01/05/11

Realismo isterico

di Cristina Taliento






(E.L. Kirchner, Strada a Berlino, 1914)







Guardava nel vuoto di una grande città attraverso i fumi e i cancri che uscivano dalle finestre grigie degli edifici nascosti dietro altri edifici sbarrati da impalcature e reti e cartelli gialli. I raggi di un sole artificiale scintillavano sulle scritte enormi che gridavano al mondo la loro esistenza e l'uomo camminava dritto con la valigetta nella mano come l'altro uomo avanti a lui, come gli altri dieci uomini dietro le sue spalle dritte, come i quattro milioni dai volti scuri che ogni mattina scendevano le scale della metropolitana e alla sera tornavano tra le luci nevrotiche dei loro pensieri. Premeva il tasto dell'ascensore non riuscendosi più a liberare dalla moltitudine di motivetti pubblicitari che avevano infestato la sua testa e, stanco sebbene appena sveglio, decideva che il tentativo di opporsi a quella nebbia non aveva motivo di essere perché quello era il suo Primo Mondo meritato e la valigetta che stringeva ne era la prova. Si sedeva alla scrivania in perfetto orario e sullo schermo del computer dei tubi virtuali dai colori acidi riempivano lo spazio chiuso velocemente come ragnatele. L'uomo toccò il mouse uguale a quello di tutti gli altri dipendenti dislocati a dozzine sui piani del grattacielo. I tubi virtuali scomparvero e lui riprese quel lavoro meccanico che forse non aveva mai interrotto il giorno prima continuando a rimurginarci seppure inconsciamente durante la cena, la notte, la colazione.





Si svegliò. Si alzò.





Gli occhi vuoti, la camicia stirata, gli occhiali sul naso, eccolo scendere confuso le scale, uscire dal gigante di cemento, andare alla stazione, fare il biglietto, sedersi, controllare la fermata, guardare nervoso dal finestrino, grattarsi lo zigomo, sistemarsi gli occhiali, battere la mano sul ginocchio, controllare l'ora, accertarsi della fermata per la seconda volta, sedersi ancora, grattarsi il dorso della mano senza provare prurito, incrociare le braccia, consegnare il biglietto, ringraziare, chiedere per la fermata, aspettare, sorridere come un tic. Sorridere come un tic. Sorridere come un tic. Tic. Tic. Tic. Tic. Trentasette ore dopo, una folla di gente lo spinse fuori dal treno. Abbandonò la cravatta sul sedile e prese a camminare sempre più lentamente in un posto immobile della sua memoria. Iniziò a cercare qualcuno che assomigliasse a lui, uno di quei tre milioni uguali a lui. Non lo trovò. Per qualche minuto credette di essere morto e udì per l'ultima volta il suono squillante delle pubblicità televisive. Poi strisciò sui gomiti fino ad arrivare alla spiaggia. Continuò a strisciare sulla sabbia gialla fino a quando non vi fu che sabbia celeste e notò che in quella sabbia celeste si poteva sprofondare. Per lui era come strisciare in litri e litri di quelle bevande celesti che quei tre milioni uguali a lui bevevano nelle palestre. Quindi decise di dare un sorso e quell'acqua salata scese nel suo stomaco, andò a disinfettare il cervello, uscì dagli occhi, s'infiltrò nei vasi sanguigni, si mescolò con la sua memoria ed egli capì che quella sabbia celeste era il mare. Iniziò a piangere.

3 commenti:

Adriano Maini ha detto...

Tristissima. Ma sono i tempi!

Il Ballo dei Flamenchi ha detto...

andrò a vivere nei boschi, vivendo di caccia e bacche selvatiche

Milo ha detto...

Wow! (...non pensavo che qualcun altro lo sapesse! Vero! L'acqua di mare può infiltrarsi nei vasi sanguigni e disinfettare il cervello. Poi la faccenda potrebbe anche evolvere in una dipendenza da NaCl inconsueta e soverchiante! Congratulations al protagonista della storia!)

:) :) :)