14/10/14

Il suo freddo, tranquillo, organizzato lavoro

di Cristina Taliento

Accadde. Eh... accadde! Un giorno, anzi, un mese, un mese intero, il matto Genda pensò e ripensò a quello che doveva essergli accaduto; trovò la causa, dopo averla cercata alla luce, nel buio, tra i suoi oceani solitari e dentro gli scatoloni impolverati. E quando la trovò, rise. Ma non tanto, fu una risata breve, in memoria di sé. Poi prese dalla tasca il suo fazzoletto di stoffa piegato a quattro e si asciugò gli occhi, anche se, a dire il vero, non era stata proprio una risata da lacrime. Si prese ancora un minuto per constatare il cambiamento, ovvero elevarlo allo stato di coscienza, dopodiché si grattò la guancia con il dito indice, chinò la testa e ricominciò il suo freddo, tranquillo, organizzato lavoro esattamente da dove l'aveva lasciato un mese prima, ovverosia prima che quel pensiero l'avesse travolto, come un fiume entrato con fragore dalla finestra della sua stanza, penetrato tra i cassetti della scrivania, fra tutti i suoi capelli, eccetera.
Quel fiume, o meglio quel pensiero scorreva più o meno così: chi sono diventato?
Il fatto è, caro fiume, pensiero, o cosa diavolo sei, che io, Genda Antonio, nato il 27 aprile 1941 a Filostagno provincia di Rema, sono stato chiamato, per settantasette imperituri anni, matto. Matto, già. Matto Genda, per l'appunto. Creatività, genio, leggenda, umorismo... matto, tu sei matto. E io, Cielo, non ce l'ho con nessuno! Non me la sono mai mica presa per questo, anzi! La gente mi chiamava così perché volevo cose che gli altri non volevano. Per esempio, gli altri volevano essere sempre apprezzati e approvati, mentre a me non importava un cazzo! Gli altri volevano un compagno per la vita e io volevo a tutti i costi finire di costruire quella benedetta, complicata, casa sull'albero. Io volevo correre cantando, volevo respirare rumorosamente, camminare in mutande sui marciapiedi di questo caldo mondo. E cheppalle, mio Dio, tutti quei grazie prego, grazie, si figuri, le pare, prego, grazie, si sieda, le offro il caffè, prego, prego, scusi. Ha detto, prego? Ho detto che preferisco essere matto piuttosto che legato e annichilito, svilito, emaciato, avvizzito come lei, madama.

Ecco chi ero. Questo ero.

Poi, era accaduto. È la natura.
Alla fine di quel mese, il matto Genda trovò la causa: un abitudinario. Lui era diventato un abitudinario. Uno che si alzava alla stessa ora, girava il cucchiaino nel caffè per lo stesso identico numero di volte, ripeteva lo stesso repertorio di frasi quando si trovava in compagnia, rispondeva ad ogni situazione con quei dodici modelli comportamentali che sebbene fossero autentici, restavano comunque dodici. E rise. Per due motivi. Il primo era che le cose stavano così e non avrebbe fatto niente per cambiarle, le cose. Il secondo era, invece, che mai come in quel momento si era sentito tanto matto, così matto come allora.

Il freddo, tranquillo, organizzato lavoro consisteva nell'evidenziare pagine di scienza. Era partito dalla fisica, poi era passato alla chimica e alla matematica. E con la naturalezza di chi segue una strada, ero finito nel sottilizzare a tarda età una mente che per tutta la vita aveva inghiottito tutto, voluto, cercato tutto. Più era specifica, confinata, la disciplina che studiava, più ne traeva piacere, dato che comunque abitudine non vuol dire perdita di diletto. S'innamorò della genetica, in particolare della genetica mendeliana. Trascorreva i giorni a incrociare alleli, a disegnare quadrati di Punnett. Passò a quadrati sempre più complicati, difficili anche per i genetisti più abili. La sua grafia divenne sempre più ordinata e se avesse potuto disinfettare quel sapere così già pulito, l'avrebbe fatto.

In quel mese, lui voleva soltanto capire. Un abitudinario quindi, rise fra sé, però mi piace, chi l'avrebbe mai detto.

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