questo mare butta le sue onde nei miei occhi
e io sono qui a piedi scalzi sulla duna più alta
a fare due conti, mangiare liquirizia
a ragionare su quello che non torna
a sentirmi, dopotutto, grata
per aver mantenuto la promessa.

ad ammettere finalmente di
aver portato la me bambina in salvo
che in qualche strano modo
ce l'ho fatta.







02/08/19

L’ospedale di notte


di Cristina Taliento


















(I nottambuli, Edward Hopper, 1942, Art Institute of Chicago)


L’ospedale di notte è un posto strano, complicato, silenzi ovunque, tempi infiniti. All’accettazione le luci sono più fioche, le pareti ogni tanto diventano blu per le ambulanze. Qualche volta ci si incontra sulle scale antincendio per fumare, scambiare due parole, poi ognuno sfugge via con il suo da fare, ad imboccare chissà quali corridoi, ascensori, porte tagliafuoco.

Quando arriva la notte, la senti avvicinarsi con tutta la sua andatura da vecchia signora con le caviglie grosse e il passo lento; la notte degli ostili, degli scrittori, degli infermieri, delle luci al neon, gialline, traballanti, delle sirene, questa notte arrugginita, calda, sporca di cenere, scorre e fluttua come un gatto nottambulo su cornicioni lunghi, infiniti, e va di paese in paese, di ora in ora, fino alla campagna, con gli occhi rossi, gli orecchi in agguato e addosso uno strano senso di solitudine e libertà.

La porta dell’ambulatorio resta socchiusa, lì fuori una quindicina di cuori pulsanti fermi ad aspettare il numero del monitor. Andiamo avanti senza sosta incontro alla notte, con la calma esperienza di un medico più anziano e il mio correre da una parte all’altra con cento fogli in mano. “Chi non ha buona la testa abbia gambe veloci” diceva mio nonno.
E i corridoi si allungano ogni ora che passa, sempre più sottili, sbiaditi, simili a labirinti.

Da qualche parte in mezzo alla notte- non ho idea di che ore siano- sto cercando di comunicare con un gigantesco ragazzo cinese che ogni volta che mi giro mi sembra sempre più grande, più alto, come nei sogni. Non ci capiamo per niente.

“Allergie?” scrivo in italiano mentre Google Traduttore elabora in cinese. Glielo porgo per leggere.
Digita qualcosa anche lui sul mio telefono per rispondermi, ma le sue dita sono troppo grandi e premono troppi tasti insieme. Così Google mi traduce una frase strana tipo: “In passato ho sofferto di colica renale. Nello scorso anno mi sono perso nel cielo”. Resto a fissare lo schermo.
Guardo l’ora, sono le tre e mezzo, la prima frase conferma il mio sospetto, la seconda probabilmente finirò per scriverla da qualche parte.

Lo scorso anno 
mi sono perso
nel cielo.
Il mio scantinato
faceva acqua da tutte le parti.
Pioveva sulle strade di Hong Kong
e sui miei vecchi jeans.
Per di più
avevo male al fianco sinistro.
Un giorno
ho rottamato la macchina.
Siamo rimasti fermi mentre pioveva,
io- centosessanta chili- e quel catorcio di Jeep
fermi a pensare
ad uno straccio di soluzione.
Poi sono tornato a casa,
ho appeso adagio le chiavi all’ingresso
come non facevo da tanto tempo.

Qualcuno bussa alla porta nel momento in cui sto spezzando una fiala con le dita. Stupidamente mi taglio.
“Sono il numero sessanta, stavo accompagnando mio figlio in bagno, ora siete al sessantadue” dice un uomo anziano sulla porta.
“Prego, avanti” esclamo con voce imperiosa mentre cerco di tamponarmi velocemente la ferita con una garza.
Questi dannati ospedali! In soltanto cinque secondi ti insegnano a non giudicare con compassione e tenerezza un padre di ottant’anni che accompagna in bagno suo figlio cinquantenne e a non premere sulla fiala con il pollice verso l’interno. Ma spero comunque di imparare meglio, che in futuro faccia tutto meno male.

Non lo so, è strano parlare delle persone, anche se lo faccio continuamente, anche se molte cose, alla fine, me le invento, le ingigantisco tanto per raccontare qualcosa quando arrivo stanca a casa e mi appendo a una forchetta ancorata su una tazza di cereali.
Non mi ricordo come sia andata a finire con quel padre e figlio, con la ragazzina dai frequenti attacchi di panico, il pescatore con l’amo conficcato nella mano, la donna logorroica delle quattro e un quarto. Non ho chiuso occhio, ma forse è stato comunque un sogno.

Allora se questo è un sogno, piano piano sta finendo. L’alba fa capolino sorniona sulla porta come una colomba. Il gigantesco ragazzo cinese che dormiva sulla sedia a rotelle si sveglia di colpo. Si guarda intorno.
E ora chi glielo spiega come arrivare in Urologia.
Gli faccio segno di seguirmi.
Camminiamo in silenzio, trascinando piedi e brandelli di gambe sulle scale. Arriviamo.
Bella però l’alba dal sesto piano.