di Cristina Taliento
Aveva vissuto la sua adolescenza nei primi anni duemila e, nell'attesa che quella fase della sua vita finisse, aveva pazientemente ascoltato distesa tutti i cd dei Beatles e di Bob Dylan come forse facevano quei vecchi nati nel 40 o quei ragazzi alternativi che vestivano panni di tempi mai stati loro. Lei, sebbene nata nel solenne Novecento, di quel secolo ricordava soltanto le ultime, deboli, canzoncine dei varietà, i finali bagliori sull'acqua del gran casino pirotecnico che c'era stato prima, quando lei non esisteva. Ed era proprio strano, per lei, a volte, accettare di essersi persa tutta quella storia arrivando o meglio nascendo quando fuochisti, re, regine, inventori, combattenti e spettatori si rimettevano il cappello e si avviavano a casa, consapevoli che il grosso delle loro vite era stato vissuto. E lei si sentiva come se non avesse mai potuto capire. Capire abbastanza. Era nata nel Novecento, eppure ne stava fuori. Leggeva libri per nutrire la sua immaginazione di quel passato oscuro che pure pesava come un fantasma sulle sue spalle, ma quelle parole passavano per la sua mente con un altro filtro, che era il filtro del benestare, dei termosifoni, delle caramelle gommose, dei telefonini. Leggeva di rivoluzioni e povertà, di grandi silenzi e rumori bianchi e lei, ogni volta, aveva l'illusione di capire, ma poi pensava tra sé che, in realtà, non aveva capito perché non aveva provato mai niente del genere e un'emozione, un sentimento, che sia politico, patriottico, che sia di libertà contraria a tutto, lo si capisce soltanto se un giorno, in mezzo alla piazza, ti ha travolto, svuotato le tasche, incastrato contro al muro e lì, a sangue freddo, ti ha convinto, ti ha cambiato. Ecco cos'era la sua generazione. O cosa non era e avrebbero voluto che fosse. Erano tutti ragazzi con felpe cresciuti sui muretti ricostruiti dopo le guerre. I loro nonni li avevano buttati giù, i loro padri li avevano ricostruiti e loro ci scrivevano sopra "ti amo, ti prego torna". Ascoltavano racconti con le mani nelle tasche, un po' in disparte, con il dubbio leggero di chi non ha assistito. L'umanità adulta parlava loro con il lessico e le immagini, i furori del passato come se loro avessero potuto capirci qualcosa. Lo sbaglio più grande, pensava lei, era stato prender parte a quella riunione senza ammettere di non riuscire a comprendere. Dovevamo alzarci e urlare ai nostri nonni di non trattarci come i loro figli perché noi non avevamo visto quanto loro. Dovevamo non rispondere, piuttosto che tentare risposte sbagliate. Noi ci siamo immedesimati in una visione che non era la nostra, abbiamo voluto cose di cui non avevamo bisogno, che non desideravamo. Non lo so di chi è stata la colpa, ma la nostra sfortuna è stata arrivare per ultimi ed essere trattati come primi. Siamo figli di due ere così diverse e così vicine. Voi ci parlerete delle rose, ma le vostre rose non sono le nostre rose. Non lo sono mai state. Noi non abbiamo capito.
2 commenti:
sai anche quelli della mia generazione hanno pensato di essere arrivati un pelo troppo tardi,il problema è sempre "ma per cosa?" C'era la guerriglia nelle strade davanti a casa quando andavo alle medie, moriva quasi una persona al giorno, giustiziata: potevano essere magistrati, giornalisti, studenti, operai, carabinieri, potevano essere anche 85 persone che stavano salendo su un treno in una mattina d'estate per andare a vedere il mare o altre che esplodevano in cielo e pezzi di loro galleggiavano mezzi nudi, (privati perfino della dignità mentre gli rubavano l'esistenza) nella mente di quanti rimanevano. La verità è che ognuno di noi: i miei nonni, i tuoi nonni, i miei genitori, i tuoi genitori, tuedio, abbiamo lasciato che qualcuno ci disegnasse il futuro, che ci regalasse finestre su mondi finti e ci murasse quelle sul mondo vero
Come diceva la mia docente di chimica "molto vero". Ci rifletto su. Grazie:-) :-) :-)
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