06/05/13

La sorellina


di Cristina Taliento

(Primi fiori, Francesco Fanelli, 1899, olio su tela, 180x237)

Se sapessi ancora scrivere, potrebbe darsi che scriverei della sorellina. Ma ormai, peccato, non ne sono più capace. Scrivere, intendo. Non ci riesco più. La pagina bianca è così grandiosa, in fondo. Il bianco è la potenzialità del tutto, la neve, l’albume, Moby Dick. Non scrivere niente può farti sentire come un’immensa pianura illuminata dall’alba. “Il vuoto, infatti, è sempre stato pienissimo” se ne esce dicendo il mio alter ego da sopra il giornale della domenica. La mancanza d’ispirazione e l’allontanarsi delle idee allargano il campo di questo vuoto che mi assomiglia a quello dell’Universo. Meno c’è, più c’è; proprio come in uno di quei paradossi alla Sir Henry Wotton. Le parole, le opinioni tolgono via via lo spazio, lo dividono, lo fanno diventare qualcosa di specifico. Una storia sarà sempre una storia sola, ma una pagina bianca… oh… in una pagina bianca ci sono tutte le storie del mondo. Soltanto che non si leggono. Si respirano.
Tuttavia, se sapessi ancora prendere la penna in mano, mi verrebbe da scrivere di questa bambina di sette anni un po’ matta. Non se se inizierei con una descrizione. Probabilmente, per non perdermi nei particolari, inventerei sul colore degli occhi perché sarebbe più semplice. Voglio dire che nella realtà è più complicato, cioè i suoi occhi sono complicati. Da quando è nata, alcuni dicono siano blu notte, altri verde petrolio. Anche grigi, chissà. E in lei non c’è niente di facile da descrivere, comunque. Poi, io ho smesso di provare a modellare le frasi per incartare le rose perché ho riempito il cestino di fogli senz’anima ed è meglio se li uso per bilanciare reazioni, calcolare le moli o disegnare gabbiani sugli angoli. La scrittura, come l’amore, non si può rincorrere a lungo. A un certo punto è meglio se ti siedi. La mia panchina è una di quelle del parco. Quelle dove ti passano davanti le carrozzine e i bambini che si spintonano con una mano mentre con l’altra stringono un gelato o un supereroe di plastica. Da questa postazione di vita leggera ho pensato alla sorellina e mi sono dispiaciuta di non saper più scrivere perché sarebbe bello raccontare di lei, dei suoi gattini che vuole farmi accarezzare, dei suoi capelli che sono sempre più lunghi ogni volta che la rivedo. Inventare personaggi è facile; sono le persone vere ad essere così tante cose in una sola. Bisogna essere davvero dei maestri per farne dei ritratti e io… io voglio fare il medico.
Per questi fatti e per queste ragioni, ogni parola scritta non riuscirà mai a tracciare i veri contorni della sorellina,  ma si dice che quando sentiamo la mancanza di qualcuno ritorniamo a cercare la cura del vuoto in quelle cose che un tempo erano piene. E come riempivano i miei silenzi quel ticchettare di falangi slegate sulla tastiera!
Così, durante le vacanze di Pasqua, quando sono tornata a casa, mi è venuta l’idea di andare a prenderla all’uscita di scuola. Ho parcheggiato sul lato opposto al vecchio portone, sempre lo stesso da generazioni. I suoi occhi mi hanno puntato subito. Bang. Ho fatto ciao con la mano, ma le sue braccia mi erano già intorno al collo, tra i miei capelli. La sua infanzia irruenta ha atterrato con un abbraccio improvviso la compostezza riflessiva di una povera ragazza di vent’anni in camicia azzurrina, con le spalle mantenute dritte da paure, dubbi, atti di fede e di forzato coraggio, tavole anatomiche e tazze di caffè. Come una scema, ho detto piano:
“Come ti sei fatta grande”
Mi ha detto: “Non è possibile. L’ultima volta che mi hai vista è stata un mese fa”.
“Un mese fa…” ho ripetuto accarezzandole la testa.
“Lo sai che la gatta è incinta?”
“Oh…”.
“Ma non la gatta che hai capito tu. L’altra. Quella tutta nera”.
“Ah si, l’altra…”
“Hai capito quale? Tu fai si si e magari non ti stai ricordando”
“No…Si, ho capito” l’ho rassicurata giocherellando con il suo braccialetto a perline bianche e verdi.
“E di che colore possono nascere i gattini?” mi ha chiesto allontanando il braccio per riprendersi l’attenzione.
“Beh, bisognerebbe vedere il colore del padre, suppongo”
“Deve essere di sicuro quello arancione” ha sospirato lei
“Si… allora, come vai a scuola?”
“Bene. Quindi, di che colore possono nascere?”
“Anche a macchie per via del corpo di Bahr del cromosoma X inattivato in modo casuale” ho risposto  in automatico.
Chissà perché si è messa a ridere forte. “Possono nascere tutti tutti neri?”
“Possibile… Mi dai un bacio?”
“Possono nascere tutti arancioni?”. Non c'era verso di studiarla da ferma.
“Je ne sais pas. Nessuno lo sa!- ho esclamato facendo la rima- Che bello quel braccialetto. Me lo regali?”
“No. Se nasce arancione lo chiamo Garfield”
“Chi è Garfield?” ho chiesto per divertirmi un po’.
 “Come chi è Garfield? Quel gatto dei cartoni animati che fanno su Boing. Non fare l’imbecille ”
“Non dire le parolacce altrimenti, poi, le ripeto”
“Mica è una parolaccia. Cazzo è una parolaccia.”
 “Anche. Mettiti la cintura”
E poi si è girata per prendere la cintura, ma mentre la faceva scorrere lentamente, mi guardava.
“Che c’è?” ho chiesto notando la sua espressione.
“Sembri quasi la mamma”
“E’ per via della macchina” ho risposto premendo i palmi sullo sterzo.
“No…” ha fatto lei scuotendo la testa.
“Okay…” e non lo volevo sapere il motivo.
“Un giorno voglio diventare come te”.
“Sarà per questa camicia che ho preso dal suo armadio”
“Un giorno sarò come te” ha ripetuto pensando che prima non avessi sentito. Ma io avevo sentito, anche se non avrei voluto.
 “Non lo so veramente se è un grande affare” ho pensato, alla fine, guardandola. 
Però, poi, non ho detto niente perché mi sono ricordata di quando anch’io volevo diventare come le ragazze del corso superiore di danza, ma quelli sono pensieri che si dimenticano presto come una farfalla che la pensi solo quando ti passa accanto e poi, dopo, noti altre cose, altri alberi. Ho sorriso e ho messo in moto. 

Quando sono ripartita, alcuni giorni dopo, sapevo che l'avrei rivista dopo gli esami. Piangeva per me. Si è tolta il braccialetto con le perline bianche e verdi e me l'ha dato e io ho pensato che fosse di vitale importanza accettarlo.

Ma potevo scriverla meglio sta storia. 

4 commenti:

Unknown ha detto...

Breve riflessione sull'essere "come qualcuno". Reazione del destinatario: spettro emotivo che va dalla lusinga più sfrenata alla disperazione totale. Ogni sfumatura è consona e nessuna biasimabile. Non occuperò spazio in complimenti che tu, cocciuta come sei, liquideresti in mezzo secondo senza nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi che io sia seria: ti dico solo che, nel pieno rispetto sia della realtà che dei detti popolari, i bambini sono la bocca della verità ed hanno uno sguardo privo di tutti i filtri e le veneziane che l'esperienza, nel bene e nel male, ci regala. La sorellina ha visto qualcosa in te che probabilmente trascende la dimensione parentale, qualcosa che apprezza e che ritiene valga la pena possedere. E questo è un dono raro che non a tutti è concesso.
Love
Sarah
p.s. "nu te fa mutu la uappa" con le nozioni medico scientifiche.
Rilove

amanda ha detto...

l'hai scritta come dovevi scriverla qui ed oggi, ché domani la gatta avrebbe fatto i gattini, tu non avresti rubato la camicia dall'armadio, lei ti avrebbe vista più somigliante a tuo padre.

Chimica ed anatomia pensano di riuscire ad arrugginire le penne, al limite riescono a mutare il colore dell'inchiostro

Zio Scriba ha detto...

eheh... un po' birichina quell'ultima riga, che fa venir voglia di dire che invece l'hai scritta benissimo, magnificamente. Ma siccome è vero te lo dico lo stesso: questo pezzo mi è molto piaciuto, dall'inizio alla fine.

Il Ballo dei Flamenchi ha detto...

@sarah: chiamami sempre Wuappa e io ti chiamerò sempre Peppa e io sarò la tua wuappa e tu sarai la mia peppa e poi... AHAHAHAHA ! Grazie :,(

@Amy: parole sante :)

@Nicola: grazie mille :)