di Cristina Taliento Non ho parlato mai a nessuno del giovane Erre e credo che, con il vostro permesso, lo farò ora siccome ho terminato quel lavoro noioso che si accumula, ahimè, sulla scrivania del giornalista di riviste per adolescenti. No, non voglio parlare del mio lavoro e di quanto, alle volte, sia snervante; ho appena detto che narrerò di Erre e non ho intenzione di cambiare argomento.Quando divenni assistente universitario alla facoltà di Lettere Moderne ero convinto di veder sfilare davanti alle mie due lenti rettangolari una serie di individui magnificamente interessanti. Pensavo, infatti, che gli studenti di Lettere Moderne avessero sviluppato una personalità degna di essere studiata, esaminata e, soprattutto, descritta. La mia indole di scrittore curioso alle prime armi venne, invece, schiaffeggiata da una crudele delusione. Mi illudevo, era chiaro. Ciò che vidi furono volti anonimi di giovani universitari. Volti scontati, circondati da capelli così normali. Le loro voci, poi, erano piatte, prive di ogni accenno di vitalità ed io ricordo che mi sforzavo per riuscire a dare un senso artistico a quelle sagome come si sarebbe ingegnato un bambino per rendere più brillante ed eroica la sua spada di plastica. Ogni volta che uno di loro mi sedeva dinanzi, io lo squadravo speranzoso e, deluse le mie aspettative riguardo l'aspetto, cercavo almeno un appiglio d' interesse nei modi, nell' inclinazione delle labbra durante il parlato. Ma, anche lì, non trovavo nulla di davvero eccezionale. Mi rendevo conto che quei soggetti non erano irrecuperabili e potevano essere salvati con una piccola aggiustatina concessa dalla mia fantasia, ma non era questo ciò che volevo. Avevo trascorso la mia intera adolescenza a fabbricare personaggi come fossero marionette e in quel preciso momento della mia vita, invece, cercavo l'autenticità vera e immacolata dell'individuo. Cercavo qualcuno talmente speciale da essere descritto soltanto, qualcuno che non avrebbe richiesto nulla alla mia immaginazione.Ormai avevo smesso di cercarlo. Anzi, mi ero del tutto dimenticato di quella strana presunzione di trovare la mia Ispirazione. In verità, erano state quelle raffiche di volti monotoni che avevano seppellito ogni voglia di cercare l'ispirazione nel mondo che conoscevo. Accadde un giorno di marzo. Pioveva e, a secondo delle ventate, alle mie orecchie arrivavano lamentele sulle strade bagnate e sulla difficoltà dell'esame. Avevo appoggiato la mia torre di libri all'angolo del tavolo e tamburellavo le dita sul libro più in alto. Guardavo, distratto, le gocce di pioggia strisciare sul vetro delle finestre e aspettavo che arrivasse l'orario. Ero sempre in anticipo. Erre si presentò alle nove in punto ed io non mi meravigliai affatto, siccome la puntualità precisa era una moda così ricorrente in quella facoltà universitaria. Gli feci le mie domande e lui si fiondò a rispondermi come chi teme che l'esitazione sia indice di ignoranza, ma mi accorsi subito dalle sue pause ricorrenti che il suo studio non era poi così grandioso. Erre aveva un' altezza esagerata e due occhi verdi, quasi grigi. I suoi capelli neri erano stati tagliati senza un ordine preciso e due ciuffi si infilzavano nei suoi occhi come due freccette al tiro a segno. Indossava un giubbotto di pelle anni 50' e si sarebbe potuta supporre molta spavalderia sulle spalle del proprietario, ma proprio sotto quel giubbotto spuntava il colletto di una camicia da donna. Era di seta ed aveva i bottoni rossi e smaltati. Mi tolsi gli occhiali per pulirli meglio. Notai che sulle scarpe stringate di vernice nera erano stati infilati dei lacci colore giallo canarino. I pantaloni, invece, erano molto simili ai miei; un paio di Levi's consumati sulle ginocchia. Mi chiedevo il perché di quella camicia da donna e di quei lacci gialli. Dentro di me si accendeva quella speranza di aver trovato un soggetto da descrivere. I suoi discorsi erano pieni di paroloni che leggevo soltanto nei libri dei vecchi critici, ma, infilate in quel balletto classico di grammatica, c'erano espressioni comiche come "tra virgolette", "possiamo dire, con permesso" e "se non casca il mondo". Quel tipo attirava la mia attenzione di reclutatore di pezzi unici. Diedi un occhiata al foglio con il suo nome. Mai sentito prima d'allora. Ad un tratto starnutii e mi tappai il naso con entrambe le mani. Lui, in un gesto fulmineo, si alzò in piedi sbattendo la sedia per terra, si frugò nelle tasche con uno sguardo terrorizzato e prese un fazzoletto di stoffa. Allungò la mano per darmelo. Era uno di quei fazzoletti di stoffa che portava sempre mio nonno. Mi sorprese che un giovane di vent'anni ne avesse uno nella tasca del giubbotto. Lo rifiutai cortesemente e mi misi a cercare nella mia cartella il pacchetto di Kleenex. Mi accorsi che si era offeso. Feci finta di niente e ritornai a guardare sorridente il foglio con i suoi dati. "Oh-Oh.-Oh" pensai.
2 commenti:
Un racconto particolare questo. Un racconto che getta nuova luce sull'autrice del blog?
Il fatto di lasciarci col dubbio va a tuo merito, indubbiamente.
idubbiamente :-)
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