di Cristina Taliento
Guardare le persone in macchina
dallo specchietto retrovisore
quando sono sole e cantano
tra il buio della sera e il rosso del semaforo.
Ascoltarti mentre parli di tuo padre,
di quando ti chiamava per prendere il telecomando
anche se eri due stanze più lontano
e lui l’aveva sotto al naso.
Il sorriso che fai, la sigaretta che stringi
mentre ti sfiori la fronte e ti manca.
Decidere all’improvviso di tornare a casa
la vigilia di Natale
buttare un paio di scarpe nello zaino,
prendere al volo le chiavi della macchina,
parcheggiare vicino la stazione,
salire sul treno, evaporare nella notte.
Il tuo spirito guardiano che veglia lungo il corridoio,
la forza delle tue braccia a cui non è permesso
ammettere stanchezza e spavento
mentre nella foga di una manciata di secondi
durante un taglio cesareo
estrai il feto che decelera
e lo butti al riparo nella vita.
I miei, i tuoi polmoni d’acciaio che
pranzano con due crackers, sopravvivono ai guai,
si scambiano sguardi complici d’eroi,
non dicono niente, vincono,
sempre vincono, accidenti se vincono,
ma perché cazzo lottano, questo è un problema tutto loro.
Non lo so, forse è per tutte queste cose
che ancora
scrivo.
Ma se dovessi gettare le penne nel fosso,
una volta per tutte,
canterei a squarciagola anch’io.
Scrivere fu il suo unico modo di allenare il metacarpo e tutte quelle falangi
24/12/19
21/10/19
Poesie di una lunga estate
di Cristina Taliento
Il mio sguardo
illuminato dal tramonto,
occhi marroni che diventano verdi gialli.
Spighe di grano, fiori selvatici.
Ritornare, partire
alla fine è quello per cui viviamo.
Autostrada A1,
sempre dritto
al di là di ciò che rincorro,
altrove rispetto a dove sono.
E di casa mia
non ho come immagine la spiaggia,
ma
l’odore
di sterpi bruciati
nei campi
... e una chiesa contorta barocca
friabile
biancastra
carica di ninnoli e cianfrusaglie
come dietro il giornale
una vecchia signora di città.
Il mio sguardo
illuminato dal tramonto,
occhi marroni che diventano verdi gialli.
Spighe di grano, fiori selvatici.
Ritornare, partire
alla fine è quello per cui viviamo.
Autostrada A1,
sempre dritto
al di là di ciò che rincorro,
altrove rispetto a dove sono.
E di casa mia
non ho come immagine la spiaggia,
ma
l’odore
di sterpi bruciati
nei campi
... e una chiesa contorta barocca
friabile
biancastra
carica di ninnoli e cianfrusaglie
come dietro il giornale
una vecchia signora di città.
17/10/19
Questo tempo che abbiamo
di Cristina Taliento
C’e un tempo per capire
nel silenzio di una fredda cucina,
barattoli di vetro pieni di cornflakes e chicchi di caffè,
broccoli lessi che ribollono da mo’.
Forse sono pronti, non lo so.
Un violinista suona Ennio Morricone nella camera di fronte.
Ci vuole un bel fegato per reggere la bella musica
senza fare storie, senza ricordare tutto,
senza frignare come le bambine.
Diceva il mio dentista ieri:
c’è un tempo per capire e uno per scegliere.
E continuava: come viene, conviene.
Con quattro ferri in bocca io, al più, lacrimavo.
Scegliere come fanti in battaglia,
prudenti chirurghi,
giocatori d’azzardo
come lucidi ubriaconi,
con il solenne puro coraggio
di una colomba bianca sull’altare.
E mi alzo in piedi
nel silenzio di una vuota cucina
-marmo nero lucido, lampade led-
non mi va di chiamare nessuno,
spengo il fornello e sorrido.
Ci sono delle cose che è meglio se le fai.
E non mi viene da dire nient’altro.
E la mia vena poetica- come si suol dire- si sta fottendo,
ma, d’altronde,
sto un po’ invecchiando anch’io.
C’e un tempo per capire
nel silenzio di una fredda cucina,
barattoli di vetro pieni di cornflakes e chicchi di caffè,
broccoli lessi che ribollono da mo’.
Forse sono pronti, non lo so.
Un violinista suona Ennio Morricone nella camera di fronte.
Ci vuole un bel fegato per reggere la bella musica
senza fare storie, senza ricordare tutto,
senza frignare come le bambine.
Diceva il mio dentista ieri:
c’è un tempo per capire e uno per scegliere.
E continuava: come viene, conviene.
Con quattro ferri in bocca io, al più, lacrimavo.
Scegliere come fanti in battaglia,
prudenti chirurghi,
giocatori d’azzardo
come lucidi ubriaconi,
con il solenne puro coraggio
di una colomba bianca sull’altare.
E mi alzo in piedi
nel silenzio di una vuota cucina
-marmo nero lucido, lampade led-
non mi va di chiamare nessuno,
spengo il fornello e sorrido.
Ci sono delle cose che è meglio se le fai.
E non mi viene da dire nient’altro.
E la mia vena poetica- come si suol dire- si sta fottendo,
ma, d’altronde,
sto un po’ invecchiando anch’io.
09/10/19
Un donatore di midollo
di Cristina Taliento
(Falesia con spiaggia bianca, Felix Vallotton, 1914)
Ero a bordo di un treno che viaggiava nella notte stellata, letti buttati sparsi nella carrozza, alcuni capovolti, altri sistemati con bianche lenzuola d’ospedale e flebo accanto ai finestrini.
Un ragazzino pallido seduto di spalle con in mano dei joystick si difende in un videogioco di guerra.
“Trentatré!” esclamo prendendolo alla sprovvista. È così che mi chiama. Non si gira, concentrato a vincere, a non morire.
E un vecchio gioca a scacchi anche lui con la Morte, con tutti i Santi e i Diavoli attorno, pronti a scommettere, a tifarli contro e io che nel frattempo- facendomi largo tra quelli spettatori- gli misuro la saturazione, cambio la sacca di sangue, do uno sguardo triste alla partita, poi cambio carrozza, saltando nel vento della notte tra un vagone all’altro con scarpe consumate e un camice sporco sbrindellato.
“Trentatré!” esclamo al mio ritorno a quelle spalle piccole da ragnetto. Nessuna risposta. Sta perdendo. Una sola vita su dieci pallini.. Mi fermo a qualche metro dietro di lui e mi appoggio al muro a guardarlo con sguardo impotente. E non ho mai avuto tanta voglia di vincere come quella di farlo vincere, e non ho mai avuto tanta paura di perdere come quella di vederlo perdere.
E poi ci siamo fermati in una stazione. Il vecchio ha interrotto la partita di scacchi per scendere a fumare. La Morte ha sbuffato. Io ho alzato le spalle fingendo dispiacere. Il vecchio ha riso sotto i baffi. Sono scesa anch’io.
“Mi restano le ultime dieci sigarette”
“Le ultime otto” dico chiedendone una. “I farmaci te ne restituiscono cinque ma te ne tolgono una. Fanno quattro”
“Tieni- dice dandomi una sigaretta e poi dice- quattro, brutto numero”.
“Almeno non è dispari” dico.
Mentre siamo lì si avvicina un uomo con il volto coperto.
Il capotreno dice che viene in pace.
“Vieni in pace?” dice il vecchio squadrandolo dall’alto in basso con la sigaretta tra i denti.
Lo guardo anch’io.
“Devo salire su questo treno” dice senza fiato.
“Ti conviene fartela a piedi, amico” ride con voce rauca il vecchio guardandolo negli occhi, anche se i suoi occhi sono nascosti da qualche parte nel cappuccio, dentro il buio.
“Biglietto, prego” dico in tono professionale.
“Sono stato chiamato. Sono compatibile con qualcuno qui dentro”.
Così non dico niente, butto la sigaretta, salgo sul treno con le gambe che mi tremano, vado nella carrozza numero cinque, prendo per mano il ragazzino, quel giovane ragnetto, appoggio il joystick sul ripiano con movimenti controllati che nascondono l’emozione.
Andiamo insieme da quell’uomo sconosciuto con la Vita nella tasca del giubbotto.
Il mio ragnetto lo guarda con occhi giganti.
Lo sconosciuto ha una maschera nera, non si riesce a vederlo.
Ma io riesco a vederlo.
Dico “grazie” e piango un po’.
Il vecchio fa un cenno del capo all’uomo. E io mi asciugo le lacrime ridendo mentre lasciamo quel bambino a terra.
Io e il vecchio risaliamo a bordo. La Morte annoiata picchietta il dito sull’orologio da polso. I santi e i diavoli stravaccati sui divani si alzano e si rimettono intorno alla scacchiera.
“C’ha pure il rolex sta maledetta!” mi bisbiglia il vecchio.
“Arriviamo, arriviamo” dico per tranquillizzare gli animi.
29/09/19
Descrizioni del suono per non udenti - La pizzica
velleità di Cristina Taliento
"Chi balla la pizzica non muore mai"
"Chi balla la pizzica non muore mai"
E c'è un campo di orchidee, un mare di orchidee bianche. Io m'immagino sempre che sia il silenzio, l'assenza del suono, la meraviglia. Una casa cantoniera in lontananza, una decina di pini in fila...
La canzone inizia con un lieve venticello che spira da destra, non forte, ma tenue come tutte le cose tenui e delicate, come settembre, i colori pastello, la domenica, i giornali sul tavolo.
Poi cresce, non che cambi del tutto, ma si trasforma dalla sua idea semplice, come l'idea semplice di un settembre che all'improvviso diventa un torrido settembre, ventilatori ancora accesi, gente che si lamenta del caldo negli uffici postali.
Un treno passa a un chilometro di distanza, i colori pastello vibrano sul tavolo. Il vento scompagina i giornali sul tavolo e tu sei di nuovo giovane, nel campo di orchidee del silenzio hai di nuovo diciassette anni e un nuovo amore, cento solitudini e un pugno di dadi da lanciare nel cielo.
E seduto sotto il portico della casa cantoniera c'è un vecchio che fuma sull'uscio e ti guarda lontano. Occhi di oceano, oceani di Novecento. Forse è tuo padre o solo il guardiano. Qualcosa di familiare, un leggero solletico come di giorni vissuti.
Quando arrivano i tamburelli- e nella canzone arrivano dopo- le orchidee diventano gabbiani, uccellacci di porto, sfacciati e vivi come la tramontana che pure in quella campagna prende ad impazzare, insieme ai ricordi, perchè la pizzica è nostalgia, il tuo volto giovane dietro lenzuola stese al sole, che schivo teme e pur desidera, sorride, si nasconde, che scappa ridendo saltando da un terrazzo all'altro con un vestito lungo che alzi con le mani per non inciampare e capelli lunghi biondi spettinati volano nell'argenteo Tempo, lontano dagli anni, nell'irriverenza di un antico pomeriggio, mentre rondini e gabbiani dipingono lo scenario del sogno numero quindici steso su vernice blu cobalto con strisce di blu oltremare e
pesci rossi nuotano
in verdi damigiane
di vino bianco
appoggiate sui muretti di casolari con gatti magri che ci camminano intorno, code rialzate, l'andatura lenta dell'attesa che non è altro che la pausa nel pentagramma, la mano che accarezza la pelle del tamburello e si riposa, il raggio di sole che esita sui vetri... e riprende, dopo la pausa riprende, cade un ramo, riprendi a correre, annaspando tra le extrasistoli, battere e levare,
trattieni il suo sguardo,
e dici scherzando,
e non sei mai stata così seria,
ritorniamo qui per sempre.
Alla fine tutto si riavvolge e sei di nuovo in quel mare di orchidee bianche. E poi inizia un'altra canzone.
(L'ultima volta, Francesco Guccini)
(L'ultima volta, Francesco Guccini)
17/09/19
Sotto un tempo da lupi io mangio un gelato
di Cristina Taliento
Questo scritto risale al 12/06/2017
Sotto un tempo da lupi io mangio un gelato
È il titolo di questo sonetto
e le rondini volano alte.
La pioggia d'estate mi fa venire voglia
Di scappare di casa
Anche se questa non è casa mia
E sarebbe strano, un controsenso
Dunque preparo lo zaino
E pedalo semplicemente
Come un tranquillo anziano normale
Che pedala normale
Ma in realtà sto facendo al contrario
Il solito percorso
Con l'animo di un bambino irriverente
E da questa prospettiva
Mi sembra tutto diverso,
Persino quel ponte, diverso.
Però è bello
E questo potrei anche scriverlo in prosa, anche se mi servirebbe il doppio del coraggio, perché nei versi ci sei e non ci sei, salti da un rigo all'altro lasciando nel dubbio che fossi veramente tu o soltanto un riflesso, un sentimento generico, d'altri. Pedaliamo ancora sotto questo cielo di capodoglio ferito -e questa è in assoluto la mia metafora migliore - noncuranti di noi stessi, oppure troppo attenti ai dettagli per accorgerci delle cose più semplici.
Semplice tipo questo parco che incontro, pieno di rametti spezzati dalla tempesta, con tre panchine e un'altalena.
La pioggia d'estate accarezza gli alberi
E un signore col cane mi fa:
"Ragazza, ieri vento a ventinove kilometri orari!".
Faccio un cenno d'assenso e dico:
"Mare forza quattro!".
Dicono che nello Stretto di Bering ci sia un vento talmente forte da uccidere in media un pescatore al giorno. Lo chiamano il "gelo nero". Per questo il lavoro del pescatore di granchi reali del Nord è il lavoro più pericoloso al mondo. Le onde saranno davvero altissime laggiù.
05/09/19
Il fegato
di Cristina Taliento
(No.3/No.13, Mark Rothko, 1949, MoMA, New York)
La comunità di quel piccolo paese
asseriva di sapere esattamente cosa passasse per la testa del vecchio John: che
era un vecchio pazzo accasciato dalle delusioni e dagli anni, incline ai vizi
tra i più temuti dalla società, dedito ad alcol, spaccio, erba buona, meno
buona, scrittore da strapazzo, eccetera eccetera. Non era vero.
Andai a fargli visita una sera di
settembre. Le campane della chiesa accanto alla casa dove vivevo avevano
suonato all’impazzata per tutto il pomeriggio, con cadenze prima allegre, poi
da funerale, allegre, da funerale. Mi ero affacciata più volte alla finestra. Prendendomi
appena un terzo dell’audacia socialmente consentita a una donna della mia età, avevo
chiesto con solerzia cosa diavolo stesse accadendo. Mi era stato risposto da un
passante: “Il giubileo!”. Contrariata, divertita e sconfitta, avevo allineato i
fogli dei miei appunti, avevo sbarrato con una penna le pagine; contenta era
invece la mia mancata ispirazione. Non se ne sarebbe fatto più niente.
Così, come dicevo, andai a fargli
visita. La prima cosa che mi disse quando mi vide fu: “ho una ferita sotto al
piede, quattro centimetri almeno!”. “Non sono mica il tuo medico”. “Sia ringraziato
il cielo”. Non aveva proprio nulla.
La seconda cosa che mi disse fu: “Stai
scrivendo, vero?”. Risposi: “Un po’ si, un po’ no, ho avuto da fare”.
Mi guardò
con sguardo severo come spesso si addiceva a un maestro. Mi chiese: “Che cosa è per te la letteratura”.
Risi, gli dissi che la cosa non
rientrava tra i miei pensieri elaborati nell’ultimo periodo e a dirla tutta nell’ultima
vita, che non mi occupavo di evanescente pulviscolo filosofico preferendo di
gran lunga a questo un -si sperava- duraturo soggiorno nelle liete lande dell’argentea
Scienza!
Alzò gli occhi al cielo. “Trovo limitante che
tu debba a tutti costi sentire così forte questo sentimento del bivio. Come se
una mente dovesse per forza amputarsi delle parti, come se due piante non
potessero crescere nello stesso vaso”.
“Ma tant’è” risposi alzando le spalle.
Nella stanza c’erano libri
dappertutto, accatastati per terra, sulle mensole, dentro il camino spento. Su
un tavolino di legno il vecchio aveva usato un bollitore come vaso per dei
girasoli.
“Che cosa è per te la letteratura”
ripetè quindi mentre versava dei croccantini nella ciotola per il suo gatto Bob.
“Non lo so, il desiderio
primordiale dell’uomo di comunicare all’altro i propri bisogni, necessità,
paure?”
“Questa è veramente una risposta
da scuola elementare” asserì accarezzando il gatto. “Comunicare, vedi… lo facciamo continuamente.
Il mondo è pieno di parole, fluttuano nelle strade, dritte come fili piombati,
a zig zag, in salita, in discesa, parole ovunque, parole in equilibrio sulle
spalline di giacche sartoriali, parole appese ai pali della luce, sospese e
diradate nel grigio cielo prima del temporale. La letteratura, mia cara, non
sono le parole. Quello si chiama cicaleggiare”
Continuava a mancare di rispetto
alla vita vera, alla lingua parlata. Incrociai le braccia.
“La letteratura è il resoconto sul
nulla, fatterelli, fattacci, nobili fatti che ci narriamo da secoli per aiutarci
a vicenda, per imparare a superare questa cosa, qualunque cosa sia”.
Dissi risentita: “Non esistono
risposte assolute a domande aperte”.
Così gli raccontai di quella
volta in cui il mio professore di Medicina Interna mi chiese al letto del
paziente, davanti a tutti gli altri studenti, la definizione di "fegato".
Io avevo risposto sicura di me: “un
organo parenchimatoso deputato a svolgere funzioni esocrine ed endocrine…”.
Lui mi aveva guardato con occhi di ghiaccio e molto lentamente mi aveva detto: “Niente affatto”. Ci avrei scommesso.
Aveva poi aggiunto: “Il fegato è una ghiandola
che produce albumina”. La cosa mi aveva sbalordita. Devo ancora farmela scendere. Non esistono definizioni assolute per sistemi complessi.
Lo sapevano tutti che né per la letteratura
né per il fegato sarebbe andata bene una sola semplice definizione.
30/08/19
Il faro ieri e oggi
di Cristina Taliento
(The sea watchers, Edward Hopper, 1952, collezione privata)
1997. Capo d’Otranto.
Io mi ricordo di un pomeriggio al mare,
Io mi ricordo di un pomeriggio al mare,
il sole che cadeva di taglio sulle onde,
la sabbia che volava e diffondeva la luce
come forse accadeva spesso
in quei posti deserti dell’Africa.
in quei posti deserti dell’Africa.
Io mi ricordo braccia simili alle mie ora,
braccia che mi trattenevano nell’acqua per
non affondare.
non affondare.
E stringermi a quelle era per me allora
l’unico significato possibile di salvezza.
Io m’immagino sempre che laddove sia quel ricordo
lì sono io,
o, al limite, una buona parte di me.
Guidiamo fino alla spiaggia del faro. Che in realtà non è spiaggia, ma scogliera. La nostra idea di salvezza al momento consiste in qualcosa di decisamente più materiale, abbiamo venticinque anni, è passato non so quanto tempo dall’ultima volta che sono stata qui. Metto gli occhiali da vista. Il mare si estende a dismisura abbracciato dalla roccia nera. L’intonaco bianco del faro è linea verticale sicura, precisa, imponente, è la lucidità, è silenzio, è ordine. Tutto il resto si perde nell’orizzonte, muta, si sposta con le correnti, frana con le stagioni, insieme ad esse, nell’argenteo tempo, è incertezza, è stupore. Un vuoto che si contrappone a un pieno. L’energia del tutto, la fragile potenzialità dell’essere giovani e la bianca linea delle scelte tracciate, la mente sottilizzata, affinata.
“Volete una caramella?” ci chiede Gianni.
“Si, grazie”.
“Ma a che gusto è?”
“Non lo so, al miele forse, non lo so, leggi, dovrebbe esserci scritto”
“Miele e noci”
“Perbacco!”
Le nostre voci, quei nostri discorsi si diffondono nello spazio circostante come vapore, come una ninna-nanna.
Qualcuno esclama: “Transire suum pectus mundoque potiri ”
“E che minchia significa”
“Lasciatelo stare, vuole ribadire che ha fatto il classico”
“Veramente sono anche dottore in Lettere classiche”
“Bella roba” e tutti scoppiamo a ridere. Il mare è sempre lì che ci osserva, che ci ascolta e forse per lui non siamo più quelli di una volta, ma alla fine che vuoi farci.
“È scritto sulla medaglia Field. Trascendere i propri limiti e dominare l’universo”
“Una robetta tranquilla, insomma!”
“Ah Carlooo! Vai a farti una nuotata, va!”
Così tutti si tolgono i vestiti e corrono verso il mare.
Io m’immagino sempre che laddove sia quel ricordo, lì sono io.
Prendo gli occhialini dalla borsa e li raggiungo.
Ci tuffiamo insieme nell’azzurro caos delle cose che saranno.
19/08/19
I cieli del mio account Facebook
di Cristina Taliento
(The Martha McKean of Wellfleet, Edward Hopper, 1944)
E se Facebook o Instagram
vendessero i miei dati
a fantasmi, ombre incravattate
vorrei che nel mio account
ci fossero più cieli, foto di cieli,
descrizioni di cieli,
perché a volermi poi manipolare
a volermi poi
acquistare
sarebbero costretti a ragionare
-quantomeno-
in senso più poetico.
Dissi questa cosa al mio amico. La trovò divertente. Dissi come fai a non sentirti in gabbia oh tu figlio di questo secolo. Rispose che beveva e prendeva delle gocce prima di andare a dormire. Alzai le spalle. Sospirai: povero te.
“Povero me? Perché povero me?”
“Perché non ti interroghi, non pensi, accetti passivamente che qualcuno ti pianti della gramigna nel cervello e l’unica cosa che sai fare è contribuire all’innaffiamento della suddetta pianta fino a quando le radici non ti spaccheranno a metà quella maledetta testa e l’unica cosa che farai sarà ridere e fumare e connetterti su Facebook, ridere e connetterti su Facebook. Bravo, fuma eh!”
Si accese una sigaretta, si grattò i capelli. Ero abbastanza sensibile a quel gesto.
“Forse stai un po’ esagerando”
“Forse non ti sei accorto che ci stanno togliendo le nostre identità, il nostro valore, la poesia. Gli ideali...”
Mi guardò e scoppiò in una risata.
“Dove è finito il tuo spirito di leggerezza?” mi interrogò.
“E dove è finita la tua lucidità?” gli chiesi. Tuttavia iniziai a provare nostalgia per la leggerezza, la privacy, il cielo di notte quando stendi sulla sabbia un telo umido e l’unico rumore che senti è quello del mare.
“Se ti piace scrivere, vuol dire che ti piace raccontare e implicitamente che gli altri ti leggano. Quello che fai non è molto diverso dal postare le storie su Instagram. Non capisco perché tu te la prenda tanto” disse sedendosi sul marciapiede. Mi sedetti anch’io.
Intanto il cielo era tramontato e il buio cadeva sulle sue labbra, dentro i suoi occhi. Volevo avere più certezze nella vita. Bevvi un sorso d’acqua dalla bottiglietta che mi ero portata.
Non dissi niente.
“A volte le persone vogliono solo dire la loro attorno al fuoco” continuò.
“In questo momento Google sa perfettamente dove siamo” dissi con lo sguardo ipnotizzato su un punto non meglio definito.
“Già” disse lui.
“Già” dissi io.
Poi ce ne andammo. Io dovevo passare dalla lavanderia prima della chiusura.
Poi ce ne andammo. Io dovevo passare dalla lavanderia prima della chiusura.
11/08/19
Salvare la bambina
di C. Taliento
ci siamo guardate per la prima volta
ed eravamo la stessa persona
soltanto epoche diverse,
ma quei sogni...
oh, quei sogni! sempre quelli, sempre uguali.
Capita quasi mai di sorridersi
guardandosi indietro,
ma questo mare butta le sue onde nei miei occhi
e io sono qui a piedi scalzi sulla duna più alta
a fare due conti, mangiare liquirizia
a ragionare su quello che non torna
a sentirmi, dopotutto, grata
per aver mantenuto la promessa.
ad ammettere finalmente di
aver portato la me bambina in salvo
che in qualche strano modo
ce l'ho fatta.
02/08/19
L’ospedale di notte
di Cristina Taliento
(I nottambuli, Edward Hopper, 1942, Art Institute of Chicago)
L’ospedale di notte è un posto strano, complicato, silenzi ovunque, tempi infiniti. All’accettazione le luci sono più fioche, le pareti ogni tanto diventano blu per le ambulanze. Qualche volta ci si incontra sulle scale antincendio per fumare, scambiare due parole, poi ognuno sfugge via con il suo da fare, ad imboccare chissà quali corridoi, ascensori, porte tagliafuoco.
Quando arriva la notte, la senti avvicinarsi con tutta la sua andatura da vecchia signora con le caviglie grosse e il passo lento; la notte degli ostili, degli scrittori, degli infermieri, delle luci al neon, gialline, traballanti, delle sirene, questa notte arrugginita, calda, sporca di cenere, scorre e fluttua come un gatto nottambulo su cornicioni lunghi, infiniti, e va di paese in paese, di ora in ora, fino alla campagna, con gli occhi rossi, gli orecchi in agguato e addosso uno strano senso di solitudine e libertà.
La porta dell’ambulatorio resta socchiusa, lì fuori una quindicina di cuori pulsanti fermi ad aspettare il numero del monitor. Andiamo avanti senza sosta incontro alla notte, con la calma esperienza di un medico più anziano e il mio correre da una parte all’altra con cento fogli in mano. “Chi non ha buona la testa abbia gambe veloci” diceva mio nonno.
E i corridoi si allungano ogni ora che passa, sempre più sottili, sbiaditi, simili a labirinti.
Da qualche parte in mezzo alla notte- non ho idea di che ore siano- sto cercando di comunicare con un gigantesco ragazzo cinese che ogni volta che mi giro mi sembra sempre più grande, più alto, come nei sogni. Non ci capiamo per niente.
“Allergie?” scrivo in italiano mentre Google Traduttore elabora in cinese. Glielo porgo per leggere.
Digita qualcosa anche lui sul mio telefono per rispondermi, ma le sue dita sono troppo grandi e premono troppi tasti insieme. Così Google mi traduce una frase strana tipo: “In passato ho sofferto di colica renale. Nello scorso anno mi sono perso nel cielo”. Resto a fissare lo schermo.
Guardo l’ora, sono le tre e mezzo, la prima frase conferma il mio sospetto, la seconda probabilmente finirò per scriverla da qualche parte.
Lo scorso anno
mi sono perso
nel cielo.
Il mio scantinato
faceva acqua da tutte le parti.
Pioveva sulle strade di Hong Kong
e sui miei vecchi jeans.
Per di più
avevo male al fianco sinistro.
Un giorno
ho rottamato la macchina.
Siamo rimasti fermi mentre pioveva,
io- centosessanta chili- e quel catorcio di Jeep
fermi a pensare
ad uno straccio di soluzione.
Poi sono tornato a casa,
ho appeso adagio le chiavi all’ingresso
come non facevo da tanto tempo.
Qualcuno bussa alla porta nel momento in cui sto spezzando una fiala con le dita. Stupidamente mi taglio.
“Sono il numero sessanta, stavo accompagnando mio figlio in bagno, ora siete al sessantadue” dice un uomo anziano sulla porta.
“Prego, avanti” esclamo con voce imperiosa mentre cerco di tamponarmi velocemente la ferita con una garza.
Questi dannati ospedali! In soltanto cinque secondi ti insegnano a non giudicare con compassione e tenerezza un padre di ottant’anni che accompagna in bagno suo figlio cinquantenne e a non premere sulla fiala con il pollice verso l’interno. Ma spero comunque di imparare meglio, che in futuro faccia tutto meno male.
Non lo so, è strano parlare delle persone, anche se lo faccio continuamente, anche se molte cose, alla fine, me le invento, le ingigantisco tanto per raccontare qualcosa quando arrivo stanca a casa e mi appendo a una forchetta ancorata su una tazza di cereali.
Non mi ricordo come sia andata a finire con quel padre e figlio, con la ragazzina dai frequenti attacchi di panico, il pescatore con l’amo conficcato nella mano, la donna logorroica delle quattro e un quarto. Non ho chiuso occhio, ma forse è stato comunque un sogno.
Allora se questo è un sogno, piano piano sta finendo. L’alba fa capolino sorniona sulla porta come una colomba. Il gigantesco ragazzo cinese che dormiva sulla sedia a rotelle si sveglia di colpo. Si guarda intorno.
E ora chi glielo spiega come arrivare in Urologia.
Gli faccio segno di seguirmi.
Camminiamo in silenzio, trascinando piedi e brandelli di gambe sulle scale. Arriviamo.
Bella però l’alba dal sesto piano.
20/07/19
Xylella
di Cristina Taliento
Scheletri di alberi prima dell’orizzonte
strozzati da cordoni e nervi,
rami freddi, tesi, extraruotati,
soldati solitari nella pianura,
dispersi come mandrie abbandonate.
Un cane mi corre incontro,
il suono delle cicale, l’odore del grano.
Sono tornata a casa
dopo tanto tempo,
ma qui è tutto diverso.
E fare tutto per loro, per gli ulivi, gioire se piove, se non piove, svegliarsi alle cinque e sentire di appartenere a qualcuno, di essere il custode di qualcosa di immortale, solenne, scolpito dai venti, guardiano del tempo; e piantarne di nuovi anche se hai ottant’anni e un cancro e non li vedrai più alti nemmeno di un centimetro. Tutto questo perché la morte dell’uomo non può fermare il patto tra gli uomini e gli ulivi, non può fermarne l’alleanza, le stagioni, la fiducia nel futuro.
Restammo a guardare quello che restava,
i cambiamenti del nostro sentire,
le fronde grigie.
Il vecchio si accese una sigaretta,
poi buttò il mozzicone nel falò.
Indietreggiai.
Fumo nei campi, ululati.
dietro le fiamme un cane lupo.
I nostri occhi si incrociarono.
Il cuore mi batteva all'impazzata.
Mi prese ad un tratto una forte voglia
di mostrarmi com’ero,
senza finzioni, senza riguardi per nessuno,
con quei quattro ideali ottusi
d’umanità, verità, giustizia
accettando sacrificio e dolore,
camminando sulle mie gambe
come sempre in direzione
ostinata e contraria
col mio marchio speciale di
speciale disperazione.
Ma questo non c'entrava con gli ulivi.
Era solo un' altra specie di discorso.
Disse: proveremo a innestarli.
Dissi: e se non funziona?
Rise: pianteremo quella stramaledetta vigna.
(3 maggio 1808, Francisco Goya)
Ho provato più volte a scrivere degli ulivi, ma tutte le volte mi sembrava come cercare di descrivere un saggio col cuore profondo e gli occhi lontani, valore segreto e antico per cui nutro una certa riverenza, qualcosa più grande di me che per certi aspetti sono ancora una ragazzina.
strozzati da cordoni e nervi,
rami freddi, tesi, extraruotati,
soldati solitari nella pianura,
dispersi come mandrie abbandonate.
Un cane mi corre incontro,
il suono delle cicale, l’odore del grano.
Sono tornata a casa
dopo tanto tempo,
ma qui è tutto diverso.
La notte sogno che secco anch’io, un orecchio va in necrosi, poi il primo dito del piede. Una voce mi dice che è consigliabile amputare. Mi sveglio spaventata.
Tuttavia con i miei vecchi mi mostro risoluta, da buona figlia del secolo nuovo dico: “Che sarà mai, che vengano estirpati e si pianti la vigna!”.
E tutti tacciono. La cucina viene invasa dai ricordi dei presenti che evaporano dalle teste e iniziano a ronzare intorno al lampadario. Nessuno li vede, ma io li sento vibrare. Mi fanno male. Per cui continuo : “Tanto è inutile piangere sul latte versato, no? Nella storia degli uomini queste cose sono sempre accadute, se non volete la vigna, ebbene che siano piante di avocado!”.
Appoggio il telecomando sul libro di Joyce. Piante di avocado. Addirittura.
Le campagne hanno i nomi così puoi identificarle, migliorarle, puoi averne cura.
Così puoi dire “vado lì...” e non in una campagna qualsiasi, ma proprio quella, la tua. La tua perché se non cadesse la pioggia le tue orme si potrebbero contare a milioni, se i bambini non diventassero grandi, saremmo ancora tutti lì a rincorrerci, a ferirci le ginocchia, ad essere felici. Io ad arrabbiarmi, mia sorella a piangere, mia madre che ci rimprovera, il pastore tedesco steso sul prato.
E ognuno vivrebbe la campagna a modo suo,
i vecchi come la loro vita, il loro giorno,
il loro spirito,
i vecchi come la loro vita, il loro giorno,
il loro spirito,
mia nonna come il suo focolare,
io come un piccolissimo, minuscolo, spiraglio di infinito.
io come un piccolissimo, minuscolo, spiraglio di infinito.
E fare tutto per loro, per gli ulivi, gioire se piove, se non piove, svegliarsi alle cinque e sentire di appartenere a qualcuno, di essere il custode di qualcosa di immortale, solenne, scolpito dai venti, guardiano del tempo; e piantarne di nuovi anche se hai ottant’anni e un cancro e non li vedrai più alti nemmeno di un centimetro. Tutto questo perché la morte dell’uomo non può fermare il patto tra gli uomini e gli ulivi, non può fermarne l’alleanza, le stagioni, la fiducia nel futuro.
Restammo a guardare quello che restava,
i cambiamenti del nostro sentire,
le fronde grigie.
Il vecchio si accese una sigaretta,
poi buttò il mozzicone nel falò.
Indietreggiai.
Fumo nei campi, ululati.
dietro le fiamme un cane lupo.
I nostri occhi si incrociarono.
Il cuore mi batteva all'impazzata.
Mi prese ad un tratto una forte voglia
di mostrarmi com’ero,
senza finzioni, senza riguardi per nessuno,
con quei quattro ideali ottusi
d’umanità, verità, giustizia
accettando sacrificio e dolore,
camminando sulle mie gambe
come sempre in direzione
ostinata e contraria
col mio marchio speciale di
speciale disperazione.
Ma questo non c'entrava con gli ulivi.
Era solo un' altra specie di discorso.
Disse: proveremo a innestarli.
Dissi: e se non funziona?
Rise: pianteremo quella stramaledetta vigna.
16/05/19
La seconda giornata di ricovero
di Cristina Taliento
Rivide sua moglie dopo dieci anni
mentre era in ospedale per una rottura di femore.
Lei in realtà era morta e lui,
per via dell’anestetico, delirava,
teso e accaldato,
arrampicato sulle pareti
di chissà che razza di
stagno fosforescente del pensiero;
ma l’amore dicono sia
una pianta strana,
cresce dentro caverne buie,
germoglia senza l’ossigeno della ragione,
fluttua come una vela sulla coscienza.
Pertanto,
la rivide ai piedi del letto,
seduta tranquilla, gli occhi
gonfi di vita.
Aveva i capelli
più chiari,
riflessi di luce
simili a mimose
sui vetri.
-È andata finalmente dal parrucchiere,
vuole cambiare, mi tradisce?- pensò.
Un gabbiano si schiantò contro il vetro. Dall’impatto ne vennero fuori farfalle. Il vicino di letto, infastidito, si girò dall’altra parte.
Lui era emozionato, disse:
“Amanda, sai, questo tempo
tra noi
è una cosa bellissima”.
Lei disse con la testa piena di farfalle:
“È qualcosa di
veramente bello”.
Intanto una lucertola
camminava sul lenzuolo,
lui la prese e la spostò
sul davanzale.
Lei socchiuse gli occhi e sorrise gentile.
“Vedi, la mia vita
è rimasta ferma
a te”.
E poi svanì come nebbia al mattino,
come le ombre cinesi sui muri,
bastarono i soliti milligrammi
di aloperidolo.
Rimase al buio con la fronte spaventata
e una protesi d’anca nuova di zecca.
Sospirò pallido e sudato.
Promise
di rivederla.
17/02/19
La fine dell'Università
di Cristina Taliento
Una mattina
apro gli occhi e cerco l’interruttore
la luce del neon appena accesa
si intensifica lentamente;
i miei sogni
in un modo e in un mondo del tutto speculare
lentamente si dissolvono.
Così finisce l’Università,
non con la laurea,
ma una domenica mattina,
e le pantofole dove caspita sono andate a finire.
Sono finiti gli esami dentro le biblioteche dei reparti,
finiti i capitoli, finite le malattie,
finiti i professori vestiti da chirurghi
finite le camicie celesti, i jeans, le Superga bianche,
finiti i tramonti che famelici divoravano le strade di Parma,
finite le canzoni di Patti Smith: People have the power,
finito Bob Dylan che vinse il Nobel per la letteratura,
finita la radio che annunciò la morte di Bowie durante una laringectomia,
finite le briciole sulle magliette dei Pink Floyd,
finiti i discorsi sui gradini delle chiese,
finito il Battistero che se ci entri non ti laurei, dicevano.
Finito quel qualcosa di sinistra,
finite le corse sotto la pioggia,
finite le biciclette,
Finito quel campo di girasoli in cui ho voluto fermarmi a tutti costi,
in divieto di sosta, le quattro luci -proprietà privata-
per fotografare lui con la corona d’alloro e le voci e le luci.
Finito lo studio dopo il pranzo della domenica,
finiti i capotreni con tutte le stazioni,
finiti gli amori delle mie amiche,
finite le lacrime, il dolore.
Sono finiti i quadri di Picasso, i turni per lavare il bagno,
i gatti del teatro,
finite le rassegne dei film di Hitchcock,
le poltroncine rosse del Cinema d’Azeglio.
Finite le scritte scarabocchiate lungo il fiume
“ Balbo t’è pasè l’Atlantic, mo miga la Perma”,
finiti i ragazzi e le ragazze, i kebab, i venditori di rose.
Finiti i nostri capelli lunghi,
gli appelli di fine luglio e il ritorno a casa.
Finito il telo sul sedile posteriore che mia madre stendeva al ritorno dal mare,
finito il mirto sulle dune,
finiti i pomeriggi, le granite, le lezioni.
La sera stessa vado in discoteca.
Io e le mie amiche.
Nessuna di noi tre parte veramente domani,
ma c’è qualcosa che sta finendo
e sta cambiando o è già cambiato.
Così balliamo,
gli altri ci puntano
ma noi non spostiamo lo sguardo nemmeno per un secondo dai nostri giubbotti messi nell’angolo
E, ad ogni modo,
non avremmo molto da dire,
o molto da spiegare che possa essere compreso.
Non ci sentiamo un’isola,
ma siamo comunque Altrove,
oltre le dannate spiegazioni,
oltre l’esibizione dell’Io.
E qualcuno si presenta e dice:
“ma insomma ragazze, come siete serie”
noi tre vorremmo dire
arrivi adesso
ma che ne sai.
Una mattina
apro gli occhi e cerco l’interruttore
la luce del neon appena accesa
si intensifica lentamente;
i miei sogni
in un modo e in un mondo del tutto speculare
lentamente si dissolvono.
Così finisce l’Università,
non con la laurea,
ma una domenica mattina,
e le pantofole dove caspita sono andate a finire.
Sono finiti gli esami dentro le biblioteche dei reparti,
finiti i capitoli, finite le malattie,
finiti i professori vestiti da chirurghi
finite le camicie celesti, i jeans, le Superga bianche,
finiti i tramonti che famelici divoravano le strade di Parma,
finite le canzoni di Patti Smith: People have the power,
finito Bob Dylan che vinse il Nobel per la letteratura,
finita la radio che annunciò la morte di Bowie durante una laringectomia,
finite le briciole sulle magliette dei Pink Floyd,
finiti i discorsi sui gradini delle chiese,
finito il Battistero che se ci entri non ti laurei, dicevano.
Finito quel qualcosa di sinistra,
finite le corse sotto la pioggia,
finite le biciclette,
Finito quel campo di girasoli in cui ho voluto fermarmi a tutti costi,
in divieto di sosta, le quattro luci -proprietà privata-
per fotografare lui con la corona d’alloro e le voci e le luci.
Finito lo studio dopo il pranzo della domenica,
finiti i capotreni con tutte le stazioni,
finiti gli amori delle mie amiche,
finite le lacrime, il dolore.
Sono finiti i quadri di Picasso, i turni per lavare il bagno,
i gatti del teatro,
finite le rassegne dei film di Hitchcock,
le poltroncine rosse del Cinema d’Azeglio.
Finite le scritte scarabocchiate lungo il fiume
“ Balbo t’è pasè l’Atlantic, mo miga la Perma”,
finiti i ragazzi e le ragazze, i kebab, i venditori di rose.
Finiti i nostri capelli lunghi,
gli appelli di fine luglio e il ritorno a casa.
Finito il telo sul sedile posteriore che mia madre stendeva al ritorno dal mare,
finito il mirto sulle dune,
finiti i pomeriggi, le granite, le lezioni.
La sera stessa vado in discoteca.
Io e le mie amiche.
Nessuna di noi tre parte veramente domani,
ma c’è qualcosa che sta finendo
e sta cambiando o è già cambiato.
Così balliamo,
gli altri ci puntano
ma noi non spostiamo lo sguardo nemmeno per un secondo dai nostri giubbotti messi nell’angolo
E, ad ogni modo,
non avremmo molto da dire,
o molto da spiegare che possa essere compreso.
Non ci sentiamo un’isola,
ma siamo comunque Altrove,
oltre le dannate spiegazioni,
oltre l’esibizione dell’Io.
E qualcuno si presenta e dice:
“ma insomma ragazze, come siete serie”
noi tre vorremmo dire
arrivi adesso
ma che ne sai.
08/02/19
Persone che sperano
di Cristina Taliento
(Kingfisher flies over purple morning glories, Utagawa Hiroshige, 1850)
Sperare per qualcosa mentre un uovo bolle nell'acqua.
L'orologio segna le sette e mezzo di sera,
guardo fuori dalla finestra in cerca di una soluzione.
Sul balcone di fronte una donna fuma una sigaretta,
spera che sia l'ultima.
Che siano le ultime lacrime, le ultime medicine,
che magari quest'anno si ritornerà a nuotare.
E intanto le macchine sfrecciano,
sotto ai palazzi, sotto gli archi,
Mercedes, Panda, alcune station wagon
tracciano linee che si intersecano nel vuoto
sul ritmo di musicassette consumate come vecchie paia di scarpe.
In una di queste- sarà una vecchia utilitaria-
un padre guida da sette ore.
"Mi fa male la spalla" mi dice.
"E perchè ti fa male?" gli chiedo.
"Ho guidato tutto il giorno" mi dice.
"E perchè non ti sei fermato?" gli chiedo.
"Sono tutti i giorni che guido così tanto" mi dice.
"Roma-Lecce. Lecce-Roma. Lavori a Roma?" gli chiedo.
"No"
"E che ci vai a fare a Roma? Spacci?" dico per scherzare.
"Mia figlia è ricoverata al Bambin Gesù".
Una leucemia, credo.
E i chilometri scorrono come pioggia,
incontro alla speranza, alla storia naturale della malattia,
agli acquazzoni sul parabrezza,
al mio non saper che dire,
alle stazioni radio che parlano di cose strane
tipo in questo momento di come
preparare una maschera al cocco
per rendere
veramente
più morbida
la barba.
Sperare per qualcosa mentre rompo il guscio di un uovo,
in silenzio, nel piatto freddo di porcellana.
L'orologio segna le sette e quaranta di sera,
guardo fuori dalla finestra in cerca di qualcosa.
Un vecchio trascina i suoi passi lungo Via Emilia Est,
termina così il suo ultimo giorno di lavoro.
Dopo la festa, i biglietti, gli auguri,
alla fine ha perso l'autobus.
Il suo discorso di commiato faceva più o meno così:
"Ringrazio quanti di voi hanno voluto rendere omaggio
alla mia carriera con un ricordo, un gesto, un abbraccio.
Non è mai stato un mio pregio quello di
sentirmi comodo al centro dell'attenzione.
In realtà l'unico posto dove mi sia sentito comodo,
o per meglio dire, a mio agio, a posto eccetera...
beh, quel posto è stato la sala operatoria.
L'unico posto in cui abbia smesso di tremare
e francamente l'unico in cui non mi sia mai annoiato.
Brindo a voi che mi sostenete,
con l'augurio che tra qualche mese
non mi troviate a passeggiare per il parco
con l'aria da completo scimunito
e al guinzaglio il mio cane Bob".
Un vecchio trascina i suoi passi lungo Via Emilia Est,
pensa e ripensa,
ma in realtà ha solo fretta di tornare a casa.
Quarant'anni di carriera, duecento pubblicazioni...
eppure gli sembra ancora
di essere quel ragazzino dalle ginocchia ossute
con in braccio la sua piantina.
Non lo so cosa spera.
I chirurghi non sperano sul serio.
Soppesano le probabilità.
Tuttavia,
magari,
spera
un giorno
di ritornare.
(Kingfisher flies over purple morning glories, Utagawa Hiroshige, 1850)
Sperare per qualcosa mentre un uovo bolle nell'acqua.
L'orologio segna le sette e mezzo di sera,
guardo fuori dalla finestra in cerca di una soluzione.
Sul balcone di fronte una donna fuma una sigaretta,
spera che sia l'ultima.
Che siano le ultime lacrime, le ultime medicine,
che magari quest'anno si ritornerà a nuotare.
E intanto le macchine sfrecciano,
sotto ai palazzi, sotto gli archi,
Mercedes, Panda, alcune station wagon
tracciano linee che si intersecano nel vuoto
sul ritmo di musicassette consumate come vecchie paia di scarpe.
In una di queste- sarà una vecchia utilitaria-
un padre guida da sette ore.
"Mi fa male la spalla" mi dice.
"E perchè ti fa male?" gli chiedo.
"Ho guidato tutto il giorno" mi dice.
"E perchè non ti sei fermato?" gli chiedo.
"Sono tutti i giorni che guido così tanto" mi dice.
"Roma-Lecce. Lecce-Roma. Lavori a Roma?" gli chiedo.
"No"
"E che ci vai a fare a Roma? Spacci?" dico per scherzare.
"Mia figlia è ricoverata al Bambin Gesù".
Una leucemia, credo.
E i chilometri scorrono come pioggia,
incontro alla speranza, alla storia naturale della malattia,
agli acquazzoni sul parabrezza,
al mio non saper che dire,
alle stazioni radio che parlano di cose strane
tipo in questo momento di come
preparare una maschera al cocco
per rendere
veramente
più morbida
la barba.
Sperare per qualcosa mentre rompo il guscio di un uovo,
in silenzio, nel piatto freddo di porcellana.
L'orologio segna le sette e quaranta di sera,
guardo fuori dalla finestra in cerca di qualcosa.
Un vecchio trascina i suoi passi lungo Via Emilia Est,
termina così il suo ultimo giorno di lavoro.
Dopo la festa, i biglietti, gli auguri,
alla fine ha perso l'autobus.
Il suo discorso di commiato faceva più o meno così:
"Ringrazio quanti di voi hanno voluto rendere omaggio
alla mia carriera con un ricordo, un gesto, un abbraccio.
Non è mai stato un mio pregio quello di
sentirmi comodo al centro dell'attenzione.
In realtà l'unico posto dove mi sia sentito comodo,
o per meglio dire, a mio agio, a posto eccetera...
beh, quel posto è stato la sala operatoria.
L'unico posto in cui abbia smesso di tremare
e francamente l'unico in cui non mi sia mai annoiato.
Brindo a voi che mi sostenete,
con l'augurio che tra qualche mese
non mi troviate a passeggiare per il parco
con l'aria da completo scimunito
e al guinzaglio il mio cane Bob".
Un vecchio trascina i suoi passi lungo Via Emilia Est,
pensa e ripensa,
ma in realtà ha solo fretta di tornare a casa.
Quarant'anni di carriera, duecento pubblicazioni...
eppure gli sembra ancora
di essere quel ragazzino dalle ginocchia ossute
con in braccio la sua piantina.
Non lo so cosa spera.
I chirurghi non sperano sul serio.
Soppesano le probabilità.
Tuttavia,
magari,
spera
un giorno
di ritornare.
07/01/19
Okay Google
di Cristina Taliento
Paul Cézanne, Giocatori di carte (Les joueurs de cartes), 1890-1895, olio su tela, 47,5 x 57 cm. Parigi, Musée d’Orsay
“Okay Google!” urla il vecchio nel microfono del suo smartphone.
“Ciao sono il tuo assistente Google! Come posso aiutarti?” risponde una voce computerizzata.
Il vecchio guarda me. È felice di mostrarmi qualcosa di nuovo. È da tanto che non ci vediamo.
Mi dice: “Come può aiutarci? Abbiamo bisogno di qualcosa?”. Alzo le spalle.
L’assistente Google risponde: “Certo! Tutti abbiamo bisogno di qualcosa. Sii curioso. Avanti chiedimi qualcosa!”. Nella stanza il ronzio del frigorifero sembra sia diventato ad un tratto più assordante.
Il vecchio si guarda le scarpe pensieroso. Così lo aiuto.
“Dove vanno le anatre quando il lago gela?” chiedo in memoria di J.D. Salinger, morto in un gennaio di otto anni fa. Magari lui lo sa.
“Le anatre di Central Park salgono su un missile verde acqua e dopo aver allacciato le cinture di sicurezza vengono catapultate nel pianeta che meglio rispetta le loro esigenze metaboliche”.
Il vecchio non ha sentito. È un po’ sordo. “ Dov’è che vanno?”
“Dice che vanno nello spazio”.
“Addirittura...” sgrana gli occhi.
“I suoi inventori saranno dei creativi” dico.
“Sono degli ingegneri” mi corregge il vecchio con la voce carica di rispetto.
Il fuoco scintilla nella penombra del salotto. Vado in cucina per riempire due tazze di tè e sono ben lieta di non averne una terza per il nostro assistente Google.
“Non amo molto questi sistemi di spersonalizzazione dell’essere umano” penso ad alta voce mentre appoggio le tazze sul tavolo.
“Ma no, perché? Ci divertiamo!” esclama il vecchio tutto contento.
“Mi fa male vedere una testa piena di cielo e prati dialogare con degli algoritmi”
“Nella vita serve tutto, cara ragazza!”
“Questo non è niente, è solo solitudine” ribatto.
Il vecchio è abituato ai miei toni teatrali e drammatici, così non se la prende per il disprezzo che dimostro verso il suo giocattolo.
“È sempre meglio della settimana enigmistica”
“Non credo proprio”
“Almeno lui mi risponde!”
“Risponde a te come risponderebbe a chiunque altro. La parola non è nulla se intesa come un ordine consequenziale di frasi che abbiano il solo vanto di seguire un filo logico. Ciò che rende il pensiero parola e la parola legame è l’empatia. Rispettare la sensibilità dell’altro scegliendo con cura la risposta. Chi lo sa che ci facciamo davvero qui, in questa città, a quest’ora, a guardarci negli occhi, a guardarci dentro, soppesando le cose che abbiamo da dirci, dritti al centro di una linea a cui estremi ci sono la delicatezza e il cinismo. Che vuoi che ne sappia un pezzo di vetro gonfiato di codici binari!”
Il vecchio non si scompone. Dice: “A volte mi ricordi la Signorina Rottermeier”. Ride e appoggia gli occhiali sul tavolo coprendosi gli occhi con la mano. Rido anch’io e per poco il tè non mi va di traverso. Rido perché è buffo vedere il vecchio esclamare “Okay Goo Goo!” e forse un giorno un robot mi sostituirà la mitrale.
Quindi, distrattamente, apro Facebook.
La pagina “I 1000 quadri più belli di tutti i tempi” ha appena caricato un quadro di Cézanne: I giocatori di carte. Noto che anche tu - ragazzo del passato di cui ho perso le tracce - hai cliccato “mi piace”. Lo guardo e non posso dire niente. Mi fa male sapere che piaccia anche a te. Incasso in silenzio anche questa informazione. E mi fa male non poter cliccare su un punto interrogativo grande almeno quanto quel maledetto pollice in alto, su un grosso punto interrogativo che ti chieda tanto per sapere: “E perché, dimmi, perchè ti piace? Per esempio, a me questi due mi ricordano che devo respirare”.
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