16/08/14

Il calciatore ingrassato

di Cristina Taliento


(A soccer match, Gaston Vaudou, 1920, National Football Museum, Manchester)


Quand'era ragazzo non si sentiva bravo, gli altri gli dicevano 'sei grande', ma lui si allontanava, si credeva mediocre e questo gli bastava per non voler ascoltare nessuno. Giocava se era innamorato, giocava quand'era disperato oppure confuso, ferito, annoiato. Di emozioni ne provava molte, diverse e tutte nel giro di poche ore, ma, comunque andassero le cose in quel paese per vecchi che era il suo cuore, lui ritornava in campo e con il sole e con la pioggia, arrabbiato o felice, il suo tiro da fermo era sempre lo stesso misurato bolide di collo del piede ruggente, destinato, come l'uomo alla morte, ad entrare in porta. Divenne il migliore, senza troppi complimenti. Ma i migliori, si sa, non vogliono le cose che gli altri vogliono e lui incominciò a sentirsi inopportuno, come se non sapesse più dove mettere i piedi, come se l'essere il più alto l'avesse portato a dubitare della statura del mondo. Calciò ancora qualche palla, ma in cuor suo aveva già smesso. Tutti gli altri non si erano accorti di niente, lo innalzavano al cielo, scrivevano il suo nome sui muri di case diroccate, ma il suo allenatore -occhio di falco taciturno -pensò: "hai smesso, campione, questo non è più il tuo posto". Iniziò a tirarsene fuori mangiando quattro volte di più di quanto non avesse mai fatto poiché era concetto abbastanza scontato che in un giocatore, al pari dei piedi e della tecnica, un metro importante per valutare la sua potenza fosse la panza, o meglio la sua inesistenza. E la stampa si accorse della presenza senza che passasse troppo tempo. Così se ne andò con il consenso dei suoi ultimi fedeli e, persino, degli ultras per i quali si poteva perdonare un fallo, due falli, un calciatore brutto, uno drogato, un cartellino rosso, ma mai e ancora mai un ciccione. 
Otto mesi dopo aveva preso trenta chili e del corpo da gladiatore che aveva, rimasero i trapezi e qualche muscolo superstite visibile, ogni tanto, dietro la coltre di grasso che, come una nube bianca, inesorabilmente lo avvolgeva. Mangia e mangia, divenne il giocattolo del pubblico a casa, il piacere segreto degli invidiosi, la risata sulla bocca dei simpatici e, malgrado il colesterolo alto e l'iperglicemia, il perspicace salvatore di sé stesso perché, qualche mese dopo, egli era la battuta che non faceva più ridere e un giorno, cambiando canale, si accorse che nessuno stava più parlando di lui, nemmeno i Tg privati, nemmeno il digitale terrestre. Si girò il telecomando tra le mani per un po', sentì i riflettori spenti, il suo sudore asciugato. E ascoltò  il silenzio che mai gli era parso così pieno e opulento e morbido, come d'altronde era lui.
"Ehi ragazzo, ma che ti è preso?"
"La libertà mi è presa, la libertà"
"Hai permesso che ti uccidessero la tua passione?"
"Si, fin da quando ho firmato quel maledetto contratto da sette milioni di euro"
"Ehi ragazzo, non prendermi in giro. Sono la tua coscienza, porta rispetto"
"Non sto prendendo in giro nessuno io, tantomeno me stesso, cara la mia coscienza"
"Oh si che lo stai facendo. Qual è il motore di ogni passione?"
"Le passioni sono fine a se stesse, si autoalimentano"
"Balle! Tu non ti saresti allenato con trentotto di febbre soltanto per il gusto di rincorrere un pallone in mutande in nome di una passione! Che cos'è una passione, poi? La gente, se non ha interesse, al limite si mette a fare giardinaggio per passione o si mette a infilare perline su di un filo, per dire. E comunque non passa tutti i santi giorni della sua giovinezza ad allenarsi. Tu volevi fare la tua scalata, ammettilo, volevi migliorare, diventare il primo, avevi fame, volevi valicare i muri dell'umano e dominare l'universo!"
"Si, forse, magari un tempo"
"E poi che è successo?"
"Eh..."
"Te lo dico io che è successo. Ti sei impegnato, hai stretto i denti come un lupo e hai ignorato il dolore e ci sei riuscito, sei arrivato in cima. In cima!"
"E non era come credevo"
"Bugiardo, ti racconti un sacco di cazzate, non so come fai"
"Okay, te lo concedo, ho avuto paura"
"Paura un accidente! Tu non hai paura, sei uno squalo. Ti conosco da quando sei nato e ti buttavi dallo scoglio di Santa Maria di Leuca e avevi otto anni".
"Allora dimmelo, tu, benedetta coscienza, che diavolo ho".
Ma era a quel punto, sempre lì, quando egli doveva giungere a una psicoanalisi esatta di sé, quando poteva guarirsi e perdonarsi, era allora che la sua Coscienza, così irriverente e saccente, brava a smentire, a far dubitare, all'improvviso, prendeva a rispondere in modo non curante, sarcastico, come se non avesse nemmeno la voglia di dar retta ai turbamenti del calciatore.
E dava risposte a raffica come:  "Depressione. Amputare subito. Hai ingoiato un rospo apatico e scorbutico. Sei un povero asociale. Chi ha pane non ha i denti. Forse sei davvero un gran bel pezzo di codardo. Zitto, ciccione. Hai un tumore psicologico. Ti stai per trasformare in uno scarafaggio e questa è la fase di rifiuto della tua vita precedente".
Così passarono gli anni e i chili e i quintali; non c'era programma televisivo che lui non conoscesse o marca di patatine che non avesse provato. Le cause dei suoi problemi dormivano di un sonno che con il tempo diveniva sempre più profondo...

Io ero la narratrice. In questa storia non c'entravo niente. Tra l'altro credo che finisse male. Cioè, avevo una certa attitudine nel narrare storie di atti incompiuti, sentimenti sospesi, piatti lasciati a metà.
Però mi vennero a chiamare.
"Ehi! Ehi!" fecero le Voci.
"Si?"
"A noi questo personaggio, sto calciatore panzone, ci piace"
"Sono contenta"
"Non hai capito. Non deve morire"
"Oh beh- dissi io tutta orgogliosa- sarà pure un mio diritto decidere chi cavolo deve o non deve morire"
"Senti, ragazzina saputella. Scrivere significa trovare le cause"
"Non credo. Scrivere è scrivere e basta. Prendi una penna e scrivi. Facile"
"Trova le cause e guarisci la sua anima".
Sbuffai. Mi alzai e me ne andai a fare altro. Poi, tornai. Entrai nella stanza del personaggio, ovvero del calciatore ingrassato. Presi il telecomando e spensi la tv affinché si accorgesse di me. Il che mi sembrava proprio una scena alla Dawson's Creek e, per adottare lo stesso registro, dissi un serio "dobbiamo parlare" aumentando a più non posso la profondità del mio sguardo. Il calciatore ingrassato, stravaccato sul divano, mi rivolse un'occhiata con il mento appoggiato sul petto, ritornando a guardare, subito dopo, la tv spenta.
Quindi, tornai sui miei passi e dissi:
 "Dove ti fa male?"
"Da nessuna cazzo di parte"
"I polpastrelli stanno bene?". Mi stavo divertendo.
Il calciatore ingrassato storse la bocca e non rispose.
"Ultimamente poi c'è un sacco di gente che sente come un pizzicotto sulla guancia. Tu lo senti?"
"No"
"Tanto meglio- dissi annuendo piano, fissando i suoi duecento e passa chili e ripetei- tanto meglio".
Sul tavolino a fianco al divano c'era un pacco di patatine aperto. Me lo presi e iniziai a mangiare.
"Mmm paprika!" esclamai.
"Che osa uoi da me?" disse con il mento ancora schiacciato sul collo e uno stuzzicadenti al lato della bocca.
"Lo sai, no?"
"No, on lo so"
"Voglio arrivare a farti cadere quello stuzzicadenti dalla bocca" dissi masticando patatine.
Il calciatore ingrassato strinse i denti.
"Non ci credo che non ti fa male da nessuna parte"
"Già"
"Nemmeno un sottilissimo fastidio?"
"Già"
"Complimenti. Io morirei se non mi facesse male niente, un dolore deve esserci sempre, non fosse altro per ricordarti che sei vivo"
"Doe ti fa mae?"
"Tipo qua!" mi inventai indicando la punta del naso.
"Ti fa mae il naso?"
"Si, sempre"
"Perchè sei una ficcanaso" disse e sorridendo si tirò un po' su.
"Potrebbe. Senti adesso, io devo andare a mare con i miei amici, non posso parlare più di tanto se non mi ascolti. Quindi, ascolta. Coltiva il tuo dolore. Se senti male da qualche parte, lo devi dire. Tu ti sei gonfiato a forza di sopportare e sopportare. Quando eri un campione c'era di sicuro qualcosa che non andava e, invece, di fare il diavolo a quattro, segnavi goal in silenzio, come un soldatino. Ammirevole, per carità, ma non aiuta"
"Ma io non avevo dolore davvero" disse il calciatore ingrassato guardandosi i palmi delle mani.
"Oh! Mica sto parlando di veri dolori. Altrimenti ogni casa sarebbe un ospedale e ogni cuore un'ambulanza che porta a casa i corpi... No, non è tanto questo. Sono piuttosto le nostre sensibilità ferite a perdere un po' di sangue, le aspettative che si svelano, un giorno, esistere soltanto nella nostra testa, tutti gli amori non ricambiati oppure tutte quelle volte che ci hanno detto: mi dispiace signore, il gelato al pistacchio è finito, noi non lo fabbrichiamo più"
"Il gelato al pistacchio non mente mai"
"Si, ma può mentire il gelataio. E allora che gran casino di sentimenti se non sai gestire una bugia. Alle volte, guarda, è meglio urlare, litigare piuttosto che far finta di non prendersela. Non è triste fregarsene?"
"Già"
"Ecco, tu, per come sei, esci dalla gelateria, deluso, tradito, un vero straccio. Ma poi ti blocchi, torni indietro e ad alta voce esclami: senta, signor gelataio, io lo so che è solo un complotto da quattro soldi questo e che il gelato al pistacchio lei ce l'ha eccome, nascosto nella sua cantina. Le do tre secondi per dire la verità altrimenti può star sicuro che io qui non ci ritorno nemmeno se assume il Presidente della Repubblica a implorarmi"
"Aah"
"Ci sono diversi modi per rendere manifesto il dolore o un formicolio o un leggero pulsare, ma il peggiore è ignorarlo, credimi. Scusa se ti ho finito le patatine, eh!"
"Grazie per la consulenza" disse il calciatore ingrassato rigirandosi lo stuzzicadenti in bocca.
"Il cielo si sta annuvolando- notai- ti fa male questo?"
"Non più di tanto. Le nuvole, la pioggia... non mi dispiacciono"
"Neanche a me. Però mi danno fastidio i jeans bagnati sulle ginocchia".
Il calciatore accennò a una specie di sorriso che poteva segnare la fine della nostra conversazione. Lo guardai per un attimo e mi dispiacque  per lui, per me, per i dolori nascosti, per i segreti degli uomini, per tutti gli interessati e i non interessati. Era soltanto la vita, potevi scriverci intorno, immaginarti storie, scandagliare cuori, ma chi lo sa cosa passa per la mente di un bambino che poi cresce, diventa vecchio e si ferma a guardare il lago delle anatre?

Presi il mio zaino, tirandone fuori l'ombrello, poi me lo misi in spalla.
"Ciao!"
Aprì la porta e scesi i gradini di corsa. Mi aspettavano le spiagge pomeridiane sotto un tempo da lupi.
Quando arrivai al cancello, però il calciatore ingrassato mi stava dicendo qualcosa:
"Ehi!" mi gridò a quaranta metri di distanza.
"Ehi!" risposi.
"Una cosa mi faceva male quando giocavo. Che venivo ammirato, circondato e lasciato solo. Ho sempre creduto che la solitudine fosse roba per me, invece no. Nessuno vuole stare solo. Specie se stai solo tra la gente".
Il tono alto della sua voce aveva disturbato il vicinato formato dagli altri personaggi che abitavano da tempi diversi la mia mente. L'Adolescente della Metamorfosi Idiota chiuse violentemente la finestra. Flacco Squidegno, matematico e filosofo, disse: "Silenzio!".
Così me ne stetti in silenzio, per rispetto della quiete pubblica e di una ferita confessata.
"Mi dispiace" mormorai e il calciatore ingrassato alzò le spalle come per dire che doveva andare così.
 Potevo recitare qualche citazione per cercare di ispirarlo, illuminarlo, salvarlo. Ma mi chiesi, a quel punto, se il calciatore non si fosse già salvato da solo. Tu conosci il tuo dolore, tu sai cos'è meglio per te.

Le Voci non furono proprio contente di questo finale. Loro amavano i finali gloriosi. Però quella sera, il calciatore ingrassato, dopo anni di divano, andò a mangiare il suo hamburger sulla panchina della villa comunale. E questo, per chi ragiona in termini di goal, non era un goal, ma quasi.

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