di Cristina Taliento
(non che ci metta la mano sul fuoco)
Ci sono questi tre gangster paranoici in bicicletta. Allora,
Jack Pavimento è il primo. Fa: “Tu sei morto, Capodoglio, sei morto, ho detto”.
Capodoglio è il secondo. “Accidenti, piantala di dire ho detto dopo la fine di ogni stramaledetta frase. Mannaggia!”. E
il terzo è Carlo Julio Cesare, il quale dice: “No entiendo esta palabra, man-nag-gia. Puedes traducir?”.
“Mal ne abbia” risponde calmo Jack Pavimento mentre solleva Capodoglio
per il colletto della camicia.
“Mal ne abia? Es italiano?”
“Senti, bello…”.
E avrebbe voluto
dire: senti bello, smettila di crederti chissà chi per aver giocato due mesi in
serie A, il tempo giusto per gonfiarti il petto come un tacchino e toccarti i
capelli in campo per un milione di volte più altre minchiate del genere. La
fortuna ti ha aiutato, ma poi sei stato scoperto per la schiappa che eri, che
sei e che sarai sempre. Altrimenti, una volta fuori dal giro, non avresti preso
trecento chili davanti al televisore, guardando e riguardando con occhi fieri e
sognanti le partite in cui, poi, a dirla tutta, ti insegnavano invano a tenere
palla come si deve.
Invece, la sua corteccia cerebrale ci ripensa. Si ricorda di
quando anche lui era il Gallo di quell’enorme pollaio di Little Wing. Si
ricorda, all’improvviso, di quanto fosse stata dura rinunciare a quegli agi
offerti per un errore di valutazione ritrovandosi a covare uova e rancori come
una chioccia alcolizzata. Ma lui, comunque, aveva smesso di bere e si era
iscritto a uno di quei corsi serali per imparare l’alfabeto dei segni. Così
aveva trovato un lavoro con i sordomuti, sposando Nora, vedente soltanto, e
facendo con lei due bambini, vedenti, parlanti e, se non del tutto, per una
buona parte del tempo, persino udenti.
“La differenza tra me e te, caro ragazzo- si limita a dire
alla fine, anche se non c’entra niente- la sostanziale
differenza tra te e me è che tu piangi quando le cose vanno male e io piango quando
le cose vanno bene”. La solennità della frase giustifica il gesto di lasciar
cadere Capodoglio per terra. Non è questione di pietà, certe volte, bensì di stile
estemporaneo, improvvisato.
“Non sapevo piangessi, Jack” dice Tracy Goldmaster da dietro
il balcone. C’è sempre una Tracy Goldmaster o Goldberg che versa alcol in
questo genere di racconti. Figuarsi se non ce la mettevo in questo capoverso.
Ciò che, però, la distingue dalle altre Tracy monocolor sono i capelli: mezzi
biondi e mezzi castani. Grazie a questo vezzo la sua piatta e sterile
personalità passa, invece, per una personalità eccentrica. Ma Capodoglio vedrà
per sempre in lei anche altre doti più nobili e rare da sposare e servire per
il resto della vita. In realtà, non è amore; è l’ossitocina.
“Perché a te, Tracy, tanto per sapere, piacciono gli uomini
che piangono?” chiede con disinvoltura Capo massaggiandosi il collo sul punto
in cui Jack Pavimento l’ha stretto. Con il massaggio, vengono stimolate le
fibre di grosso calibro A beta che eccitano i piccoli neuroni della sostanza gelatinosa di Rolando,
nella lamina II del midollo spinale. Questi neuroni liberano encefaline che
vanno a inibire i neuroni interconnessi, bloccando la trasmissione delle vie
dolorifiche.
“Mah, non saprei” biascica lei con la voce acuta, la chewing-gum
in bocca e lo sguardo perennemente perso e annoiato. Così, vaghezza su dubbio,
Tracy ha costruito intorno a sé l’immagine di una vera donna del mistero, ma la
verità è che non sa mai niente, nemmeno di lei stessa, né della sintassi o del
mondo. E se lo sa, non riesce tanto a parlarne. La sua aree cerebrali 44 e 45 di
Brodmann che afferiscono al linguaggio sono un vero disastro.
“Los chicos no lloran. Hay una canciòn de los Clash...”
“Eh? Ma che sta dicendo?- chiede Jack andando verso il
bancone- Gli uomini che…?”
“Non ho sentito” mormora Capodoglio alzando le spalle.
“Boys don’t cry, es una canciòn de los Clash”
“Eh?”
“Non
capisco”
“Senti, bello…”
E avrebbe voluto dire: senti bello, vivi in Italia da dieci
anni, ma sei talmente pieno di te che pretendi che siano gli altri, gli altri
che non hanno mai viaggiato, a decifrare la tua lingua che, poi, non è tanto
diversa dalla nostra. Ma che ti costa imparare le parole più comuni e
risparmiarci questo stancante gioco dell’ “io parlo e tu traduci”, questo
snervante gioco dell’ “io sono forte e tu chi sei”, dell’ “io ho avuto la
gloria e tu che hai”. La verità è che pratichi giochi che non sai giocare. Ti
hanno messo in panchina e non fai che lucidarti le scarpe con i migliori
lucida-scarpe e te ne vai in giro dicendo: “oh guardatemi, mi lucido ben ben le
scarpe perché tra poco giocherò e li farò secchissimi”.
Intanto, la proprietaria del bar, vecchio medico in pensione
–ottanta anni e seduta da venti nell’angolo a destra- chiama con la voce roca: “Jack,
Jack! Da bravo, la rabbia è un sentimento che ottenebra l’anima. Ti leggo dagli
occhi che ti stai facendo uno dei tuoi pensieracci. Non fare l’insicuro.
Respira. Non vorrai esplodere ora come quella volta”.
“Quale volta?”
“Chiedilo a quei ragazzotti là fuori cosa dicono degli
uomini che piangono”
“Nessuna volta, niente, dimentica”
“I ragazzotti non san mica un cazzo, il sistema limbico se
ne sbatte delle leggi sulla virilità imposte da Leonida e da tutte quelle
bistecche spartane”.
“Di quella volta in cui Jack ruppe tre setti nasali, sette
costole, una clavicola, due metacarpi, una mandibola…”
“In medicina si dice coste”
“In questo bar diciamo costole”
“Due clavicole. Erano due clavicole”
“Non ci sto capendo niente. Tutti che parlano”
“Vecchia, piantala, ti prego. Capodoglio, diglielo”
“Ha detto Pavimento di smetterla”
“Di’ a Pavimento, ah-ah-ah” dice la proprietaria del bar,
seduta con le mani sul pomello del bastone.
Questa bizzarra confusione, chissà per quale circuito
cerebrale, sta divertendo anche Tracy che, giusto per dire qualcosa, esclama:
“Ragazzi, sono le sette e cinque!”
“Ehi ragazza, non puoi combattere il Tempo!” risponde
Capodoglio con un occhiolino. Lei alza le spalle e poi cinguetta ridendo:
“Guai a te se mi tratti come a una delle tue femminucce,
Capo”. La proprietaria del bar alza gli occhi al cielo.
“Non potrei. Sei uno squalo, bambina”.
Ma a quel punto, un gesto, un leggero gesto di mano tra i
capelli, fa bloccare le lancette, il polline nell’aria, le gocce di brandy che colano
dal bicchiere.
Jack Pavimento odia quando Carlo Julio Cesare si tocca i
capelli.
“Ti avevo detto di non farlo” dice lentamente e vorrebbe
mantenere il controllo, vorrebbe respirare con calma, con il ritmo di lenzuola
che si muovono nel vento, ma la sua arteria temporale inizia a pulsare così
insistentemente, il sistema simpatico lavora per il combattimento.
“Estàs hablando conmigo?”
“Si, contigo”.
Carlo Julio Cesare inarca il sopracciglio destro. Jack
Pavimento sorride, ma è un sorriso strano, sinistro. Il muscolo zigomatico si
contrae, sposta l’angolo della bocca in alto e in fuori e le guance si
increspano, ma il muscolo orbicolare dell’occhio non viene contagiato da nessun
sentimento. È un sorriso falso mosso soltanto dalla neocorteccia. Nessun
coinvolgimento da parte dei gangli della base, del giro del cingolo o della
corteccia limbica.
La padrona del bar raddrizza la testa per vedere meglio e
mormora: “Oh Gesù, ci risiamo con il sorriso
piramidale”. Venne chiamato così dal
neurologo Geschwind dell’università di Harvard per sottolineare la risposta
volontaria esercitata dai fasci piramidali sui muscoli coinvolti.
Poi, di colpo, cambio: assenza di espressione. E, ancora,
cambio: rabbia. Segue: ripensamento, silenzio. Continua il silenzio. Un gatto
entra nel bar e trova silenzio. Miao.
Infine: rabbia.
“Senti bello, smettila. Mi stai facendo arrabbiare. Smettila
di fissare quel cellulare, smettila di toccarti i capelli. Smettila, ho detto,
smettila! Sei vanità e spazzatura. Smettila di metterti in posa e parlare con
quel ghigno che si vuole credere affascinante. Tu mi hai rotto! Mi hai rotto,
ho detto! Tu, ragazzo, devi vivere la vita come se non ti stesse guardando
nessuno, come se non esistesse nessun ‘mi piace’ su cui cliccare sotto la tua
faccia da schiaffi! Tu devi andare a confessarti! A confessarti, ho detto! Da
un prete, esatto! Non sto parlando di peccati, per carità. Quelli li facciamo
tutti. Si tratta, invece, di andare, sedersi nel buio, trovare dall’altra parte
un orecchio che non sia uno stupido monitor, farsi il segno della croce e
iniziare a cercare in quella tua coscienza avvolta da ragnatele una cosa
profonda da dire, una cosa che non suoni come una stronzata preceduta da
qualche cancelletto del cazzo”
“Jack, avanti, dai. Ti stai scaldando inutilmente. Lascia
stare il ragazzo. Non ha fatto niente di male. Bevi un po’ d’acqua, forza- dice
il medico in pensione indicando con la mano il bancone del bar- Tracy dai un
po’ d’acqua a Pavimento. E fate uscire quel gatto, per favore. Questo non è un
bar per gatti”.
“È un idiota. Un vero
idiota. Devo smetterla, si può smettere. Bisogna che qualcuno glielo dica. La
vita non è questo campo da calcio che c’ha in testa. Questo mare di gente
pronta a batterti le mani. Che poi, cheppalle, sarebbe, dico io, poter sapere
sempre cosa ne pensino gli altri di ciò che ti riguarda! Che cosa ci vedi in un
mondo di consensi! Prima lo capisce e meglio è. Lui crede che le persone si
possano prendere e rinchiudere in queste celle sovietiche tutte uguali note
anche come Profili Online e complimenti davvero a chi te l’ha fatto credere. E
complimentoni –oni –oni a te che sei un gran pollo che ci sei cascato e che
mentre eri in caduta libera, come un gran pollo, hai cantato:
chicchirichì, ho tutto sotto controllo”.
“Suvvia, Jack. Lo puoi capire da te che stai un po’ perdendo
il filo del discorso. Abbassa un po’ la voce, dai. Ti guardano tutti”
“Nonna, che non mi si
dica quello che devo e non devo fare. Adesso sento che devo tirargli uno
schiaffo”. Jack Pavimento guarda il
soffitto per calmarsi. Aspetta che quello schiaffo si verifichi come il
destino, come le sette e cinque che diventano, di colpo, le sette e dieci, come
le nuvole che diventano, da un momento all’altro, pioggia sui vetri del bar.
“Uno schiafo?- chiede Carlo Julio Cesare portandosi, di
nuovo, i capelli indietro.
“Vedi! L’ha rifatto! Me lo fa apposta! Me lo fa apposta!”. Così,
accade. In uno scoppio di sinapsi, accade. Jack Pavimento si fionda sicuro su
Carlo Julio Cesare. Il programma motorio prevede che il braccio destro venga
ampiamente, teatralmente, esteso con lo scopo di intimorire l’avversario e,
soprattutto, aumentare l’intensità del tiro. Il cervelletto e i nuclei della
base correggono, controllano l’azione affinché l’annunciato schiaffo si
realizzi. Nello stesso istante, grazie al riflesso vestiboloculare, per
mantenere la fissità dello sguardo, i bulbi oculari di Carlo Julio Cesare si
girano nella direzione opposta a quella della testa che, saggiamente, si piega
per schivare il colpo. Ma non c’è inclinazione che tenga per sfuggire ai
circuiti riverberanti di Jack Pavimento, medaglia d’oro 1988 alle olimpiadi del
Salone del Boxe di Via Kennedy, numero 8, scala A.
Intanto, cocktail di ormoni vengono sparati in circolo come
polvere rosa in litri di vino rosso.
Loro due sono lo spettacolo. Le menti di tutti sono
catturate per intero dai loro movimenti. Il resto svanisce, non viene colto
dalla loro attenzione, semplicemente sfuma: c’è, eppure potrebbe anche smettere
di esserci. Quindi, nessuno si accorge del coltello che, sfuggito dalla mano di
una ancora più distratta Tracy Goldmaster, cade a picco dal balcone,
infilzandosi tra il collo e il tronco di quel povero gatto che era entrato nel
bar quando c’era silenzio.
(No, dai, vabbè,
questa è brutta. Non dovevo scriverla così cruenta. Un cadavere di gatto, poi. Infilzato,
per giunta. Oh no, dovrei cancellare. Oppure aggiungere: c’è, eppure potrebbe
non averlo visto nessuno. E voi? Vi fidereste dell’esistenza di qualcosa che
nemmeno il personaggio più arido di fantasia possa testimoniare d’aver visto?)
(continua)