Una specie di racconto di Cristina Taliento
(by Helene Delmaire) |
Una volta io e il matto Genda (pittore e scrittore) andammo a un concerto del signor Effe. Genda passava quel periodo in cui non parlava molto. Mio nonno, suo amico da una vita, mi aveva chiesto di andarlo a trovare, per portargli le stecche di cioccolata, le sigarette, i calzini nuovi e la Gazzetta dello Sport. Così ogni volta mi sedevo accanto al suo camino spento a fissare la calce bianca, la bianca calce bianca senza wifi, senza niente, senza nemmeno una cicca da masticare.
"Ehi" diceva ogni tanto.
"Ehi" rispondevo io dall'oltretomba.
"E insomma" faceva girando la pagina del giornale. Quel fruscio risuonava fino al soffitto, alto soffitto.
"E insomma" sbuffavo con statica aria
antipatica poco poetica molto patetica.
"Il gatto ti ha mangiato la lingua?".
"Si, è così" e se non fosse stato anziano, avrei detto è dannatamente così.
Però poi lo dicevo: "è davvero dannatamente così" dicevo. E il gatto, il più delle volte, era proprio a un metro da me, vicino la porta che mi guardava immobile. Gli facevo un cenno col capo.
Quelle strane conversazioni duravano poco, in fondo, poiché erano intervallate da lunghi silenzi in cui entrambi pensavamo a delle soluzioni per problemi semi-esistenziali sulla realtà delle cose. Problemi comunque abbastanza diversi dato che io, a quanto sembrava, avevo tutta la vita davanti e lui, al contrario, stava morendo. Inoltre, non potevamo parlare perché ascoltavamo con una certa attenzione gli stupefacenti discorsi della signora russa del piano di sopra. Era come una specie di telenovela che seguivamo con finto disinteresse sorridendo di tanto intanto ad ogni "oh Manuel occhi dolci te prego".
Lo trascinai al concerto del signor Effe dopo aver cercato di spiegargli in modo semplice cosa volesse significare "paziente affetto da BPCO". E siccome non ero stata brava con la lezioncina e nemmeno volevo tirare in ballo il sistema immunitario davanti a quegli occhi stanchi e incacchiati, decisi che ci avrei riprovato dopo il concerto.
Il signor Effe era stato un cantautore di carattere riservato soprattutto fino al compimento dei Sessanta anni, superati i quali aveva deciso di vendersi l'anima al Diavolo con la contentezza di tutti i suoi più giovani fans che ora potevano seguirlo nei salotti tv, nelle radio, in streaming e in tutti quei posti divano-dotati dove egli amava sedersi a discutere con distacco del suo distaccato distacco verso questo mondo distante. È chiaro che io l'avevo frainteso, presa com'ero a fraintendere sempre tutto e tutti. D'altronde ciascuno aveva una propria interpretazione delle sue canzoni e io avevo la mia. In realtà il motivo era solo uno sciocco risentimento per quella volta che gli gridai: "Lei è semplicemente il mio idolo". E lui non si girò. Mi sentì e non si girò. Me la presi, com'era poi giusto che fosse, evitando di ascoltare altre sue canzoni, costatando con una certa delusione il successo che stava accumulando negli ultimi anni di suo, con permesso, sputtanamento.
Erano gli anni in cui crescevo e il signor Effe si perdeva nella nebbia della sua peggiore parte di sé, quella autoreferenziale, principesca e acclamata dai più. Negli stessi anni Genda vedeva avanzare la sua broncopneumopatia cronica ostruttiva, anno con anno, sigaretta dopo sigaretta. Io prendevo l'autobus tutte le mattine, mi divincolavo tra la folla della mia generazione. Genda, le mattine, leggeva il suo giornale fino alle undici e trenta, poi usciva a dar da mangiare a tutti i cani randagi della zona. Nel frattempo, il signor Effe partecipava a qualche varietà radiofonico dei miei stivali dove discuteva amabilmente del suo nuovo disco e io che, a ricreazione, ascoltavo contrariata ogni sua parola con attenzione, storcevo la bocca delusa e arrabbiata e così faceva pure Genda che arrivava alle mie stesse conclusioni sentendo quelle idiozie dalla radio del bar in cui era entrato per prendere un bicchiere di gin.
Io, Genda e il signor Effe non avevamo niente in comune, a parte il caratteraccio. Però ci ritrovammo tutti e tre in quel vecchio teatro comunale dove si teneva il suo trecentomilionesimo concerto.
Sul biglietto non c'era il numero del posto e io volli sedermi nell'ultima fila. Per ripicca.
Arrivò un ragazzo della mia età. Ci salutò. Mi disse che era un assaggiatore d'aceto. "D'aceto?" risi. Io dissi che scrivevo canzoni e poi mi spiegò che assaggiare l'aceto era una cosa importante per la qualità del prodotto, che c'era in ballo una roba tipo duecentomila assaggi all' anno e che la garanzia, il tutto era molto importante. Perbacco. E io che scrivevo canzoni... lascia stare.
"È il miglior aceto balsamico del mondo" disse.
"Nessuno lo mette in dubbio, ragazzo" disse Genda da vero anziano.
La stanza si riempì, ma era come se fosse ancora vuota. I fari illuminarono il signor Effe che, con quella nuova astuzia, aveva messo in scaletta la mia canzone preferita. Ex canzone preferita. Genda lo sentivo muoversi sulla sedia in cerca di una posizione comoda. Comunque, presto, silenziai anche quel rumore.
Le persone attorno a me si stavano dissolvendo. Effe cantava e tutto spariva. Io dall'ultima fila al buio, con una rosa in mano, stavo ferma al mio posto. Piangere non era possibile. Morire meno che mai e poi mai.
Ero andata volontariamente nella tana del drago pagando per giunta il biglietto per sentirmi cantare canzoni che mi spiattellavano in faccia me stessa.
"Mi conosci solo da cinque minuti" avrei voluto dire. "Che cosa ne sai".
Mi alzai. Era troppo. Genda anche non vedeva l'ora di andarsene. Lascia stare.
Tieni, eccoti il biglietto. Ti lascio tutto qui su questa poltroncina a forma di fiore. Ce ne andiamo. Lascia stare.
4 commenti:
Cara Cristina, oggi sono qui solo per augurarti un buon 25 aprile che ricorda la liberazione!!!
Tomaso
Ciao Tom!! Buon 25 aprile, ora e sempre Resistenza ;)
confesso che questa volta mi sono alquanto persa
Già, anch'io :)
mmm :/
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