27/07/10

La Sartoria delle Identità - Prima Parte



di Cristina Taliento

In via 95° Reggimento Fanteria della città Qualsiasi c'è un negozio con le vetrine buie. Più avanti si trova il Tribunale e, poco più indietro, invece, si staglia l'imponente palazzo del Conservatorio "Louis Gruenberg". La via, dunque, è trafficata da superbi pedoni che sfilano a mento alto con le loro ventiquattrore scorbutiche o da giovani musicisti in bicicletta che trasportano i loro violini sulle spalle e negli occhi non hanno che cascate di note ballerine. Ognuno di loro sostiene a gran voce di non aver tempo a sufficienza. Ognuno di loro chiede, cortesemente, di essere lasciato in pace. Bene, miei cari lettori di Paesi Lontani, vi assicuro che non intenderò infastidire nessuno e men che mai costringere questo lodato Nessuno a diventare un personaggio del mio racconto. Tuttavia, mi servirò delle loro velocità cieche per farmi spazio in quel negozietto dalle vetrine buie di cui parlavo all'inizio. E voi, prego, seguitemi pure.

Se qualcuno si fosse avvicinato alla porta trasparente, premendo il naso sul vetro ghiacciato, vi avrebbe scorto sulla scrivania dell'ingresso, una targhetta dorata con la scritta "La Sartoria delle Identità". Ma, come dicevo, la maggior parte dei passanti andava troppo di fretta per simili atteggiamenti da curioso vagabondo. Quel qualcuno si sarebbe accorto, anche, di un bottoncino di velluto rosso sulla maniglia della porta. Quel qualcuno l'avrebbe premuto senza esitare. Un momento, miei cari... Ci serve che questo qualcuno abbia un nome, dei capelli, occhi, naso, bocca, dei vestiti (perché no?) ed anche, se mi permettete, un bel cappello da cowboy. Vi piace? Io, lo trovo fantastico! Ebbene, lui si chiama Lauro e non è alto. Lui ha un sorriso che alcuni non notano proprio e le sue idee sull'abbigliamento sono, direi, inesistenti. Non posso trattenere un sorriso nel rivelarvi che Lauro non ha una personalità e, per questo, il suo corpo viaggia solitario come una barchetta abbandonata. Cari lettori, non temete. E' esattamente quello che ci serviva! Andiamo a scoprire dove ci porta il suo passo incerto.

Lauro preme il bottoncino rosso ed aspetta, con il piede che batte a terra ogni due secondi. Viene ad aprire un signore con i baffi, il cappello ed il bastone e si direbbe che il tale stesse per uscire se non avesse esordito con la frase: "Oh Buongiorno! Cerca qualcosa? Si accomodi!". Lauro si guarda le scarpe, sorride con quel sorriso che quasi nessuno nota mai, poi alza lo sguardo e dice: "Che cosa si vende in questo negozio?". Il vecchio Baffo ha capito già tutto del suo nuovo cliente. Dal di sopra dei suoi occhialetti tondi ha visto le sue debolezze, aspettative, paure. Tutto quanto.

"Vendere non è la parola giusta- dice il Baffo lentamente- tutt'al più si parla di uno scambio".

Come uno scambio?- pensa Lauro- io non ho niente da scambiare. Neanche qualcosa di me. Sono vuoto.

Però rimane zitto e non dice niente. Baffo gli fa segno di entrare e lui si fa strada con gli occhi puntati sulla moquette a scacchi rossi e blu.

24/07/10

Quel bambino d'estate

di Cristina Taliento
Le sere di luglio posso contare le stelle, lasciando che tutte le polveri dei melodrammi televisivi evaporino nell'odore di birra e anti zanzare. Mi siedo sui gradini di casa e, ogni tanto, alzo lo sguardo e lo tengo puntato nel blu fino a quando non sento una fitta alla nuca. Allora guardo la fila di lampioni o gli alberi infestati dai fantasmi e, di solito, non penso a niente di profondo. In quelle sere, vorrei saper suonare l'armonica a bocca come Bob Dylan per far vibrare qualche nota strampalata nel buio bruciante.
Ieri c'erano poche auto e si sentiva il costante ronzare delle luci arancioni che illuminavano i palazzi addormentati. In quel silenzio notturno mi sentivo come una piccola pianta d'ortica che voleva capire l'importante discorso privato tra il vento e la luna. Così stavo per alzarmi quando ho sentito un rumore di passi veloci e leggeri. Ho girato la testa e non c'era nessuno e mi stavo quasi mettendo a ridere, però non l'ho fatto. Sono rimasta in piedi con una salda percezione d'immobilità sotto le scarpe. Sono a caccia nella giungla e un nemico mi insegue, mi sono detta e ho allungato lo sguardo come quello di un cacciatore. Però i passi li sentivo ancora e non stavo sognando. Ho girato gli indici negli occhi stanchi e dopo averli riaperti ho visto un bambino; un bambino solo che correva sul marciapiede di fronte. Non aveva il fiato corto. Stava bene. Se fossi stata un vero cacciatore, avrei gridato "Altolà, bambino! Dimmi chi sei o di te non resteranno che ossicini!", ma sono una specie di scribacchina ammutolita che si accontenta delle risposte costruite dalla sua immaginazione anche se, in quel momento, tutta la fantasia mi era rimasta in gola, trattenuta come un respiro, completamente ammaliata da quel bambino che veniva correndo dalla via ed andava incontro all'oceano della notte. Quando le nostre sagome annerite si sono allineate, mi sono chiesta se si fosse accorto di me. Ti puoi accorgere della presenza di una persona anche se non la guardi. Poi lui mi ha superata ed io ho capito che sarebbe andato lontano. Sono rimasta a guardare la strada come se una parte di me se ne fosse scappata per sempre seguendo la scia del movimento d'aria che aveva causato quel bambino d'estate.

20/07/10

Le dannate Parole

di Cristina Taliento

Vedo tante Parole che mi odiano. Io non lo so perché mi vogliono uccidere. So soltanto che devo scappare. Sono una persona tranquilla, faccio le cose con calma e loro mi fanno agitare. Forse si divertono a vedermi supplicare mentre corro per la città, saltando da un autobus all'altro. Non mi riferisco alle semplici Parole, quelle sui pacchetti di sigarette o sui cartelli pubblicitari. Io parlo di quelle Parole che ti risalgono dall'esofago e vanno dritte al cervello e ti fanno dimenticare tutto quello che esiste e non esiste. A loro non importa se io sia impegnata in altre faccende come parlare con un professore o suonare la chitarra; mi saltano in testa come quei pagliacci a molla nelle scatole che fanno ben! ben! ben! ben! ben! e non la smettono più. A volte mi sento così stordita che vorrei piangere o, addirittura, morire, ma la cosa più triste è che mi faccio catturare dalle dannate Parole ed obbedisco ai loro ordini. "Scrivi così! No, anzi! Scrivi così, piccola ignorante! Non sai fare un accidente, razza di buona a nulla!". Mi gridano offese a non finire ed io sto zitta, con gli occhi pieni di lacrime e scrivo, scrivo, fino a quando le loro voci si affievoliscono. Loro non ringraziano mai. A me piacerebbe che le dannate Parole mi dicessero un giorno: "Ehi, grazie se ci hai scritte con quella tua bella grafia. Sei così carina... Grazie davvero, dieci e lode!". Invece non sono mai contente, quelle vigliacche. Mi fanno sentire tre volte più inferiore dell'uomo più insicuro del mondo. Mi dicono che non sono buona nemmeno a scrivere l'alfabeto e che farei meglio ad esercitarmi anche quando non me lo ordinano loro. Non so come fare a liberarmi da questa prigionia. Ho letto la Costituzione Italiana forse sette volte e speravo di trovare un articolo che condannasse le dannate Parole a qualche anno di galera per molestia o persecuzione o stalking. Invece, loro sono maledettamente in regola. Però io sto male e sento che starò sempre peggio. Continuerò ad esclamare, nel bel mezzo di una conversazione: "Un momento! Torno subito!". E mi fionderò a scrivere ogni cosa che le dannate Parole mi urlano. Così non saprò che dire al tizio della conversazione quando tornerò da lui con la faccia stanca e torturata. Balbetterò un "N-n--o-n è c-c-olp-p-a miia-a". Mi fanno girare la testa e mi fanno dimenticare chi sono. Loro mi strappano dal cuore i miei sentimenti e mi affogano la testa in quelli di altre persone che nemmeno conosco e mi obbligano a studiare l'animo di personaggi strani che, alle volte, mi fanno addirittura pena. Alle dannate Parole non importa se a me piace o non piace un personaggio. Devono decidere tutto loro. Sono arroganti e autoritarie e tiranne. Ma con loro non si tratta solo di scrivere quello che ti dettano: la cosa più brutta delle dannate Parole è che sono come la droga o peggio, non so. Prima ti vengono a cercare e, poi, devi essere tu che tenti una penosa e drammatica ricerca della dannata Parola giusta.

18/07/10

Sul cambiamento

di Cristina Taliento
Cercare il nuovo, nomadi prima ancora di uomini. Questa è la mia la verità perché la vedo negli occhi e nei discorsi di chi incontro e la ritrovo in televisione, in un oggetto, in un ideale, nella voglia di fuggire e non tornare. Questi cambiamenti violenti ti scoppiano nelle mani e tutto può sembrarti diverso in un attimo, la tua vita come non l'avevi mai considerata. E non sono né l'impazienza né la noia che li scatenano, ma dormono già dentro di noi da troppo tempo e quando si svegliano fanno rumore. E non importa se cambiare vuol dire partire o dimenticare se stessi; il cambiamento è un treno che taglia la notte e tu puoi lasciare che passi per sempre, ma non puoi permettere che il rimpianto di non averlo preso si dissolva tra le polveri dei pensieri. Non puoi fingere di non sentire che qualcosa dentro di te non sarà più la stessa. Sarebbe come affermare di non aver vissuto fino a quel momento perché come ogni fiume ha una sorgente così ogni brusco passaggio ha una sua ragione. Oppure il cambiamento può essere così costante che non te ne accorgi nemmeno. Le giornate si allungano lentamente e lo fanno pochi secondi ogni giorno e non senti la differenza fino a quando non cambia tutto. Allora accade che in un giorno di fine marzo aspetti che il sole tramonti presto, come tutte le altre volte che fuori pioveva, ma, nonostante l'ora, quel sole è ancora lì, tra le antenne delle case e tu rimani a fissarlo e ti chiedi cosa sia successo. E non ti domandi se la tua vita adesso è meglio o peggio, se spererai ancora che, alla fine di una canzone, ne riparta una nuova dalle note tristi. L'unico pensiero è che hai il tuo pomeriggio di sole. Il cambiamento che hai atteso per tutti gli inverni precedenti adesso ti illumina quella lacrima che scende lenta e quasi non ti spieghi perché all'improvviso sia diventato così difficile respirare.

16/07/10

La pecora F19 e il pastore tedesco

di Cristina Taliento
"Può una pecora innamorarsi di un pastore tedesco?" mi ha chiesto d'un tratto il vecchio.
"Una pecora? Che pecora?" chiedo io.
"Una pecora! Una pecora, perdincibacco!" si è messo a ripetere lui, agitando le mani in avanti.
"Eh..."
"Eh! Eh! sempre questo eh! Non sai dire altro, giovane!"
"Eh... bisogna vedere" rispondo io, lentamente.
"Che devi vedere?"
"Tante cose"
"Non hai capito, giovane- mi ha detto mentre scuoteva la testa spennacchiata- io ti ho chiesto: può una pecora innamorarsi di un pastore tedesco?"
"Si, avevo sentito..."
"E può o non può?"
"Tu che dici?" gli ho chiesto con un pugno premuto sulla guancia.
"Lo sto chiedendo a te! Sei strana, giovane..."
Allora ho inventato una specie di storia un po' per le orecchie del vecchio e un po' perché mi dispiaceva lasciare che le anime della pecora e del pastore tedesco vagassero sperdute nel turbine scombinato delle cose non scritte.
"LA PECORA F19 E IL PASTORE TEDESCO"
Ogni gregge ha il suo pastore, ogni pastore ha le sue pecore, ogni pastore ed ogni gregge hanno un pastore tedesco. Quest'ultimo non ha bisogno di nessuno se non di se stesso ed è per questo che sembra il migliore, forse non lo è davvero, ma egli, dico, sembra il migliore. E lui, ad ogni modo, ha capito che con le pecore basta l'apparenza. Chi diavolo ha sentito mai di una pecora che studia la vera personalità di un pastore tedesco?
Così il pastore tedesco sembrava un re, seconda nota dopo il do del guardiano delle pecore. Quando scorrazzava da una parte all'altra del gregge, il vento contrario gli scompigliava il pelo e nel vento a favore, invece, appariva come una delle creature terrestri più belle.
Tutte le pecore gli lanciavano sguardi assenti mentre masticavano l'erba e, in cuor loro, sapevano bene che quel cane non potevano nemmeno avvicinarlo. Tuttavia, c'era un piccolo cuore di pecora che batteva convinto per il maestoso cuore allenato del pastore tedesco.
Si chiamava Pecora F19 e non era nera, non era un clone, non sapeva fare niente di straordinario. Era esattamente come tutte le altre. Una pecora.
E qui finisce il racconto della pecora e del pastore tedesco perché la pecora non è un personaggio adatto e degno di avere una storia. Io odio gli elementi del genere.
Un momento... chi sono io per impedire ad una pecora di innamorarsi di chi vuole? Può una pecora innamorarsi di un pastore tedesco? Può o non può? Può o non può?
Credo che la storia non finisca qui. Scusate, non ho ancora finito.
La pecora F19 era straziata dal dolore e in quella sofferenza ella vedeva tutta l'inutilità della sua vita. "Non faccio che brucare tutto il giorno e poi dormire- si diceva- io non servo a niente. Perché sono nata?". Ma poi si disse che partorire pensieri melodrammatici non sarebbe servito ad avvicinare il pastore tedesco. Quello che fece fu di rallentare. Rallentò il passo così tanto da rimanere ultima e lo rallentò ancora fino a rimanere... isolata. Il pastore tedesco le abbaiava dicendole di sbrigarsi, ma lei non lo stava a sentire. Per intere settimane la pecora si distaccò di qualche metro dal resto del gregge e il pastore tedesco dovette scortarla con le orecchie scocciate.
Successe che, a stare lontana dalle altre pecore, F19 sviluppò un senso critico diverso. Distingueva l'esistenza di steli d'erba più verdi di altri e finì col notare anche la poca grandiosità nell'animo del pastore tedesco. Se lei era solo una pecora, anche lui era solo un pastore tedesco.
Questo la portò a dichiarare il suo amore e, a forza di belati, il pastore tedesco capì cosa intendeva. La rifiutò, dicendole: "Non ho tempo, bellezza", ma lei se ne fece una ragione molto presto e si disse che da quella faccenda ci aveva guadagnato sicurezza ed anche una certa voglia di diventare qualcuno.
Qui si perdono le notizie della pecora F19, anche se c'è qualche uomo che giura di aver visto una cucciolata di pastori tedeschi con la faccia di pecora, ma a questo io, personalmente, non credo.

15/07/10

La Ballata del paese Qualunque

di Cristina Taliento

Conosco Qualunque da quando son nata
o fors' anche dal giorno prima;
lo calpesto con la mia Converse slacciata
e non faccio commenti sul clima.

Con il vostro permesso ho osservato
le andature diverse dei passanti
e, lo devo dire, ho notato
un certo stile da viandanti.
Loro vanno lenti e perdono il fiato
con le mani in tasca, ansimanti;
come se avessero posto nel fato
i loro destini briganti.

Conosco Qualunque da quando son nata
o fors'anche dal giorno prima;
lo calpesto con la mia Converse slacciata
e non faccio commenti sul clima.

Seduta a due metri dai binari
c'è una ragazza che si guarda scomparire
ed i suoi occhi, dietro i capelli chiari,
si chiedono se sia giusto morire.
Dolce Giulia, adesso impari
quant'è duro la sera soffrire
e nelle pagine dei tuoi diari
vedere la morte e la vita sfuggire.

Conosco Qualunque da quando son nata
o fors'anche dal giorno prima
lo calpesto con la mia Converse slacciata
e non faccio commenti sul clima.

Il Signor Giustappunto alle sette va alla porta
o dal suo letto tre metri per uno;
e si chiede se la sua fortuna l'abbia estorta
dalla fragile volontà di qualcuno.
Poi si risponde che alla fine non importa
su questa terra di nessuno
dove tutti hanno la coscienza corta
senza farsi scrupolo alcuno.

Conosco Qualunque da quando son nata
o fors'anche dal giorno prima
lo calpesto con la mia Converse slacciata
e non faccio commenti sul clima.

Quello che viene è solo un ragazzino
che gioca da solo sul tramonto
e la sua ombra sembra un piccolo pino
che si piega alla solitudine dell'affronto;
L'animuccia trasparente d'oro fino
piange lacrime senza tenere il conto
e chissà a cosa pensa quel bambino
se ad un incubo o ad un racconto.

Conosco Qualunque da diciassette anni
o forse non lo conosco affatto
perché le convinzioni sono inganni
che fanno svanir completament' il fatto.

14/07/10

Ho sognato le trincee

di Cristina Taliento

Ho sognato le trincee.
Schiere di fantasmi in uniforme.
Bandiere strappate sul fuoco.
Ho creduto in ogni genere di morte.
All'inizio era orgoglio.
Ho mangiato le mie parole.
Uno sparo.
"Siamo spiacenti, il numero da lei
selezionato è inesistente.
La preghiamo di riprovare.
Grazie."

13/07/10

I nipoti di Bob


di Cristina Taliento

Se Woody Guthry cantava degli scioperi dei ferrovieri e dei diritti della classe operaia americana, Bob Dylan prende a martellate quel gigantesco palazzo di cristallo che tutti chiamano American Dream. Lo attacca da ogni parte, in ogni breve frase. Lui mischia le carte e poi grida una specie di: "Pescate, qui c'è il mondo".
Le sue canzoni sono fiumi d'acqua gelata che tolgono il respiro, pezzi di vita tradita e pezzi di una gioia che si perde nella corrente della vita. Lui spostava il limite continuamente e credo che il suo non fosse solo puro talento musicale. In lui c'era la sensibilità dei poeti, la fantasia degli inventori, il coraggio del soldato che scende in campo con la chitarra carica su una spalla. Il ragazzo del Minnesota ha liberato la mente degli artisti, si è messo al centro di un palco occupato ai lati da chansonnier francesi, suonatori del Be Bop, gente che cantava solo l'amore e nient'altro. Si, i tempi stavano cambiando, ma lui se n'è accorto per primo. Ha preso il cambiamento, l'ha sbattuto sulla faccia di giudici, critici, giornalisti e nel folk ci ha messo tutti gli interessati e i non interessati. Molti hanno voluto vedere nella sua musica un atteggiamento strafottente nei confronti della realtà, come un giudizio critico e, allo stesso tempo, disinteressato di uno che fuma l'erba ogni volta che può. Ma che altro poteva fare uno come lui? Dylan era un artista, lui non dava suggerimenti su come cambiare le cose. Per quello c'erano gli studiosi, gli scienziati, lo Stato. Chi ha mai sentito di un artista che fa lo stratega?
Quando la sua musica è arrivata in Italia c'è stata la rivoluzione degli animi più sensibili. Mentre Mina riempiva le prime Tv con la sua voce e Modugno cantava Nel Blu dipinto di Blu, nuovi artisti fanno uscire la loro testa dal sipario. Si tratta di musicisti come Guccini, de Gregori, Dalla. Nei loro testi si legge la stessa amara poesia di Dylan, l'accenno all'audace protesta che il cantautore statunitense usava gridare nei concerti e nelle piazze.
In un' intervista di Vincenzo Mollica, Francesco de Gregori dice: "ho preso tanto da Dylan in tutti i sensi". Le somiglianze nei testi le ritrovo molto spesso. Come Bob, in The Ballad of a Thin Man, parla di un personaggio reale senza mai svelarne il nome così de Gregori fa lo stesso in Dr. Doberman.
Dalla dichiarerà: "Dylan? Qualcosa simile ad uno choc, una rivelazione. Tutto mi sembrava nuovo, coraggioso, addirittura di sinistra."
La sua influenza, insieme a quella di Joan Baez, entrò anche in Fabrizio de Andrè negli anni Sessanta, quando lui si era già fatto strada con La guerra di Piero ed altri brani, ma lo stile viene assimilato anche da grandi musicisti americani come Leonard Cohen, Patti Smith e Neil Young.
Dylan è stato l'inizio e lo sviluppo di una musica nuova, scomoda, poco commerciale perchè difficile da capire. Il grande Bob...

10/07/10

Italia, prendi queste lacrime

di Cristina Taliento

Ti guardo dall'ombra di un oleandro e mi sembri più bella.
E quasi non respiro per quanto sei bella.
Bella e ferita come nei film. Sembri Marylin Monroe. Tu.
Qualcuno le dica di andare al diavolo. Tu.
Quella degli stranieri, dei muti, degli svitati vestiti da letterati.
Italia, ehi, guardami, ce l'ho con te.
Tu ridi, tu gridi, tu 26 ottobre, tu "obbedisco", tu scrivi.
Hanno poetato per te, non per il loro sangue, ma per te.
Le fiamme danzano sulla carta del passato.
Tu fai la storia, ma poi te ne vergogni.
Oh Italia, come hai potuto?
Sei un'anziana vedova che fuma marijuana.
Io ti amo, ma tu non lo capisci.
Mi offendi e poi ti allontani correndo.
E ti guardo con amara tristezza.
Va' a farti lavare il cervello dai tuoi capi.
Va' a farti imbellettare a festa dal biancore meschino dei sorrisi.
Le commedie all'italiana mi fanno vomitare.
Non mi sento bene.
La tua bellezza è difficile da sopportare.
Italia, mostra il tuo carattere.
Il tuo carattere non è nei reality, nello stizzito giudizio del pubblico.
Piangi per me, balla per me, cantami le tue vecchie canzoni.
Chissà se chi ti lasciava, poi, ti ricordava la sera.
Chissà se tutti quei morti te li sei meritati.
Non starmi a sentire, vecchia ubriacona.
Ma che c'era nelle loro valigie di immigrati e avventurieri?
Italia, c'eri tu.
Sei troppo bella da avvicinare, troppo bella da sposare.
Tu fai l'arte, i panorami, le origini imbronciate di popoli grandiosi.
Italia, spirito libero.
So quello che sto dicendo, professori miei.
Italia, sputa questo torsolo di mela maledetta.
Italia, che ti hanno fatto. (Niente).
Italia, non sto sognando. (E' l'effetto dei farmaci per l'insonnia)
Tutti seri tranne tu ed io.
Italia, non starli a sentire.
Splendi a giugno e profumi a settembre.
La tua pioggia mi brucia sulle guance. Lacrime.
Un istante, solo un istante.
Vermi ti strisciano sul cuore.
Li guardo e soffro. Ho paura.
Italia, sanguini.
Le mie visioni accecano lo spirito individualistico dei miei "non so".
Fatemi uscire.
Italia, costruisci leggende e poi non le smentisci.
Ti imballano in televisioni da 42 pollici.
Italia, ma a che gioco stai giocando?
Tu, degli aiuti umanitari. Tu, delle morti bianche.
Italia, salva te stessa.
Italia, dove tutti vogliono essere chiamati eroi.
Dove questo stramaledetto sopracciglio non sarà mai alzato abbastanza.
Va' a farti scopare.
Patria di tutti e di nessuno.
L'italiano è il fiorentino colto.
Tutti gli altri dialetti sono figli bastardi.
Italia, io sono ai tuoi piedi.
Le menti dei neri non servono, ma i loro cuori sono utili ai trapianti.
Perché, in fondo, siamo tutti uguali.
Ahi Italia... Italia delle contraddizioni,
dei favori politici e del cibo in scatola.
Italia, tu chi sei?
Sei sempre più bella. L'hai voluto ed ora lo sei.
Guardate la sua arte, acclamate i suoi palazzi,
ma non chiedetele- non chiedetele, dico-
di animare il suo cuore di costante e pacifico ingegno.
Lei non ascolta.
Italia, prendi queste lacrime.
Sono tue.

08/07/10

Smoke

di Cristina Taliento



Ho sempre creduto nella libertà delle scelte. In generale. E credo che, alla fine, sia giusto così.
Eppure evitare di criticare non significa smettere di riflettere. Avere delle riflessioni pulite ed incontaminate dal giudizio critico dell' educazione, cultura ed esperienza è, infatti, a mio avviso, una delle conquiste più alte che l'individuo possa raggiungere. Ed è con questo spirito che affronterò uno degli argomenti su cui spesso mi trovo a pensare, con l'intento, quasi ingenuo, di riuscire a capire davvero. Il fumo. Quattro parole e una condanna.
Ho suddiviso i fumatori in 3 categorie, sebbene io detesti suddividere in categorie.
Ci sono persone che fumano per darsi delle arie. Le ho viste, le ho osservate mentre facevo finta di guardare altrove. Il modo in cui inforcano la sigaretta, il modo in cui atteggiano le labbra, è figlio del fascino che loro vogliono avere. Non ho le idee molto chiare a proposito. Non sono sicura che la sigaretta dia fascino. Il cinema è pieno di attori ed attrici che fumano teatralmente su letti grandiosi. Non lo so... il cinema, questo l'ho sempre pensato, è un guaio che fabbrica icone strane e complicate.
Ci sono persone che fumano per sfogare dei sentimenti ed ho visto anche loro. Di sfuggita, però, perché non sta proprio bene guardare una persona mentre è in preda di se stessa. Una volta ho visto una donna che gridava dentro un cellulare e un attimo dopo l'ha sbattuto a terra e poi si è messa a scavare furiosamente nella borsa in cerca delle sue Lucky Strike. Mi sono chiesta cosa avrebbe fatto al suo posto un non-fumatore. Dove avrebbe sfogato la rabbia o qualunque altro dannato sentimento, lui? Da qualche altra parte, suppongo.
Altre persone, invece, fumano per la nicotina perchè ne hanno bisogno, credo. Loro sono arrivate a questo punto dopo essere passate dalle prime due categorie. Loro fumano e basta e non si chiedono nemmeno il perché. Loro fumano e basta.

06/07/10

Ritratto di un giovane

di Cristina Taliento Non ho parlato mai a nessuno del giovane Erre e credo che, con il vostro permesso, lo farò ora siccome ho terminato quel lavoro noioso che si accumula, ahimè, sulla scrivania del giornalista di riviste per adolescenti. No, non voglio parlare del mio lavoro e di quanto, alle volte, sia snervante; ho appena detto che narrerò di Erre e non ho intenzione di cambiare argomento.Quando divenni assistente universitario alla facoltà di Lettere Moderne ero convinto di veder sfilare davanti alle mie due lenti rettangolari una serie di individui magnificamente interessanti. Pensavo, infatti, che gli studenti di Lettere Moderne avessero sviluppato una personalità degna di essere studiata, esaminata e, soprattutto, descritta. La mia indole di scrittore curioso alle prime armi venne, invece, schiaffeggiata da una crudele delusione. Mi illudevo, era chiaro. Ciò che vidi furono volti anonimi di giovani universitari. Volti scontati, circondati da capelli così normali. Le loro voci, poi, erano piatte, prive di ogni accenno di vitalità ed io ricordo che mi sforzavo per riuscire a dare un senso artistico a quelle sagome come si sarebbe ingegnato un bambino per rendere più brillante ed eroica la sua spada di plastica. Ogni volta che uno di loro mi sedeva dinanzi, io lo squadravo speranzoso e, deluse le mie aspettative riguardo l'aspetto, cercavo almeno un appiglio d' interesse nei modi, nell' inclinazione delle labbra durante il parlato. Ma, anche lì, non trovavo nulla di davvero eccezionale. Mi rendevo conto che quei soggetti non erano irrecuperabili e potevano essere salvati con una piccola aggiustatina concessa dalla mia fantasia, ma non era questo ciò che volevo. Avevo trascorso la mia intera adolescenza a fabbricare personaggi come fossero marionette e in quel preciso momento della mia vita, invece, cercavo l'autenticità vera e immacolata dell'individuo. Cercavo qualcuno talmente speciale da essere descritto soltanto, qualcuno che non avrebbe richiesto nulla alla mia immaginazione.Ormai avevo smesso di cercarlo. Anzi, mi ero del tutto dimenticato di quella strana presunzione di trovare la mia Ispirazione. In verità, erano state quelle raffiche di volti monotoni che avevano seppellito ogni voglia di cercare l'ispirazione nel mondo che conoscevo. Accadde un giorno di marzo. Pioveva e, a secondo delle ventate, alle mie orecchie arrivavano lamentele sulle strade bagnate e sulla difficoltà dell'esame. Avevo appoggiato la mia torre di libri all'angolo del tavolo e tamburellavo le dita sul libro più in alto. Guardavo, distratto, le gocce di pioggia strisciare sul vetro delle finestre e aspettavo che arrivasse l'orario. Ero sempre in anticipo. Erre si presentò alle nove in punto ed io non mi meravigliai affatto, siccome la puntualità precisa era una moda così ricorrente in quella facoltà universitaria. Gli feci le mie domande e lui si fiondò a rispondermi come chi teme che l'esitazione sia indice di ignoranza, ma mi accorsi subito dalle sue pause ricorrenti che il suo studio non era poi così grandioso. Erre aveva un' altezza esagerata e due occhi verdi, quasi grigi. I suoi capelli neri erano stati tagliati senza un ordine preciso e due ciuffi si infilzavano nei suoi occhi come due freccette al tiro a segno. Indossava un giubbotto di pelle anni 50' e si sarebbe potuta supporre molta spavalderia sulle spalle del proprietario, ma proprio sotto quel giubbotto spuntava il colletto di una camicia da donna. Era di seta ed aveva i bottoni rossi e smaltati. Mi tolsi gli occhiali per pulirli meglio. Notai che sulle scarpe stringate di vernice nera erano stati infilati dei lacci colore giallo canarino. I pantaloni, invece, erano molto simili ai miei; un paio di Levi's consumati sulle ginocchia. Mi chiedevo il perché di quella camicia da donna e di quei lacci gialli. Dentro di me si accendeva quella speranza di aver trovato un soggetto da descrivere. I suoi discorsi erano pieni di paroloni che leggevo soltanto nei libri dei vecchi critici, ma, infilate in quel balletto classico di grammatica, c'erano espressioni comiche come "tra virgolette", "possiamo dire, con permesso" e "se non casca il mondo". Quel tipo attirava la mia attenzione di reclutatore di pezzi unici. Diedi un occhiata al foglio con il suo nome. Mai sentito prima d'allora. Ad un tratto starnutii e mi tappai il naso con entrambe le mani. Lui, in un gesto fulmineo, si alzò in piedi sbattendo la sedia per terra, si frugò nelle tasche con uno sguardo terrorizzato e prese un fazzoletto di stoffa. Allungò la mano per darmelo. Era uno di quei fazzoletti di stoffa che portava sempre mio nonno. Mi sorprese che un giovane di vent'anni ne avesse uno nella tasca del giubbotto. Lo rifiutai cortesemente e mi misi a cercare nella mia cartella il pacchetto di Kleenex. Mi accorsi che si era offeso. Feci finta di niente e ritornai a guardare sorridente il foglio con i suoi dati. "Oh-Oh.-Oh" pensai.

03/07/10

Ehi

Ehi, come stai, spero bene, poi non so.
Ti sembrerà strana questa filastrocca, molto o solo un po'.
Mi chiederai di sputare questa rima come una gomma da masticare,
mi chiederai di parlare con i toni seri di uno che sa come pensare.
Non voglio fissare le mie condizioni, intraprendere litigate,
lo sai che le gare di tragedie non le ho mai sopportate.
Quindi, se per caso passerai da queste parti solitarie
fermati a leggere queste quattro stupidaggini varie.
Sai, io non lo faccio per attirare l'attenzione
come dicono gli psicologi in televisione.
Io non lo faccio nemmeno per farti dispetto,
o perché non so come, in altro modo, dimostrarti affetto.
Io ripeto "io, io" e poi non so mai bene cosa dire
forse perché tra genitore e figlia c'è poco da capire.
L'orgoglio è una cosa schifosa che non si dovrebbe mai provare
perché ti spezza le lacrime e te le fa ingoiare,
ma piangere fa bene, una volta me l'hai detto e ora lo ricordo
la tua voce, dieci anni fa, come un rumore sordo.

O forse tu, non lo so, hai capito più degli altri fessi
che mi hanno data per dispersa prima ancora che chiamassi.
Gli anni ci hanno separato o forse sono io che mi sono allontanata
e, di sicuro, c'entra quel desiderio strano di voler stare isolata.
La ragione e il torto, immagino di averlo letto,
non si possono tagliare con un taglio netto
e le nostre ragioni si sono mischiate,
troppo imbrogliate nei torti di persone sbagliate.
Io ho capito delle cose mentre ero lontana,
persa in quel misterioso e freddo vento di tramontana.
Ho capito che degli altri giudici di professione non mi importa
e ho capito che voglio ancora sentire il tuo respiro dietro la mia porta.
Perché io lo so che quando smetti di chiamarmi poi non te ne vai davvero
perché io lo so che speri nella dimostrazione di un mio sentimento sincero.
Ma tu, ti prego, non te ne andare
resta ancora un altro po' ad aspettare.
La confusione e la paura sono solo illusioni
che volano come, nel cielo, gli aquiloni.
Soltanto che, alle volte, uno si stanca a guardare in alto
nell'attesa di una caduta, una rottura o un salto.
Promettimi che non ti stancherai, che mi aspetterai
che ascolterai i miei silenzi e li capirai.
Perdona la mia rima infantile e banale,
ma mi ha aiutato a non fare troppo la formale.
E sul mio cuore ancora ci devo lavorare,
ma ti voglio dire che ti voglio bene, ti prego, non ne dubitare.

(Tua, C.)

02/07/10

Conversazione d'estate

di Cristina Taliento


I pomeriggi d'estate sono buoni per camminare, fermarsi e poi, di nuovo, camminare. Come viandanti che sostano e, dopo un poco, ripartono. E quando ripartono si sentono meno assetati di mondo e di risposte.
Ci sono due bambini sulla via, seduti uno di fronte all'altro e giocano a scacchi. Mi avvicino. Quello con i capelli ricci, dopo aver fatto una mossa, dice sempre qualcosa, come una liberazione. E quello con gli occhiali lo sta a sentire.
"Secondo me è meglio il cavallo della regina" dice Capelli Ricci
"Spffpff" e Occhiali sbuffa con il naso.
"Il cavallo fa la elle e la regina no" dice Capelli Ricci
"Spffpff" e Occhiali sbuffa con il naso.
"Il cavallo salta come vuole e nessuno lo ferma" dice Capelli Ricci
"Spffpff" e Occhiali sbuffa con il naso.
Mi allontano e riprendo a camminare e c'è una vecchia su una sedia. E' sola e si stira il vestito sul ginocchio. Mi siedo su una sedia vuota accanto alla sua.
"Fa caldo" dico.
"Eh..." dice lei e guarda in alto, con gli occhi azzurri.
"I bambini giocano..." dico io.
"Si, tanti bambini, si divertono...giocano" dice lei, guardandoli.
"A nascondino" dico.
"A nascondino, sì" dice lei, con gli occhi azzurri.
"Che giochi facevate da piccoli, voi?" chiedo.
"Mah... correvamo dietro la campagna, ma c'era la malaria..."
"Ah... la malaria" dico.
"Morivano molti bambini" dice lei, con gli occhi azzurri.
"Morivano?" chiedo
"Non c'erano molti bambini per giocare... morivano" dice lei.
"Ah...".
Mi alzo e cammino con le mani in tasca, le scarpe slacciate. Alcuni pomeriggi non ti rimane che il sole in faccia, le mani in tasca e le scarpe slacciate. Incontro un mio vicino di casa.
"Salve" dico io.
"Salve, salve" dice lui e mi ferma per parlare un poco.
"Beh... la media? Sei andata a scuola a vedere la media?" chiede lui.
"Si, si. Buona media, buona media, grazie. " rispondo.
"E l'italiano?" chiede
"Tutto bene"
"La mamma è contenta?" chiede
"Si, si"
"Brava, brava.- dice- Allacciati le scarpe, comunque!"
"Ah..."
Lo saluto e me ne vado, con i lacci che saltellano da una parte all'altra. E c'è una giovane all'angolo della strada. Una giovane con una tela davanti e un pennello in mano.
"Dipinge?" chiedo.
"Si" risponde.
"La strada? Questa qui?" chiedo, mostrando la strada davanti con la mano dritta.
"Perché no?"
"Non è una bella strada questa. L'altra parallela si, però" dico
"E da cosa lo capisci che quella è bella e questa no?" chiede
"Mah... ci sono più alberi e meno fili" dico.
"Secondo te un quadro è bello se raffigura cose belle?" chiede
"Non credo" dico
"Infatti" dice lei, riprendendo a dipingere.

01/07/10

Le scorribande notturne di G. e sorella

di C.T.

Facciamo che mi chiamo G., come il K. di Kafka ne Il Processo, non so se avete capito, ma va bene lo stesso, non vi faccio un processo (sorrisi di cortesia e fischi, clap clap clap). Fatto sta che sono un topo, non proprio un topo. Cioè, sono alta uno e settanta e ho i capelli lunghi, ma a volte mi piacerebbe essere un topo. Non so perché. Mia sorella, invece, no, lei non si sente per niente un topo. Anzi se le dicessi "ehi topo", lo so già come mi guarderebbe. Quindi, no, manco ci provo a dirle "ehi topo". Lei è solo più piccola di me di qualche anno, ma in sua presenza mi sento una specie di mocciosetta che neanche sa parlare. Non so perché.

Comunque io e lei siamo come quella frase della Solitudine dei numeri primi:"Mai tanto vicini... vicini, ma non tanto... da toccarsi... sfiorarsi...". Non me la ricordo bene, ma tutti non fanno che ripetere quella benedetta frase. Che gran casino quando la gente si mette a ripetere le stesse frasi in ogni circostanza, come quelle bambole con la voce registrata che ti verrebbe da prenderle e decapitarle all'istante. Fatto sta che con mia sorella siamo pressoché così, ma c'è una cosa che devo riconoscerle: come rido con lei non rido con nessuno. Ieri notte, per esempio, stavo soffocando dalle risate e il bello era che non potevamo nemmeno svegliare chi stava dormendo. E' un bel dramma quando ti viene da ridere e devi stare attento a non far rumore. Ti soffochi il doppio.

Insomma, è successo che ieri proprio non mi riusciva di prender sonno. E una cosa ormai l'ho capita: quando passano le ore e sei sveglia, quando apri gli occhi nel buio come se ti aspettassi di vedere chissà cosa, quando ti ritornano tutte le paure che avevi da bambina, quando ti sale un' ansia che vorresti esser morta, allora è tempo di alzarsi dal letto e cambiare aria. Così, a piedi scalzi, sono andata in cucina e mia sorella era lì, sempre più scema. Mi avvicino e faccio "ehi", ma "ehi" e basta, non "ehi topo", perché lei non si sente proprio un topo, l'ho già detto. Vabbè. Lei mi guarda dall'alto in basso, anche se è parecchio più bassa di me, e non dice niente. Stava leggendo un libro sul tavolo, il che è strano, visto che lei non legge mai niente che non siano quelle riviste di moda. Lei a differenza di me, quando "legge" , ha bisogno di silenzio. Io, invece, potrei stare benissimo nella gabbia di due scimmie che si stanno riproducendo e capire ogni singola parola. Lei no, è capace di lanciarmi il libro addosso se parlo mentre sta leggendo. Vabbè. Però il fatto è che io non sopporto le costrizioni in generale e quando mi impongono di non fare una cosa, lo prendo sul personale, come se mi stessero vietando la libertà sacrosanta di fare quello che voglio. Lo so che "la libertà di uno finisce quando incomincia quella di un altro", ma tra fratelli questa regola è un bel macello perché se dovessi contare tutte le volte che lei l'ha infranta e tutte le volte che io l'ho infranta, buonanotte ai suonatori e amen. Sarebbe impossibile. Così mi sono messa a ridere sommessamente, tanto per disturbarla. Lei per due anni circa ha fatto finta di niente ed io mi stavo quasi rassegnando, ma poi mi è venuto in mente di aumentare la dose e dalla risata sommessa sono passata ad una specie di risata con singhiozzi finti. Niente, non mi stava proprio a sentire. Però mi sono fatta forza e non ho smesso perché, mi dicevo, era tutto un lavoro di costanza e, soprattutto, perseveranza. Ad un tratto, lei ha alzato gli occhi dal libro e ha detto: "Vattene". E io mi sono messa a ridere, questa volta sul serio. Non c'è niente di più divertente nel vedere mia sorella che fa il vocione- "Vattene"- anzi, è più divertente, a dire il vero, quando mi chiama "amorino" o "tesoro" sol perché mi deve chiedere un favore. In quei momenti potrei morire d'infarto per le risate. Comunque, c'è da dire, che io rido per tutto. E me ne faccio anche un problema. Non sono capace di fare nessunissimo scherzo o battuta perché rido. Mia sorella, quell'idiota, invece non ride mai e gli scherzi le riescono alla grande. Pure le barzellette e le frasi scherzose. Lei riesce a dirle tranquilla e a ridere dopo, con tutti gli altri. Io, al contrario, rido prima, durante e alla fine no, perché non ci arrivo quasi mai alla fine, per dire il vero. E' patetico, anzi "è ridicolo" come dice lei. Comunque mi piace un sacco ridere e mia sorella non aiuta affatto.


Insomma, dopo che mi aveva detto "vattene" ed io non me ne ero andata, mi aspettavo come minimo il libro in faccia o un offesa grave. Invece si è alzata ed ha aperto il frigo. Sono rimasta malissimo. Disperata, ho preso una bottiglia vuota, con qualche gocciolina dentro, e le l'ho schizzata su una spalla (poco, perché non c'era molta acqua). Ma non è stato molto saggio da parte mia perché non mi ero accorta che lei stava stringendo una bottiglia, bella piena, tra l'altro. Il tempo di girarmi ed avevo già la maglietta bagnata sulla schiena. L'acqua, poi, era ghiacciata. L'unica cosa che riuscivo a dire era " Mamma mia bella, mamma mia bella..." e non smettevo, no no. Sul pavimento c'era un lago. Lei: ha messo i piedi sull'acqua ed è scivolata, distesa come chi, non saprei. Allora io, quasi morivo. Mia sorella mi gridava a bassa voce un sacco di belle parole e mi ordinava di andare a prendere qualcosa per asciugare l'acqua e faceva finta di aver male al gomito. Ma io lo sapevo che diceva "ahi, ahi" sol perché dovevo andare io a prendere lo straccio. Tanto sarei andata comunque. Figurati.

Sono tornata strisciando lo straccio come gli omini che puliscono in due secondi il campo di basket o quello di pallavolo. E nell'arrivare volevo gridare "gelaaatii, geeelatii!!", ma,come al solito, stavo ridendo per quel pensiero. Ah... mon Dieu de la France donne moi la Patience... La pris de la Bastille...