(Untitled 39, Ben Olson, oil on canvas)
Ci hanno detto che le cime sono destinate a rimanere in solitudine, in mezzo alla gente eppure sempre un po' tristi e sole nelle loro magnifiche auree, spalle intoccabili, lunghi sguardi. Ci hanno detto che il nostro posto nel mondo non era il mondo, in fondo, ma le stelle e l'infinito perché eravamo troppo sensibili, brillavamo, perché vedevamo molto, ci stupivamo, perché ci innamoravamo delle mani degli altri dietro i nostri elmi di guerrieri smarriti. E poi siamo scappati da questo destino, ci siamo lavati di dosso la dannata grandezza, abbiamo battuto il pugno sulle porte che avevamo chiuso, abbiamo guardato arrabbiati per ore il piedistallo su cui siamo stati per anni e l'abbiamo odiato. Ci siamo abbassati, ricoperti di fango e pioggia nella sera respirando affannosamente ai semafori, respirando come iene senza correre, senza nemmeno alzare il passo, soltanto stando fermi. Abbiamo finalmente smesso di sentire così forte, di vedere così dentro. Volevamo solo ballare nella folla ed essere folla, essere passanti sui marciapiedi, nient'alto che signori passeggeri, signori telespettatori, cari ragazzi facenti parte della categoria studenti del primo anno, lettori, cavie da esperimenti, numeri, lettere, codici a barre. All'improvviso gli scrigni segreti riempiti di nostri sentimenti, di ricordi preziosi e poesie, di delicati centrini fatti a mano, di fiori lasciati insecchire tra le pagine dei libri, all'improvviso, tutti questi vecchi tesori ci sono sembrati gioielleria di plastica, inutili patacche del mercato delle pulci. Seduti al tavolo della cucina, soli, all'ora di cena, abbiamo pianto davanti i nostri piatti di pasta, osservando da fuori il nostro sgomento, incapaci di trovare una diagnosi o tutt'al più strafottenti nel sentire le ragioni, nauseati dalla nostra filosofia. Ci siamo alzati, ma in realtà, volevamo farci piccoli, confondere le nostre voci, smettere di stupire, di ingannare. Volevamo parlare la lingua degli altri facendo cadere in disuso la nostra antica lingua dell'immaginazione perchè volevamo, io credo, vivere con l'umanità, con loro e dire le loro frasi al posto di quelle che non potevano essere capite e ancora, bere le loro birre, accarezzare i loro capelli, cantare le canzoni che passavano i dj della radio e muoversi su questo ritmo, su questo tempo, dimenticando il nostro, giurando 'questa volta per sempre'. E quando noi abbiamo urlato a pieni polmoni, quando abbiamo scritto parole brevi su lenzuoli smessi, ci hanno risposto tutto normale, che erano i vent'anni, gli istinti, l'inquietudine, la santa voglia di afferrare tutto, di vivere tutto. Ci dissero, e qui sbagliavano, che volevamo fermare il Tempo perché ne eravamo spaventati; terrorizzati, dissero. Ma il fatto era che noi- noi che lasciavamo passare i treni senza ostacolare le estinzioni delle specie, noi che amavamo la breve vita di un fiore o quella di una farfalla- proprio come treni, volevamo passare, passare una volta sola, ma passare bene e passare fino in fondo, fischiando come matti a luci accese nella notte.
9 commenti:
Cara Cristina, la vita è bella e bisogna saperla vivere come piace.
Ciao e buona domenica, amica.
Tomaso
Ciao e grazie :) Buona domenica anche a lei
Vertiginosamente bella la frase conclusiva!
Un abbraccio.
Ciao scrittore! grazie per la visita
Siccome sono rimasta abbastanza disorientata dalla grande ed amara verità contenuta in questo pezzo, facciamo come feisbuc: metto mi piace e ci rifletto un po'.
Bacio
bacio :*
Mi ci rivedo.
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