29/06/11

Parole in un quarto d'ora di volo

di Cristina Taliento


Ehi Bob, pubblicità permanente e vento che soffia nella giacca: non esiste la fantasia. Il tuo mondo era solo finzione, un piccolo palcoscenico scorticato sul davanti con il sipario lacerato dove ci sono burattini con la mandibola scettica e pezzi di ricambio sul fondale. Oh America! Oh Dylan, veniteci ad afferare al volo mentre stiamo farfugliando questo Amleto della periferia, mentre stiamo aspettando appoggiati al lampione appena verniciato. La fantasia non è mai stata molto per me... solo pioggia evanescente di cenere e palazzi crollati nei boschi del Canada. Acconsento; io posso firmare che l'immaginazione me la sono inventata, che i sogni e le visioni, sissignore, erano ricordi del passato e che io non ho mentito e mai lo farò. Posso giurare per chi vuole che eravamo puliti e camminavamo dritti nella realtà masticando gomma rosa e radici di liquirizia. Ma voi mi volete accusare d'alto tradimento! Oh Bob, ma cosa vogliono questi scellerati figli di assassini e farabutti? Bob, mi hanno cantato una canzoncina battendo le mani sulle sbarre. Una canzoncina, Bob, non so se la conosci... faceva: Du-du-du-du ora te ne stai nella Prigione della Ragione du-du-dudu... senza colpa nè approvazione. E poi dalle loro bocche uscivano delle note nere, come quelle del pentagramma. Si, insomma, tutte quelle semiminime e biscrome insieme ai diesis che fluttuavano tra le pareti della mia cella. E tutto quello che dopo ho visto è stato questa specie di poliziotto che ha sparato alle note e quelle se ne sono scappate di corsa sotto il lettaccio che mi avevano dato. Si è messo a gridare: "Ohi, ohi, sei stata tu! Non devi creare queste stupide immagini nella tua mente". Tanta la paura che il mio cervello ha fatto TRAC, come un uovo che si schiude. E poi sono morta, Bob. Capisci, per Giove? Morta, Bob. Senza dire una parola. Però sapevo di essere morta e questo, sulle prime, m'è parso un poco strano, non c'è che dire. La gente muore e basta e non sa mai quando è proprio morta. Al che ho pensato, spaventissima: non è che mi sono immaginata tutto? Ma il punto è questo! La fantasia non esiste, ma io?

26/06/11

Il fantasma di Tixy Toc

di Cristina Taliento



Accadde un pomeriggio d'estate al campo da tennis. Non sapevo più tenere la penna in mano e passavo i pomeriggi a guardare i bambini mentre sventolavano pantaloncini bianchi e collanine con la croce. Un giorno faceva troppo caldo ed erano andati tutti a mare, così il campo era vuoto e neanche uno schiocco di racchetta nell'aria. Appoggiai i gomiti sul recinto di ferro alto poco più di un metro e guardai il campo sotto quel sole straziante tentando di trovare lo sviluppo di un racconto a cui stavo lavorando, un ammasso schifo di vocali e luoghi comuni intitolato Il fantasma di Tixy Toc. Iniziavo con l'intenzione di volere bene al personaggio, amarlo e stimarlo fino ad addormentarmi insieme a lui, ma finivo per farlo morire due volte, incespicato goffamente tra i rovi delle sue banalità, che poi erano anche i miei e di tutti i sicari mandati per uccidere nel buio la mia misera creatività. Quei ragionamenti troppo seri non mi fecero vedere il fantasma nel momento esatto della sua apparizione e forse non mi sarei mai accorta di lui se egli stesso non si fosse avvicinato agitando la capigliatura inconsistente nel punto in cui il mio sguardo si era inchiodato pur restituendomi una visione sfocata della scena.


Riconobbi Tixy Toc per come me l'ero immaginato, anche se questa volta aveva un cappellino da tennis e una pallina giallo evidenziatore in mano. Tixy Toc era un poeta di stracci, niente a che vedere con Byron e con gli altri. Girai la testa per vedere se qualcuno stava guardando. Nessuno. "Che vuoi?"


"La mia dannata storia" rispose lanciando in un sorriso la pallina e riacchiappandola con un largo gesto.


Mi dispiaceva guardarlo in faccia e dire: "Mi spiace Toc, qui non c'è più pane. Ti licenzio, via. Non mi guardare così. Sparisci, non so più scrivere, lo vuoi capire? Avanti, non sono mica al tuo servizio. Odio, odio, odio i personaggi come te che tornano per chiedere il conto. Perchè non te ne vai all'inferno? Mi innervosisci e basta. Ciao, va bene? Ciao!". Ad ogni modo il fantasma mi intimoriva più di ogni altra ombra sulle pareti alla sera. Per codardia o per compassione alzai le spalle e battei le mani in un solo colpo. "Mmm!" feci in tono convinto come per mostrarmi sicura e soprattutto in possesso delle mie idee.


"Voglio che parli di quando barattai la mia casa per il quadernetto di Borel, indimenticabile episodio mai del tutto compreso e poi c'è quell'altra storia..."


"Ascolta, fantasma di Tixy Toc- lo interuppi- tu sei stato un grande poeta e ti nascondo dietro questo ridicolo pseudonimo e mi dispiace sul serio, ma il nocciolo del dilemma è che io, sincerità per sincerità, non posso darti la tua storia".


Il fantasma si ritrasse in una teatrale mossa di sdegno. Mi sembrò L'Urlo di Munch con più capelli.


"Che cosa intendi, scribacchina minorenne?"


Sorrisi appena. "Ho smarrito l'ispirazione e il tuo personaggio mi blocca alla carta. Puoi andare ad aggrapparti alla penna di qualchedun'altro" dissi guardando le linee sul campo da gioco.


"Sai bene che non è possibile. Sai bene che sono nato dalla tua testa e lì devo morire: vendendomi mi cambierai l'anima, metterai a fuoco i miei vestiti, mi vedrai marcire tra le pagine di un Ospizio per Personaggi Diseredati, morirò..."


"Va bene, non continuare- sbuffai- non c'è bisogno che continui"


"Tu mi prendi in giro. Prima te ne andavi a spasso con la penna tra le dita mentre adesso non leggi nemmeno. Mi sembra di vedere un fuggitivo che lascia la guerra e la terraferma per la tempesta. Alcuni di noi sono condannati a questa vita."


Il fantasma di Tixy Toc, dopotutto, era un poeta sensibile.


"Non lo so, Tixy Toc. Non lo so" mormorai mordendomi le nocche della mano.


"Scrivere non è uno sport che hai scelto di praticare. Non è come guardare montagne di film, nè come andare a scuola di cucito. Tu non puoi fuggire l'ispirazione e poi ricordarla con nostalgia mentre fissi due idioti in mutande che rincorrono una palla"


"Il tennis è divertente" provai a dire risentita.


"Quasi quanto mentire a te stessa?" chiese avvolto nella sua scomoda e pungente intelligenza.


Promisi al fantasma che avrei presto scritto una storia sulla sua vita. E non feci in tempo a salutarlo che, come tutti i fantasmi del mondo, era già sparito per quella curiosa fretta che attanaglia gli spiriti nullafacenti.

22/06/11

Condanna e Morte di uno Specchio

di Cristina Taliento



(Le Coquelicot, Kees Van Donger, 1919)


Quando questa storia spiegò le ali all'orizzonte
migliaia di cuori si addormentavano al fronte;
siamo nella primavera del quarantuno,
Seconda Guerra di Tutti e di nessuno.
Ma non è il campo di battaglia l'ambientazione,
nè il confino, non la Dalmazia, non la prigione;
per stanare il personaggio dal suo cespuglio,
per strattonarlo e vederlo gemere in un farfuglio,
dobbiamo addentrarci nei boschi del centro Italia
pungendo la cartina con una spilla da balia;
poi, guardare quel puntino con sguardo convinto
senza far inciampare la pupilla in qualche labirinto.
Ecco, trovato: dove lo spillo è affondato
sorgeva una casa colore rosso ramato;
piccole tende coprivano piccole finestrelle
minuscole rose, nei vasi, come gemelle.
Dietro quei petali c'erano un naso, una bocca
e due occhi tagliati da una sottile luce barocca.
Ella- il cui nome non cambierebbe la vicenda-
per le sue scelte, già da tempo, era leggenda.
Si diceva che tra i quadri e gli arazzi sulle pareti
non figuravano nè specchi nè segreti.
In sincerità, i primi mancavano sul serio
i segreti, ahimè, c'erano davvero...
primo fra tutti l'ignorare il proprio viso
facendo il contrario di quel tal Narciso.
Ella era cresciuta schivando il riflesso,
sfidando l'immagine con un vero processo
e per questa ragione si possono spiegare
i cucchiaini di legno ed i vetri da lavare
(questi erano così sporchi e macchiati,
che nemmeno gli insetti vi si sarebbero posati).
Si rifiutava di guardare nel secchio,
figurarsi poi, possedere uno specchio.
Un giorno bussò alla sua porta un pittore
e, dopo essersi inchinato, le chiese un favore:
"Sono qui poiché voglio ritrarre con olio su tela
il volto ignaro di colei che il cor raggela"
Ella rispose: "Raggelar i cuori, messere?
Oibò, oibò! Non è il mio mestiere!
Per di più, voi sapete, non conosco il mio aspetto
e mai lo conoscerò, con tutto il rispetto".
Il pittore parve per un istante sorpreso
e con un lampo d'arguzia sussurrò con fare indifeso:
"Potrei dipingerla a suo piacimento
in modo che io non rimanga troppo scontento.
Posso, ad esempio, modellare il tratto
ascoltando i suoi consigli sul ritratto".
Ella ci pensò per tre quarti d'ora
e poi: "bene, purché finisca prima dell'aurora".
Il pittore, sistemato il cavalletto
sentiva i pareri di quello strano soggetto.
"Mi dipinga con gli occhi rosa e le ciglia bianche..."
parlò fino a che il pittore non sentì le gambe stanche.
E mentre questi si rimetteva il cappello
mostrò il ritratto ed ella fece un saltello.
Aveva adesso la sua personale verità
sull'idea del suo volto e personalità.
Terminò così, in una mattina di pianto
la singolare storia dello Specchio Infranto.

18/06/11

Sull'incomodo di crescere

di Cristina Taliento





(Glenn Brown, oil on canvas)




L'altro ieri ho incontrato un vecchio che mi è sembrato una specie di saggio. Mi ha chiesto: "Che vuoi fare da grande?".


"Il medico" ho detto. E il Saggio ha annuito mentre prendeva un fiammifero e si accendeva una sigaretta con il tabacco che pendeva dai bordi come l'edera che cade fuori dai tubi.


"E la giornalista, perchè no?- ha chiesto ancora il Saggio- oppure la letterata?"
Io sorrido sempre quando chi mi conosce pensa che voglia diventare letterata. Però il Saggio l'ha chiesto in un modo onesto ed io ho risposto come mi sentivo.


"No, a dire il vero. I letterati non li capisco". Vedevo il Saggio che mi guardava dietro l'indice e il medio che trattenevano la Sigaretta. A tratti tossiva e girava la testa di lato.


"E chi è un letterato?" ha detto facendosi avanti con la spalla.


"Un gradasso- ho risposto ridendo- un pallone gonfiato!" Non sapevo se il Saggio fosse un letterato o roba simile, ma ho creduto di no.


"E i poeti? Gli scrittori?" mi ha punzecchiato strizzando un occhio e serrando la bocca. Ho sbuffato col naso: pfff. Pffff. Che ne sapevo.


"Persone tristi". Ed è stato allora che si è messo a ridacchiare e a tossire. Ha fatto per dire qualcosa, poi si è bloccato con la sigaretta piena di cenere sull'estremità. Alla fine si è alzato, un raggio l'ha illuminato.


"Crescere è proprio decidere come devi morire. Tu devi scegliere che vita vuoi fare, quale taglio dare ai tuoi pensieri" ha detto più o meno così. "Prevedi, intuisci e decidi. Tu hai previsto ed io capisco, toh la quasi rima. Ma tico- tossì- ti dico un'altra cosa, ragazza, quanti anni hai, bene: sfida la paura, le previsioni e diventerai grande. Ma non grande pollo, grande barbabietola, grande zucchina e così via. Diventerai Grande! Grande! "


Era una visione mistica. Le campane avrebbero suonato. Uccelli si sarebbero appollaiati sulla sua spalla.


"I pensieri profondi sono infelici, il più delle volte. Ignorarli è avere una vita come i vicini, i passanti, la cassiera del supermercato, il calzolaio" mi sono permessa di dire.


"Ehi! Ehi! Ehi! Soldato, combatti! Soldatoooo" ma è arrivata la figlia, bionda ossigenata, scusandosi per il padre anziano e così il vecchio Saggio l'hanno trascinato via con la prospettiva di un piatto caldo ed io ho riflettuto su quello che aveva detto.

17/06/11

Visioni subacquee

di Cristina Taliento


Mentre litigava con sua moglie sulla temperatura del climatizzatore, Virgulento Johnson, nome illustre, rispettato scienziato, ebbe un'intuizione. Si fermò per un istante con la bocca semiaperta e il dito indice a mezz'aria. Una goccia di sudore scese dalla sua fronte e cadde rumorosamente sul pavimento della cucina sette metri per quattro.

"Oh..." sussurrò piano.

"Vecchio pazzo" disse sua moglie e se ne andò trascinando le pantofole a forma di coniglio spennato.


Virgulento preso un quadrato di Scottex-superassorbente e scrisse con la mano tremante:

"E se gli uomini non vedessero le stesse cose? E se uno vede il cielo giallo e l'altro vede il cielo rosso ed entrambi hanno l'idea di questi colori sotto il nome di blu?"

Scriveva come in preda ad un raptus. Le gambe si muovevano scomposte per i brividi ed i crampi.

"Io penso che tutti vedono le cose esattamente come le percepisco io, ma se non fosse così"

"Per la miseria! Per la miseria!" gridò ripetute volte ed impugnata la giacca grigia aveva intenzione di correre al laboratorio di ricerca.

"Dove vai a quest'ora, Virgulento?" tuonò la moglie.

Egli incurvò le spalle, guardò basso.

"Ho avuto un'intuizione per l'esattezza"

"Un'intuizione?" ripetè sua moglie con il sopracciglio così alto da toccare i capelli.

"Proprio così"

La moglie mise le mani sui fianchi ed iniziò a ridere con gli occhi lacrimanti e la bocca spalancata verso il lampadario di acciaio inox.

"Non deridermi, donna!"

"E di che intuizione si dovrebbe trattare, Galileo sfigato dei quartieri alti?"

Virgulento prese lo Scottex-superassorbente con le mani ossute e fece per porgerlo. Lei lo prese, lo lesse e smise di ridere.

"Notevole-disse e poi aggiunse- notevolmente stupida questa teoria"

"Provamelo, avanti"

"Il cielo è azzurro per un motivo preciso. Drogato! Tu stesso me l'hai spiegato una volta"

"Si, lo so. Sono un fisico, per Bacco, non me lo ricordare come se non lo sapessi. Ma vedi, questa mia intuizione viene prima delle onde elettromagnetiche, dell'aria e di tutto il resto!"
"E che pesci vuoi pigliare?"

"Prendi questo tavolo. Ti piace? Anche a me. Tu lo vedi quadrato e magari io lo vedo tondo, ma per me quadrato è tondo e per te tondo è quadrato. mi segui?"
La moglie scuoteva la testa.

"Disegnami un quadrato" disse e Virgulento prese la penna e disegnò un quadrato sullo Scottex-superassorbente.

"Adesso anch'io ti disegno un quadrato, va bene, povero diavolo?" disse la moglie con una vocina infantile.

"Ecco il quadrato. Sono uguali, vedi?"

Virgulento si zittì.

"Passino le forme- esclamò- ma i colori?"
La moglie andò a prendere la scatola con i colori.

"Adesso io prendo il giallo, va bene, povero diavolo?"

"Matilda, basta. Non sei la persona adatta" sentenziò Virgulento incrociando le braccia.

"Nega l'evidenza, allora! Che ti devo dire, rincitrullito! Nega che il sole è giallo, nega che il cielo è blu!" esplose la donna percorrendo a grandi passi la cucina con le pantofole a forma di coniglio impaurito.

Virgulento incrociò le braccia e storse la bocca in una smorfia di pensiero. La moglie si versò un bicchiere d'acqua borbottando indirizzi di case di riposo e studi psichiatrici.

E nessuno seppe mai il nome della cometa che illuminò la mente di Virgulento Johnson quella sera.

16/06/11

Giugno

di Cristina Taliento

A diciassette anni
guardare i padri,
il cielo,
invecchiare
e per le nuvole evanescenti
di pianto
rinnegare le teorie
sul volo;

poi legare
con corde astratte
le rondini
tra le antenne
del crepuscolo.

10/06/11

La metamorfosi idiota (II)

di Cristina Taliento






(Les amants, René Magritte, 1928, oil on canvas, New York, Richard S. Zeisler Collection)



Le cornacchie arrivarono dopo dieci anni di assenza e infestarono il mio giardino con le loro grida di ghiaccio appuntito. Mi beccarono le ginocchia bianche sporcando i calzini di sangue. Io mi coprivo gli occhi con le braccia però erano le braccia di una bambina di otto anni. Mio padre mi disse: "Quello che ti è ostile, lo puoi rendere tuo amico". Io annuii con gli occhi ancora chiusi.


Il giorno dopo rimasi a casa seduta ai piedi del letto e pensavo alle cornacchie e mi sfioravo le crosticine delle ferite con i polpastrelli. Seduta a tavola, mi dimenticai di mangiare e mia madre disse: "Si raffredda". Ed io presi il cucchiaio con la mano tremante. Mi guardavo allo specchio con le spalle immobili, la bocca ferma, quasi non respiravo e stavo ferma per ore sussultando nel notare che le mie pupille erano diventate due piccoli corvi che nuotavano nel acqua sporca di una palude.
"Di che colore sono i miei occhi?" chiesi a mia sorella, bloccandole il passaggio.
"Gialli" disse ed io deglutii spaventata.
"Come l'acqua sporca del fiume?"
"Quella è marrone, fammi passare".


Ad ogni modo iniziai a passare sempre più tempo davanti allo specchio e mia nonna disse: "Lo specchio è il demonio" e premeva la voce sul verbo è. Il pomeriggio presi la cartellina ed andai al catechismo strisciando i piedi sul marciapiede ed i miei capelli volavano spettinati nel vento. Le cornacchie si libravano tra le nuvole nere.


I giorni passarono e le cornacchie non lasciarono i loro posti sui cornicioni delle case.


"Bestie! Uccellacci!" gridava il sagrestano gesticolando con il giornale.


"Badi che non entrino in chiesa" disse un vecchio in canottiera dall'altra parte della strada.


Un giorno una cornacchia si posò sulla mia spalla e in quell'attimo caddi a terra e iniziai a piagnucolare. Quella stava ferma e mi guardava come se volesse qualcosa. Che vuoi? Vattene, vattene via e non tornare. Ma la cornacchia non se ne andava e se mi muovevo, lei si avvicinava.


Poco dopo atterrarono altre cornacchie e mi incriminarono con occhi che sembravano chiodi ed io allora capii che quelli erano i Dubbi. Una di loro apriva il becco e gracchiava. Io mi tappavo le orecchie.


"Quello che ti è ostile lo puoi rendere tuo amico" sentivo la voce di mio padre.


"Non è vero!" mormoravo nel vento.


"CRAAAAC, CRAAAAC!"


Iniziai a leggere sugli alberi ed i corvi mi volavano intorno. Ogni tanto prendevo una pietra e ne colpivo uno fino ad ucciderlo, ma il più delle volte mancavo il bersaglio e stavo per qualche minuto a fissare il punto in cui era caduta la pietra. Il primo giorno i corvi rimasero a guardarmi dal vetro della finestra e in sogno mi vedevo invecchiata di cento anni e stavo seduta su una poltrona ad accarezzare la testa piumata di un uccello nero grande quanto un pastore tedesco.


Una notte d'estate, aprii la finestra, ma la cornacchia non entrò. Andai in cucina coi piedi scalzi e presi una mela rossa. Come quella di Biancaneve. Lo chiamai facendo schioccare la lingua sul palato.


"Specchio, specchio delle mie brame..." canticchiai allungando la mela verso il corvo.