27/02/10

Memorie di un cane sentimentale - VI cap.

di Cristina Taliento


(Schizzo a penna, Dinnerc 11/2/08)
1952.Maryland, Baltimore- Lisa non era come tutte le altre femmine del quartiere e questo fu una delle tante constatazioni che mi vennero in testa, tutte in una volta, quando la vidi in Federal Hill Park. Lei era diversa, i suoi occhi erano diversi... liberi, come volevo che fossero i miei. Fin dai tempi del Vicolo mi ero ritrovato a lottare contro i pregiudizi degli altri cani di razza, ma ciò che mi tormentava di più era il mio stesso sguardo critico e scrutatore. Sapevo di essere un gran cane coraggioso, onesto, coerente eccetera eccetera, ma mi sentivo comunque un maledetto cane bastardo, un figlio di nessuno, uno scherzo della natura. Eppure anche se una parte di me pensava questo, c'era un'altra parte, quella più lucida, che mi diceva di camminare sempre a testa alta perché quello che contava veramente non stava tanto nell' essere catalogati in un inutile libro di zoologia animale con una razza pura di appartenenza, ma nel continuare a vivere il mondo come a cavallo di una stella. E Lisa, sola contro tutti, aveva scelto di vivere così. Si faceva spazio tra le schiere di rottweiler famelici e, che ci crediate o no, quei cagnacci da galera avevano paura di lei e della sua diversità. Ogni cane al mondo ha paura del diverso, che il diverso sia un altro cane con altre idee o una nuova scatola di croccantini. Questa, amici, è, nel bene e nel male, una santa verità. Discutibile, ma reale. E Lisa, anche se conosceva questo strano andare delle cose del mondo, si opponeva con tutte le sue forze a rinnegare la sua diversità perché, come diceva sempre, "gli altri, se li lasci fare, ti mangiano tutto quello che hai dentro e di te non rimane altro che una carcassa da dare in pasto gli avvoltoi". Ripeteva sempre questo concetto con gli avvoltoi e gli altri che ti mangiano dentro.


Si dava continuamente arie da dura e ciò suscitava i commenti più volgari degli altri cani, abituati a vedere le cagnette come piccoli batuffoli di pelo pulito con cui accoppiarsi ogni volta che faceva loro comodo. Lisa non tollerò mai che qualcuno potesse disporre di lei e questo, principalmente, fu la causa dei suoi problemi.

Inizia a frequentarla poco tempo dopo e sembrava che anche a lei piacesse la mia compagnia. Con lei a fianco non mi sentivo poi così tanto il mondo contro, stava diventando la mia migliore amica. Lei aveva la testa più alzata della mia e gli occhi-mi pare di averlo già detto-gli occhi, erano in continua sfida con il mondo e questo mi portava ad ammirarla, prima di volerle bene. Ma lei non era come me... anzi, io non riuscivo ad essere come lei e capii che non ero alla sua altezza nei giorni che seguirono.

La sera andavamo sul Baltimore River a guardare le piccole onde arrivare e mi capitava di raccattare qualche bottiglia di birra non ancora finita. Lisa mi guardava mentre addentavo il collo della bottiglia e mi buttavo in gola l'intero contenuto tutto in una volta. Lei non beveva, diceva che "era libera da ogni genere di dipendenza, politica e fisica." Poi accadde tutto velocemente, come succedeva sempre quando c'era lei... velocemente. Non appena lanciai la bottiglia del fiume si avvicinò e mi baciò. Per me la faccenda fu talmente inaspettata, che le morsi il muso. Mi arrabbiai come un ubriaco a cui è stata tolta la bottiglia. Le dissi che non si sarebbe dovuta permettere e che non volevo vederla mai più. La chiamai "stupida cagna malata dalle tendenze ambigue".

La lasciai sulla riva del fiume e mi misi a correre come un dannato verso i vicoli della periferia. Ero infuriato con lei e con me stesso perché avevo capito che avevo paura di compromettermi. Un vigliacco, per dirla tutta.

Il giorno successivo stavo camminando per le vie del centro quando vidi un cerchio di cani con i denti puntati verso il centro. Mi avvicinai per vedere chi fosse la vittima e tra le gambe dei rottweil distinsi il pelo fulvo di Lisa. Lei mi vide, ma non riuscii a fare niente. Mi comportai come se non la conoscessi. Sotto i miei occhi indifferenti i cani iniziarono a picchiarla mentre gridavano "adesso ti comporterai come una femmina" e altre frasi di questo genere. Ero immobilizzato nella grettezza del mio animo e mai, negli anni a venire, mi schifai tanto di me stesso come quella volta.

Me ne andai.

Era come se uno di quei grossi treni di ferro che venivano dal Sud fosse passato sul mio cuore. E un po' il mio dolore mi compiaceva perché alleviava i sensi di colpa che mi dilaniavano. Mi ritrovai da solo nel Vicolo e lasciai che il buio mi inghiotisse per sempre. E nel buio piangevo e, di tanto in tanto, abbaiavo un forte e disperato "Lisa".

24/02/10

Memorie di un cane sentimentale - V cap.

di Cristina Taliento



(River View of Baltimore)

Maryland-1950. Dicono che un attimo prima di morire, negli ultimi quattro battiti di cuore, si vedano chiare e veloci le immagini di una vita intera. A volte mi chiedo se sia vero e cosa mai riuscirò a vedere io, mente insana di cane bastardo. "Un bel niente" mi rispondo sempre, ma rimane la curiosità di scoprire le scene della mia stessa esistenza che hanno lasciato una specie di marchio con il fuoco. Sapete, sento spesso mormorare di quella strana roba che gli uomini chiamano "inconscio". Dicono che lì si accumulano i desideri e pensieri dell'animo umano che all'improvviso spuntano fuori nei sogni. Anche se sono un cane, di cui nessuno ha mai studiato la patetica mente, posso dire la mia opinione: fandonie. Gli uomini non sono mai attenti a niente, affrontano la realtà con lo stesso sguardo vuoto che assumono davanti alla televisione e non c'è da meravigliarsi se non hanno il possesso dei loro miseri ricordi. Per questo motivo, cari amici, ho sempre diffidato della razza umana. Mi faccio troppo prendere dalle convinzioni, mi direte. Bene, accetto ciò che pensate, ma sappiate che il mio torcicollo è dovuto al fatto che sto sempre a girare la testa, ad allungarla, a stirarla indietro, avanti, giù, su, per non perdermi niente di quello che succede. La maggioranza degli uomini no, non notano mai niente se qualcuno più in gamba non si prende la santa briga di indicare col dito e allora, solo allora, fanno un cenno buffo con la testa per dire che hanno capito.


Per questa ragione non credo nel concetto umano dell' "inconscio", come lo chiamano loro. Io sono padrone di quello che mi accade e tutto quello che provo, che ho provato in passato, è inciso nella mia mente e posso andare a leggerlo tutte le volte che mi gira. Adesso posso decidere di parlarvi del 1950, ma se lo volete posso passare al 1978 e arrivare fino ad oggi. Sono fortemente incuriosito dall'immagine della mia vita, voglio dire... se dovessi scegliere una scena, un pezzo di pellicola spezzata della mia storia, mi piacerebbe sapere quale dovrei ritagliare. Ho nella testa un sacco di momenti: Geremia che sta per catturare una mosca con la lingua, il vicolo dove sono stato abbandonato, la stazione dei treni in Baltimore Street, la luna piena di Novembre, le bottiglie di whisky sulla strada, il fulmine che colpì la quercia... no, aspettate, ho trovato. Questa è la più bella diapositiva della mia vita, un fermo immagine che continua a far scendere una lacrima da questi stupidi occhi di cane moribondo: la prima volta che guardai Lisa.


Io non lo so se in quei 4 secondi prima di morire vedrò qualcosa, ma se mai ci sarà qualcosa io posso scommetterci la santissima coda che sarà su quest'immagine che chiuderò per sempre gli occhi.


Era stata lei a travolgermi mentre ero nelle aiuole del parco. Come vi ho già detto, a quel tempo, avevo una grande autostima di me stesso. Quando lei mi colpì, involontariamente, fu come se mi avessero tirato uno schiaffo nel sonno. Anzi, fu molto peggio. Avevo il mondo sotto le mie zampe, sorriso da randagio irresponsabile e felici orecchie sempre drizzate.


All'inizio la odiai, lei era stata la prima a sfiorarmi, a mancarmi di rispetto. Era la randagia più maleducata tra tutti i cani del quartiere, una maledetta stracciona. La stracciona più bella che, con coraggio, addentò il mio impavido cuore di cane bastardo.

22/02/10

Memorie di un cane sentimentale- IV cap.

di Cristina Taliento


(view from Federal Hill, Baltimore)
Maryland, Baltimore-1950. Non sono mai stato visitato da un veterinario in vita mia, ma se adesso, proprio in questo momento, mi dovessi stendere su uno di quei lettini infernali, state pur certi - state pur certi, vi dico - che dalla bocca del dottorino uscirebbe la parola "artrosi canina" o un'altra barzelletta simile. Mi fanno male le ossa, ma noi cani non siamo come gli uomini, neanche per idea, e non vedo perchè dobbiamo essere visitati come bistecche di carne che ancora respirano. Tutto questo mi fa vomitare. Il tempo passa per ogni buon figlio di questo mondo e se voi, amici miei, sapete dare una degna spiegazione alla stupida mania umana di "allungare il tempo della vita" non vi resta che comunicarla. Ogni cosa ha una durata diversa e non siamo noi a decidere per quanto tempo dobbiamo esistere. Vi giuro che, quando questi quattro stecchi delle mie gambe finiranno di reggersi dritti, me ne andrò sotto l'ombra di un salice piangente e guarderò per l'ultima volta il sole. E penso che sarò anche piuttosto rilassato, se mi permettete. Così come ha fatto il mio sconosciuto padre e il mio ancora più sconosciuto nonno. E la faccenda si chiude qui. Non c'è altro da dire. Per il resto, sono sempre stato dell'idea che uomini e cani debbano vivere ognuno per i fatti suoi perché s'illudono continuamente di essere amici e poi finiscono per soffrire per le troppe differenze. Friedrich Nietsche, un filosofo di cui conosco poco, diceva che "le convinzioni più delle bugie sono nemiche pericolose della verità". Il vecchio Fred, se ci pensate bene, aveva ragione da vendere, ma è facile dirlo adesso. L'ho capito a mie spese, tanti anni fa, che questa mia avversione per i rapporti cane-uomo era solo una convinzione. Ho appena detto che lo penso ancora, ma adesso, mentre sono sull'erba a scrutare le nuvole, mi chiedo cosa sarebbe cambiato se non fossi stato così scontroso nei confronti dell'umanità.

Avete ragione, lo so cosa state pensando, sono un cane che è arrivato a destinazione e si chiede, come chi è arrivato a destinazione, cosa sarebbe successo se nella sua vita avesse fatto quello o quell'altro. Patetico, lo so. Eppure le nuvole mi fanno quest'effetto: nei loro contorni distinguo draghi ed enormi balene volanti, ma le cose che vedo più nitide di tutto il resto sono i rimpianti e la sagoma di una ragazzina di nome Lisa. Commuovetevi pure, facce di bronzo.

Quella volta mi divertivo a scavare nelle aiuole di Federal Hill Park e mi stavo divertendo un mondo a dissotterare fiori sotto lo sguardo minaccioso di una vecchina che lavorarava a maglia a pochi passi da me. La stavo indispettendo e questo bastava a colmare di gioia quel cuore
da disgraziato che avevo. All'epoca, infatti, l'unico modo per smettere di pensare a me stesso era pensare agli altri, ma non in quel modo sdolcinato che credete voi. Pensare agli altri per me significava stuzzicarli e mettercela tutta per farli arrabbiare. Insomma, quella volta ero lì che "pensavo agli altri" quando all'improvviso, non ricordo esattamente come sia successo, un'ombra mi oscurò e, prima ancora che me ne potessi rendere conto, qualcuno mi travolse, mi pestò la coda e mi premette le orecchie sulla terra. Credevo di essere morto! Sentivo il sangue alla testa ed un dolore lancinante all'altezza della coda. Non pensavo, non riuscivo a valutare nessuna possibilità di fuga. Era come se il mio corpo si fosse arreso di botto. L'unica cosa che aspettavo era il colpo di grazia. Uno... due... tre... perché non mi facevano fuori subito? Niente. Spostai l'orecchio dall'occhio semichiuso e tutto quello che vidi fu una ragazzina che correva come una dannata, inseguita da un uomo in divisa. Ormai era molto lontana da me ed io ero disteso come uno scemo, da solo per giunta, ad aspettare tealtralmente il colpo di grazia. Subito realizzai che mi avevano travolto per sbaglio e un po' mi sentii offeso da quella situazione. Io, travolto per sbaglio? Da una ragazzina, poi. "Che storia..." mi pare che pensai.

21/02/10

Memorie di un cane sentimentale - III cap

di Cristina Taliento




Maryland, 1950- Quella volta eravamo: io, l'uccello più matto di Baltimore ed un vecchio gatto cattolico. Penso che non riuscirò a ricordare il nome dell'uccello nemmeno con tutta la volontà di questo buono mondo, ma, vedete, la forza di un individuo non sta nel nome, cari ragazzi. Apro una piccola parentesi per raccontarvi di un certo Virgulento Jhonson. Tutti i cani del quartiere lo dipingevano come uno dei quadrupedi più feroci degli Stati Uniti d'America, capace di stendere un puma delle Montagne Rocciose. Andavano camminando con questo nome in bocca: "Virgulento Jhonson". E non la finivano più di dire "Virgulento" tanto che, ben presto, divenne un specie di sostantivo convenzionale, "Ehi, la smetti di fare il virgulento?", "ed ecco il virgulento di turno". Ma un giorno, mentre correvo verso la stazione con la testa girata all'indietro, mi scontrai con un chihuahua un po' suonanto che abbaiava ai passanti. Gli domandai il perchè del suo continuo abbaiare e quello mi rispose che lo faceva perchè aveva fame. Rubai per lui un hot-dog e, mentre se lo mangiava, gli chiesi distratto il nome e lui mi rispose con una bella vocina che ancora ricordo: "Virgulento Johson, amico". Mi feci una bella risata silenziosa, ma, oltre il divertimento che ne trassi dalla faccenda, capii che non è il nome a fare l'individuo. Questo insegnamento me lo portai per tutta la mia vita a quattro zampe ed è giusto che lo sappiate anche voi. Quindi valuterete che non è importante sapere il nome dell'uccello più matto di Baltimore. Lui era l'uccello più matto di Baltimore, tanto basta. Il vecchio gatto cattolico, invece, si chiamava Geremia. Questo nome me lo ricordo bene perchè quando lo pronunciò per la prima volta lo fece in modo strano, con una erre che sembrava una elle. "Piacele, Gelemia" mi disse. E questo non potrò mai scordarlo.
Geremia e l'uccello erano due amici che avevano strade diverse da proseguire, ma si erano ritrovati per caso e, siccome, si erano stancati di stare soli, avevano deciso di passare un pezzo di vita insieme. Geremia era miope (non ci vedeva davvero niente, quel poveretto) e la sua missione, come la chiamava lui, era quella di "diffondere il cattolicesimo nelle fastidiose strade di Baltimore-City, dove regnava la perdizione". Si intratteneva con i gatti e con i cani per parlare delle Sacre Scritture, ma per via della forte miopia, non si accorgeva che quelli se ne erano andati già da un pezzo e continuava a gesticolare e ad alzare il sopracciglio convinto che ci fosse un silenzioso interlocutore ad ascoltarlo. Ma Geremia non ci faceva caso e non si arrendeva mai, non si aspettava di convertire nessuno e, quando una volta accadde, con un bassotto un po' malaticcio, lo vidi gioire in un modo che mi lasciò sbalordito. Si mise a cantare "We wish you a Merry Christmas" e, ve lo giuro, eravamo in Giugno. Geremia era un Grande che passava inosservato, ma questo lo sapevamo solo io e l'uccello più matto di Baltimore, anche se lui faceva tutto per non dimostrarlo. Per il resto lo consideravano tutti come un vecchio cieco un po' suonato.
L'uccello, invece, non era del Maryland. Anzi, non faceva che ripetere di odiare tutto quello che aveva a che vedere con l'America in generale e ringraziava sua madre per averlo fatto nascere nelle isole Galapagos. "Eh allora cosa diavolo ci sei venuto a fare qui?" gli chiesi, una volta. "Ma come, amico, io mi sono perso!"
Il vecchio uccello non era poi così vecchio... aveva vissuto soltanto 7 stagioni, ma durante le migrazioni aveva sviluppato un principio di saggezza davvero commovente. Eppure era un piccolo dormiglione che se non lo svegliavi poteva rimanere a dormire per più di due giorni consecutivi. Era questa la ragione del suo smarrimento. Non si era accorto che lo stormo aveva ripreso il volo e, al risveglio, si era ritovato da solo in una terra sconosciuta. Ma non si era disperato, no... non era nel suo stile. Si era messo a rincorrere l'American Dream di cui tutti parlavano per vedere di cavarci qualcosa di bello, ma tutto quello che aveva trovato era un gatto miope di nome Geremia. L'uccello, allora, non era ancora pazzo, ma iniziava a diventarlo e questo lo rendeva unico. Pazzamente unico.

14/02/10

Memorie di un cane sentimentale- II cap.

di Cristina Taliento

(Light street and Whatvas, Baltimore MD)

Maryland-Nella primavera del 1949 il mio corpo assomigliava ad una ruota di bicicletta: le dimensioni erano circa quelle ed ogni tendine e muscolo apparivano così visibili da sotto il sottile strato pelo da farmi sembrare uno scheletrico complesso di raggi e bulloni. Ero un giovane cane randagio che girava nelle vie con la lingua penzolante e godevo alla vista di bottiglie di birra non ancora finite. Di notte mi avvicinavo con le orecchie basse all'entrata dei locali dove ogni sera si suonava il Jazz, mi fermavo a guardare la gente che beveva e batteva le mani con furia. Pensavo che erano tutti matti ed io, se proprio volete saperlo, mi sentivo l'essere più idiota fra tutti. Non sapevo molto sulla mia razza, ignoravo del tutto il nome di mia madre, decidevo la mia meta giorno per giorno, non mi importava di aver conferma di essere un bastardo, non mi importava un bel niente. L'unica verità mi scorreva nel sangue e nei brividi: ero un pazzo cane idiota e questo mi faceva sentire il padrone di Baltimore. Ma, non ridete... alla faccia vostra, lo ero davvero.
Tutti gli altri cani mi ammiravano perché vedevano nei miei occhi la libertà e con libertà, ragazzi miei, non intendo la semplice indipendenza da padroni (soprattutto da quelle vecchiette bisbetiche che ci considerano come accessori da sfoggiare al parco, che schifo!), ma qui sto parlando di libertà mentale, un dono innato che se uno, facciamo per dire, non ce l'ha...beh, può togliersi dalla mente di comprarlo al mercatino. Quelli erano gli anni del crimine, gli anni dell'attenti al cane e la mia specie non faceva altro che abbaiare ai passanti in cambio di un ciotola con il loro nome da carcerati. Allocchi. Io, invece, camminavo disinvolto per i grandi marciapiedi di Baltimore Street senza nessuna catena al collo, mi divertivo a rubare hot-dog dalle mani di bambini viziati e lo facevo solo per il gusto di essere rincorso dai loro genitori. Correvo con il vento a favore e me la ridevo a denti stretti, altrimenti il cibo mi sarebbe caduto dalla bocca. Non ero legato da nessuno e niente si prendeva gioco di me: non il vento, nè i padroni o le mie stesse paure e mancanze. E preferivo essere morto piuttosto di vivere la mia vita con uno stupido appellativo scelto da un umano. Il mio nome me l'ero dato io stesso, un anno dopo la mia nascita, in una di quelle notti di vagabondaggio.
Mi trovavo in un vicolo dove l'illuminazione era del tutto assente e quella notte non c'erano nè la luna nè le stelle. Si, insomma, camminavo alla cieca fidandomi solo dell'olfatto e, ogni volta che sentivo l'odore dell' alcol, mi fermavo a bere quelle poche gocce sull'asfalto. Ero convinto di essere da solo quando all'improvviso, dietro di me, qualcuno lanciò una bottiglia di vetro e mi avrebbe preso -mi avrebbe preso in pieno, dico- se non fosse stato per quella sfacciata fortuna che mi accompagna dalla nascita. Quel qualcuno aveva un piccola torcia e me la puntò sul muso senza il minimo rispetto. Sbattei più volte le palpebre e abbaiai confuso.

Mi gridò: "ffvei un figlio di buona donna, manica di basffvtardo! Vattene via, lurido ffvacco di pulci, brutto moffvtro nero. Io ti... Io..." Cadde a terra. Era ubriaco quel povero diavolo. Me ne tornai nel locale del Jazz, ma non smisi di pensare all'uomo e a come mi aveva chiamato "brutto moffvtro nero"... mi piaceva. Mi piaceva un sacco. Il mio colore di pelo era stata la prima cosa che avevo notato del mio aspetto e forse la prima cosa che mi era venuta in mente sotto la luce del neon era proprio quella: "brutto moffvtro". Pensai che come nome poteva andare bene. Di sicuro era meglio di Bobby o Rex. "Che nomi da cani sfigati - mi dicevo - aspettate di conoscere Brutto Moffvtro, razza di rimbecilliti".

10/02/10

Memorie di un cane sentimentale. I cap.

di Cristina Taliento



(Baltimore-Street, 1923)

1948-Maryland. Il primo ricordo della mia vita è l'immagine di una luce giallognola che dondola nella metà di un filo elettrico. Ero stato fermo in quel vicolo di Baltimore per una settimana e avevo scambiato quella lampadina per mia madre. I primi due giorni ero rimasto a fissarla dal basso, rimanendo fermo ad ascoltare in estatico silenzio quel meraviglioso ronzio che produceva; il nome che le avevo dato, infatti, era molto simile a quel suono, Zzzzuuur. Ma il terzo giorno capii che dovevo sforzarmi a comunicare con l'unico essere che avevo accanto, così sciolsi le mie quattro zampe da quel nodo che non avevo ancora sbrogliato e feci un verso strano, simile quasi allo starnuto di un gatto. Quella è stata la prima volta in cui ho capito che ero dotato di una voce e che esistevo. Zzzzuuur mi guardava dall'alto immobile e, sebbene mi sentissi un po' imbarazzato, mi sforzai di riprodurre un altro verso perché ero terribilmente intenzionato ad attirare la sua attenzione. Sotto la sua debole luce mi accorsi di non essere diverso dal buio: ero nero come l'inchiostro, un piccola ombra animata che ruotava gli occhi in cerca di qualcosa. Ma cosa esattamente, non sapevo dirlo. Lasciai il vicolo quando capii che Zzzzuuur non volava come le mosche, non lanciava le bottiglie contro i muri come alcuni uomini ubriachi di passaggio e, soprattutto, non abbaiava. E io, invece, lo facevo eccome, soprattutto di notte. Abbaiavo alla luna come un dannato e continuavo per ore, ostinato, fino a quando non si spalancavano le finestre e ne uscivano canne da fucile. Ripensandoci non so perché lo facessi... forse perché la luna mi ricordava la mia Zzzzuuur, una bella lampadina al neon, oppure avevo solo voglia di prendermela con qualcuno. Ero venuto al mondo da randagio e, anche se non me lo aveva mai detto nessuno in modo chiaro e pulito, lo sapevo che sarei rimasto così fino alla fine dei miei giorni. E in quella convinzione mi aggiravo nella periferia di Baltimore popolata da droga, whisky e crimine.

06/02/10

La sinistra che vorrei

di Cristina Taliento

Non inizierò questo pezzo ricopiando la definizione di "utopia" dal vocabolario, non mi azzarderò a scrivere il significato di una parola che per lungo tempo mi ha tormentata. Sono al mondo da un sesto di secolo circa; un periodo breve che non mi consente di parlare come quei "gran signori" a cui, con il dovuto rispetto, non aspiro, ma le mie orecchie hanno ascoltato per il tempo necessario a scatenare in me una serie di riflessioni. Riflessioni che non si pongono un obiettivo preciso, rifiutano di "aggiustarsi" e piegarsi a precedenti idee, viaggiano, invece, indipendenti, libere, e si svincolano agili tra le bugie.

Tutto quello che è "utopia" non è. Non è mai stato.
Quello dell'utopia è un concetto strano, troppo meschino, facile e, alle volte, noioso. Assomiglia al fulmineo riflesso di una farfalla che vola sul fiume: non potrai mai giurare che non si sia trattato soltanto di una leggera increspatura delle onde.
Penso che ciò che sfugge non possa essere rincorso, che si tratti dell' amore o di un'utopia politica. Io ho sempre creduto nella perseveranza, nell'immane volontà necessaria e indispensabile al raggiungimento di un ideale, ma mentre si insegue qualcosa il tempo scorre lo stesso. Non si stoppa con il palmo della mano la grande sveglia della storia. Il suo ticchettio continua e la gente balla su di esso. Nessun time-out o tempo di recupero, qui si continua a giocare, per chi non l'avesse capito. Una sinistra che non c'è e finge di esserci, un Paese nelle mani di una maggioranza che, sebbene faccia acqua da parecchi buchi, non viene contrastata dall'opposizione. Io credo che la colpa sia proprio di quella maledetta parola, "utopia", dal giorno che è entrata nelle nostre inesperte bocche da sognatori. Non sono i sogni a scarseggiare. Noi abbiamo fame di iniziative. INIZIATIVE. Piani e strategie concrete, compattezza, interesse, ascolto, rispetto per il Paese e, soprattutto, rispetto per l'intelligenza di coloro che questo Paese lo abitano e, malgrado tutto, continuano ad amarlo.
La politica, per risultare credibile, deve entrare in perfetta sinergia con la società e con l'ambiente in cui nasce e cresce. Il lavoro di rintagliare pezzi di quotidiani stranieri e attaccarli sui nostri è inutile e va a coprire, invece, le vere parole della nostra storia nazionale attuale, se mai qualcuno le abbia scritte con la dovuta coerenza.

04/02/10

Autostop americano con Sal

di Cristina Taliento

Un' ombra sull'asfalto di un pollice alzato verso il cielo. Trentacinque gradi di fuoco sotto la camicia del ragazzo e una macchina che si accosta su quella dannata interminabile strada americana.

"Dove?"
"Lei dove sta andando?"
"Los Angeles, amico"
"Ma quanti anni hai? Sicura di avere la patente?"
"Sedici compiuti e a guidare mi ha insegnato mio nonno. Allora sali?"
"Va bene"
"Senti, non voglio perdere tempo. Io ti conosco. Sei il personaggio di un libro che ho letto e sono venuta fino in America a cercarti. Avevo voglia di parlare con te."
"Non dovresti leggere quella roba... soprattutto alla tua età. Quanti anni hai detto?"
"Sedici, Sal"
"Ok, conosci il mio nome... Sono già infastidito."
"Oh non esserlo! Avanti, Sal! In confronto a te non sono nessuno. Non sono io ad aver girato l'America on the road!"
"Come ti chiami?"
"Cristina"
"Che nome strano"
"Voi personaggi dei libri americani dite tutti così. Se una povera ragazza non si chiama Marylou, Betty o Lee-Ann la scartate come un... oh, che diavolo ne so, non so giocare a carte."
"Sono 2 anni che faccio l'autostop e non mi è mai capitata una persona così strana"
"Non darmi meriti che non mi appartengono. Non sono nè strana nè niente. A volte sono anche... banale. Scontata."
"Vorrei un po' sonnecchiare se non ti dispiace. Ho viaggiato molto e, sarò sincero, non mi va di stare a sentire una ragazzina che non ha ancora la patente."
"Si, in effetti, non ce l'ho. Ma ho la carta dello Studente del Ministero della Pubblica Istruzione. "
"Che cavolo... è vero che la macchina è tua, ma se continui così ti supplico di farmi scendere! Starei meglio anche a viaggiare in un camion pieno di letame."
"Dai... non sto dicendo niente! Adesso sto zitta"
"Dio ti ringrazio"


"Che mi devi chiedere"
"E' una domanda? Ma non dovevo stare zitta?"
"Avanti, fammi queste domande. Se è vero che hai attraversato l'Oceano per parlare con me chi sono io per impedirtelo?"
"In teoria, avresti tutto il diritto di.."
"Ok, come vuoi. Buonanotte."
"No, no, no... aspetta."
"Hai tre secondi per formulare questa fottuta domanda"
"Eh... era una cosa che aveva a che vedere con un capitolo dell'inizio... quando ti svegli in quella squallida camera d'albergo e per 15 secondi non sai di essere te... cioè... quando ti senti un fantasma e compagnia bella e hai detto che è stato allora che hai capito che la tua vita sarebbe cambiata."
"Si ho capito. Vai avanti."
" Mi chiedevo se ti è piaciuto, cioè...se hai avuto paura."
"Paura? Che diamine... no! Non sapevo quello che mi stava succedendo, ma paura un bel corno!"
"Cioè... non hai avuto paura di cambiare?"
"La pianti di dire cioè? Sembri una pecora che...bee-cioè-beee-cioè"
"Scusa"
"Comunque la paura c'è sempre... Cristina, giusto?"
"Si... ma prima avevi detto...paura un bel corno."
"Si dicono tante cose e ricordati di non credere mai a nessuno che ti dice di non aver avuto paura"
"Sai... cambiare strada è una cosa seria... Le strade fanno sempre brutti scherzi e adesso, a sedici anni, mi capita di trovarmi davanti ad un bivio quasi tutti i giorni."
"Credo che capiti a tutti... ad ogni età. Non siete solo voi, benedetti adolescenti, a trovarvi davanti a delle scelte. Prendi me, ti sembro un lattante come te?"
"Sembri uno che sa dove andare anche se stai andando a Los Angeles alla cieca"
"Ti sei data la risposta da sola, Kristen"
"Kristen? Che schifo... Ma che risposta?"
"Non sei poi così intelligente ragazzina. La morale della fiaba è che uno può sentirsi sempre nella giusta direzione anche se questa non rientra in quel percorso che avevamo tracciato con il pennarello rosso sulla cartina."
"Basta crederci? Soltanto tutto qui?"
"Bisogna crederci sempre, in tutto quello che ti salta in mente di fare, in ogni strada, deserto, che vuoi percorrere. Ma oltre la strada, aldilà della fine della strada, dove il grigio dell'asfalto si mescola con il cielo, è lì che devi metterci un po' di cose"
"Un po' di cose?"
"Devi metterci l'entusiasmo, un po' d'aspettative, qualche dubbio e una buona dose di coraggio. Fede, mettici fede, serve sempre... e non dimenticare un litro di wisky per il viaggio. Ma tutte queste cose non ti serviranno ad bel niente se pensando alla meta non senti il cuore che ti batte a mille ed ogni singola cellula del tuo corpo che ti incoraggia a partire."
"Accidenti, Sal"
"Che c'è?"
"Accidenti, amico... Mi hai commossa. Il tuo discorso è vero quanto è vero che ti amo"
"Adesso non esagerare... voi adolescenti non state con il cuore in pace se non mollate un ti amo così, senza motivo"
"Aaaaa-aaah hai ragione, Sal! Comunque io non bevo wisky!"

"Già... hai solo sedici anni. Ehm... scendo qui... voglio pranzare con calma e ripartirò con un altro passaggio."
"Grazie per aver risposto alla mia domanda. Non dimenticherò quello che hai detto"
"Buona fortuna...ehm...Cristina"
"Ci vediamo... amico."

La macchina si rimise in strada e come in quella canzone di Francesco de Gregori "me ne andai che ero un poco più saggio con tre soldi di dubbio e tre di coraggio".