14/02/10

Memorie di un cane sentimentale- II cap.

di Cristina Taliento

(Light street and Whatvas, Baltimore MD)

Maryland-Nella primavera del 1949 il mio corpo assomigliava ad una ruota di bicicletta: le dimensioni erano circa quelle ed ogni tendine e muscolo apparivano così visibili da sotto il sottile strato pelo da farmi sembrare uno scheletrico complesso di raggi e bulloni. Ero un giovane cane randagio che girava nelle vie con la lingua penzolante e godevo alla vista di bottiglie di birra non ancora finite. Di notte mi avvicinavo con le orecchie basse all'entrata dei locali dove ogni sera si suonava il Jazz, mi fermavo a guardare la gente che beveva e batteva le mani con furia. Pensavo che erano tutti matti ed io, se proprio volete saperlo, mi sentivo l'essere più idiota fra tutti. Non sapevo molto sulla mia razza, ignoravo del tutto il nome di mia madre, decidevo la mia meta giorno per giorno, non mi importava di aver conferma di essere un bastardo, non mi importava un bel niente. L'unica verità mi scorreva nel sangue e nei brividi: ero un pazzo cane idiota e questo mi faceva sentire il padrone di Baltimore. Ma, non ridete... alla faccia vostra, lo ero davvero.
Tutti gli altri cani mi ammiravano perché vedevano nei miei occhi la libertà e con libertà, ragazzi miei, non intendo la semplice indipendenza da padroni (soprattutto da quelle vecchiette bisbetiche che ci considerano come accessori da sfoggiare al parco, che schifo!), ma qui sto parlando di libertà mentale, un dono innato che se uno, facciamo per dire, non ce l'ha...beh, può togliersi dalla mente di comprarlo al mercatino. Quelli erano gli anni del crimine, gli anni dell'attenti al cane e la mia specie non faceva altro che abbaiare ai passanti in cambio di un ciotola con il loro nome da carcerati. Allocchi. Io, invece, camminavo disinvolto per i grandi marciapiedi di Baltimore Street senza nessuna catena al collo, mi divertivo a rubare hot-dog dalle mani di bambini viziati e lo facevo solo per il gusto di essere rincorso dai loro genitori. Correvo con il vento a favore e me la ridevo a denti stretti, altrimenti il cibo mi sarebbe caduto dalla bocca. Non ero legato da nessuno e niente si prendeva gioco di me: non il vento, nè i padroni o le mie stesse paure e mancanze. E preferivo essere morto piuttosto di vivere la mia vita con uno stupido appellativo scelto da un umano. Il mio nome me l'ero dato io stesso, un anno dopo la mia nascita, in una di quelle notti di vagabondaggio.
Mi trovavo in un vicolo dove l'illuminazione era del tutto assente e quella notte non c'erano nè la luna nè le stelle. Si, insomma, camminavo alla cieca fidandomi solo dell'olfatto e, ogni volta che sentivo l'odore dell' alcol, mi fermavo a bere quelle poche gocce sull'asfalto. Ero convinto di essere da solo quando all'improvviso, dietro di me, qualcuno lanciò una bottiglia di vetro e mi avrebbe preso -mi avrebbe preso in pieno, dico- se non fosse stato per quella sfacciata fortuna che mi accompagna dalla nascita. Quel qualcuno aveva un piccola torcia e me la puntò sul muso senza il minimo rispetto. Sbattei più volte le palpebre e abbaiai confuso.

Mi gridò: "ffvei un figlio di buona donna, manica di basffvtardo! Vattene via, lurido ffvacco di pulci, brutto moffvtro nero. Io ti... Io..." Cadde a terra. Era ubriaco quel povero diavolo. Me ne tornai nel locale del Jazz, ma non smisi di pensare all'uomo e a come mi aveva chiamato "brutto moffvtro nero"... mi piaceva. Mi piaceva un sacco. Il mio colore di pelo era stata la prima cosa che avevo notato del mio aspetto e forse la prima cosa che mi era venuta in mente sotto la luce del neon era proprio quella: "brutto moffvtro". Pensai che come nome poteva andare bene. Di sicuro era meglio di Bobby o Rex. "Che nomi da cani sfigati - mi dicevo - aspettate di conoscere Brutto Moffvtro, razza di rimbecilliti".

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