di Cristina Taliento
(Primi fiori, Francesco Fanelli, 1899, olio su tela, 180x237)
Se sapessi ancora scrivere,
potrebbe darsi che scriverei della sorellina. Ma ormai, peccato, non ne sono
più capace. Scrivere, intendo. Non ci riesco più. La pagina bianca è così
grandiosa, in fondo. Il bianco è la potenzialità del tutto, la neve, l’albume,
Moby Dick. Non scrivere niente può farti sentire come un’immensa pianura
illuminata dall’alba. “Il vuoto, infatti, è sempre stato pienissimo” se ne esce
dicendo il mio alter ego da sopra il giornale della domenica. La mancanza
d’ispirazione e l’allontanarsi delle idee allargano il campo di questo vuoto
che mi assomiglia a quello dell’Universo. Meno c’è, più c’è; proprio come in uno
di quei paradossi alla Sir Henry Wotton. Le parole, le opinioni tolgono via via
lo spazio, lo dividono, lo fanno diventare qualcosa di specifico. Una storia sarà sempre una storia sola, ma una pagina bianca… oh… in
una pagina bianca ci sono tutte le storie del mondo. Soltanto che non si
leggono. Si respirano.
Tuttavia, se sapessi ancora
prendere la penna in mano, mi verrebbe da scrivere di questa bambina di sette
anni un po’ matta. Non se se inizierei con una descrizione. Probabilmente, per
non perdermi nei particolari, inventerei sul colore degli occhi perché sarebbe
più semplice. Voglio dire che nella realtà è più complicato, cioè i suoi occhi
sono complicati. Da quando è nata, alcuni dicono siano blu notte, altri verde
petrolio. Anche grigi, chissà. E in lei non c’è niente di facile da descrivere,
comunque. Poi, io ho smesso di provare a modellare le frasi per incartare le
rose perché ho riempito il cestino di fogli senz’anima ed è meglio se li uso
per bilanciare reazioni, calcolare le moli o disegnare gabbiani sugli angoli.
La scrittura, come l’amore, non si può rincorrere a lungo. A un certo punto è
meglio se ti siedi. La mia panchina è una di quelle del parco. Quelle dove ti
passano davanti le carrozzine e i bambini che si spintonano con una mano mentre
con l’altra stringono un gelato o un supereroe di plastica. Da questa postazione
di vita leggera ho pensato alla sorellina e mi sono dispiaciuta di non saper
più scrivere perché sarebbe bello raccontare di lei, dei suoi gattini che vuole
farmi accarezzare, dei suoi capelli che sono sempre più lunghi ogni volta che
la rivedo. Inventare personaggi è facile; sono le persone vere ad essere così
tante cose in una sola. Bisogna essere davvero dei maestri per farne dei
ritratti e io… io voglio fare il medico.
Per questi fatti e per queste
ragioni, ogni parola scritta non riuscirà mai a tracciare i veri contorni della
sorellina, ma si dice che quando
sentiamo la mancanza di qualcuno ritorniamo a cercare la cura del vuoto in
quelle cose che un tempo erano piene. E come riempivano i miei silenzi quel
ticchettare di falangi slegate sulla tastiera!
Così, durante le vacanze di Pasqua,
quando sono tornata a casa, mi è venuta l’idea di andare a prenderla all’uscita
di scuola. Ho parcheggiato sul lato opposto al vecchio portone, sempre lo
stesso da generazioni. I suoi occhi mi hanno puntato subito. Bang. Ho fatto
ciao con la mano, ma le sue braccia mi erano già intorno al collo, tra i miei
capelli. La sua infanzia irruenta ha atterrato con un abbraccio improvviso la
compostezza riflessiva di una povera ragazza di vent’anni in camicia azzurrina,
con le spalle mantenute dritte da paure, dubbi, atti di fede e di forzato coraggio, tavole anatomiche
e tazze di caffè. Come una scema, ho detto piano:
“Come ti sei fatta grande”
Mi ha detto: “Non è possibile.
L’ultima volta che mi hai vista è stata un mese fa”.
“Un mese fa…” ho ripetuto
accarezzandole la testa.
“Lo sai che la gatta è incinta?”
“Oh…”.
“Ma non la gatta che hai capito
tu. L’altra. Quella tutta nera”.
“Ah si, l’altra…”
“Hai capito quale? Tu fai si si e
magari non ti stai ricordando”
“No…Si, ho capito” l’ho rassicurata
giocherellando con il suo braccialetto a perline bianche e verdi.
“E di che colore possono nascere
i gattini?” mi ha chiesto allontanando il braccio per riprendersi
l’attenzione.
“Beh, bisognerebbe vedere il
colore del padre, suppongo”
“Deve essere di sicuro quello
arancione” ha sospirato lei
“Si… allora, come vai a scuola?”
“Bene. Quindi, di che colore
possono nascere?”
“Anche a macchie per via del
corpo di Bahr del cromosoma X inattivato in modo casuale” ho risposto in automatico.
Chissà perché si è messa a ridere
forte. “Possono nascere tutti tutti neri?”
“Possibile… Mi dai un bacio?”
“Possono nascere tutti
arancioni?”. Non c'era verso di studiarla da ferma.
“Je ne sais pas. Nessuno lo sa!-
ho esclamato facendo la rima- Che bello quel braccialetto. Me lo regali?”
“No. Se nasce arancione lo chiamo
Garfield”
“Chi è Garfield?” ho chiesto per
divertirmi un po’.
“Come chi è Garfield? Quel gatto dei cartoni
animati che fanno su Boing. Non fare l’imbecille ”
“Non dire le parolacce
altrimenti, poi, le ripeto”
“Mica è una parolaccia. Cazzo è
una parolaccia.”
“Anche. Mettiti la cintura”
E poi si è girata per prendere la
cintura, ma mentre la faceva scorrere lentamente, mi guardava.
“Che c’è?” ho chiesto notando la
sua espressione.
“Sembri quasi la mamma”
“E’ per via della macchina” ho
risposto premendo i palmi sullo sterzo.
“No…” ha fatto lei scuotendo la
testa.
“Okay…” e non lo volevo sapere il
motivo.
“Un giorno voglio diventare come
te”.
“Sarà per questa camicia che ho
preso dal suo armadio”
“Un giorno sarò come te” ha
ripetuto pensando che prima non avessi sentito. Ma io avevo sentito, anche se
non avrei voluto.
“Non lo so veramente se è un grande affare” ho
pensato, alla fine, guardandola.
Però, poi, non ho detto niente perché mi
sono ricordata di quando anch’io volevo diventare come le ragazze del corso
superiore di danza, ma quelli sono pensieri che si dimenticano presto come una
farfalla che la pensi solo quando ti passa accanto e poi, dopo, noti altre
cose, altri alberi. Ho sorriso e ho messo in moto.
Quando sono ripartita, alcuni giorni dopo, sapevo che l'avrei rivista dopo gli esami. Piangeva per me. Si è tolta il braccialetto con le perline bianche e verdi e me l'ha dato e io ho pensato che fosse di vitale importanza accettarlo.
Ma potevo scriverla meglio sta storia.
4 commenti:
Breve riflessione sull'essere "come qualcuno". Reazione del destinatario: spettro emotivo che va dalla lusinga più sfrenata alla disperazione totale. Ogni sfumatura è consona e nessuna biasimabile. Non occuperò spazio in complimenti che tu, cocciuta come sei, liquideresti in mezzo secondo senza nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi che io sia seria: ti dico solo che, nel pieno rispetto sia della realtà che dei detti popolari, i bambini sono la bocca della verità ed hanno uno sguardo privo di tutti i filtri e le veneziane che l'esperienza, nel bene e nel male, ci regala. La sorellina ha visto qualcosa in te che probabilmente trascende la dimensione parentale, qualcosa che apprezza e che ritiene valga la pena possedere. E questo è un dono raro che non a tutti è concesso.
Love
Sarah
p.s. "nu te fa mutu la uappa" con le nozioni medico scientifiche.
Rilove
l'hai scritta come dovevi scriverla qui ed oggi, ché domani la gatta avrebbe fatto i gattini, tu non avresti rubato la camicia dall'armadio, lei ti avrebbe vista più somigliante a tuo padre.
Chimica ed anatomia pensano di riuscire ad arrugginire le penne, al limite riescono a mutare il colore dell'inchiostro
eheh... un po' birichina quell'ultima riga, che fa venir voglia di dire che invece l'hai scritta benissimo, magnificamente. Ma siccome è vero te lo dico lo stesso: questo pezzo mi è molto piaciuto, dall'inizio alla fine.
@sarah: chiamami sempre Wuappa e io ti chiamerò sempre Peppa e io sarò la tua wuappa e tu sarai la mia peppa e poi... AHAHAHAHA ! Grazie :,(
@Amy: parole sante :)
@Nicola: grazie mille :)
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