05/09/19

Il fegato


di Cristina Taliento


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(No.3/No.13, Mark Rothko, 1949, MoMA, New York)


La comunità di quel piccolo paese asseriva di sapere esattamente cosa passasse per la testa del vecchio John: che era un vecchio pazzo accasciato dalle delusioni e dagli anni, incline ai vizi tra i più temuti dalla società, dedito ad alcol, spaccio, erba buona, meno buona, scrittore da strapazzo, eccetera eccetera. Non era vero. 

Andai a fargli visita una sera di settembre. Le campane della chiesa accanto alla casa dove vivevo avevano suonato all’impazzata per tutto il pomeriggio, con cadenze prima allegre, poi da funerale, allegre, da funerale. Mi ero affacciata più volte alla finestra. Prendendomi appena un terzo dell’audacia socialmente consentita a una donna della mia età, avevo chiesto con solerzia cosa diavolo stesse accadendo. Mi era stato risposto da un passante: “Il giubileo!”. Contrariata, divertita e sconfitta, avevo allineato i fogli dei miei appunti, avevo sbarrato con una penna le pagine; contenta era invece la mia mancata ispirazione. Non se ne sarebbe fatto più niente.
Così, come dicevo, andai a fargli visita. La prima cosa che mi disse quando mi vide fu: “ho una ferita sotto al piede, quattro centimetri almeno!”. “Non sono mica il tuo medico”. “Sia ringraziato il cielo”. Non aveva proprio nulla.
La seconda cosa che mi disse fu: “Stai scrivendo, vero?”. Risposi: “Un po’ si, un po’ no, ho avuto da fare”. 
Mi guardò con sguardo severo come spesso si addiceva a un maestro.  Mi chiese: “Che cosa è per te la letteratura”.
Risi, gli dissi che la cosa non rientrava tra i miei pensieri elaborati nell’ultimo periodo e a dirla tutta nell’ultima vita, che non mi occupavo di evanescente pulviscolo filosofico preferendo di gran lunga a questo un -si sperava- duraturo soggiorno nelle liete lande dell’argentea Scienza!

 Alzò gli occhi al cielo. “Trovo limitante che tu debba a tutti costi sentire così forte questo sentimento del bivio. Come se una mente dovesse per forza amputarsi delle parti, come se due piante non potessero crescere nello stesso vaso”.
“Ma tant’è” risposi alzando le spalle.
Nella stanza c’erano libri dappertutto, accatastati per terra, sulle mensole, dentro il camino spento. Su un tavolino di legno il vecchio aveva usato un bollitore come vaso per dei girasoli.
“Che cosa è per te la letteratura” ripetè quindi mentre versava dei croccantini nella ciotola per il suo gatto Bob.
“Non lo so, il desiderio primordiale dell’uomo di comunicare all’altro i propri bisogni, necessità, paure?”
“Questa è veramente una risposta da scuola elementare” asserì accarezzando il gatto.  “Comunicare, vedi… lo facciamo continuamente. Il mondo è pieno di parole, fluttuano nelle strade, dritte come fili piombati, a zig zag, in salita, in discesa, parole ovunque, parole in equilibrio sulle spalline di giacche sartoriali, parole appese ai pali della luce, sospese e diradate nel grigio cielo prima del temporale. La letteratura, mia cara, non sono le parole. Quello si chiama cicaleggiare
Continuava a mancare di rispetto alla vita vera, alla lingua parlata. Incrociai le braccia.
“La letteratura è il resoconto sul nulla, fatterelli, fattacci, nobili fatti che ci narriamo da secoli per aiutarci a vicenda, per imparare a superare questa cosa, qualunque cosa sia”.

Dissi risentita: “Non esistono risposte assolute a domande aperte”.
Così gli raccontai di quella volta in cui il mio professore di Medicina Interna mi chiese al letto del paziente, davanti a tutti gli altri studenti, la definizione di "fegato".
Io avevo risposto sicura di me: “un organo parenchimatoso deputato a svolgere funzioni esocrine ed endocrine…”.
 Lui mi aveva guardato con occhi di ghiaccio e molto lentamente mi aveva detto: “Niente affatto”. Ci avrei scommesso.
Aveva poi aggiunto: “Il fegato è una ghiandola che produce albumina”. La cosa mi aveva sbalordita. Devo ancora farmela scendere. Non esistono definizioni assolute per sistemi complessi. 

Lo sapevano tutti che né per la letteratura né per il fegato sarebbe andata bene una sola semplice definizione.