Storia di una breve amicizia
di Cristina Taliento
(medium shot by Sofia Coppola)
Una delle più evolute forme di egoismo esistenti al mondo è il volontariato. Specie da quando gli psicologi si sono messi a consigliarlo in alternativa allo yoga. Molte persone sono convinte che si tratti di altruismo e senso civico, ma in certi casi è tutto il contrario, ovvero usare gli altri e i problemi degli altri per far stare meglio se stessi. Per noi era per lo più una questione di appartenenza al gruppo e per uscire insieme il sabato sera anche se, alle volte, ci toccava ricordare di non guidare a ventenni ubriachi appena usciti dal pub che ridevano sulle nostre facce serie o che piangevano davanti i nostri sorrisi imbarazzati. Scene che non avevo mai potuto soffrire. Perciò andavo a svolgere il mio turno di due ore al mese, necessario per mantenere attiva la qualifica, in una di quelle case di riposo addobbate come chiese. Non dovevo fare altro che giocare a scopa con gli altri volontari e qualche vecchietta di passaggio. Anche quella volta avevamo raggiunto la terza partita e sembravamo tutti felici così dissi una cosa stupida, come la maggior parte delle volte, dissi che lì c’era un bel calduccio e che probabilmente era per via dei nostri scambi di energia, semplice meccanica quantistica, niente di più. Nessuno ci badò, ma mentre davano le carte, mentre allungavo la mano per prenderle, notai degli occhi, al di là del tavolo, vicino la finestra; due occhi azzurri, solenni come iceberg, che facevano segno di avvicinarmi. Dissi, un momento e mi alzai. Alcune ossa sopra una sedia a rotelle e questi grandi occhi appoggiati sugli zigomi di un viso scarno. “Parlami- disse- della funzione di distribuzione di Planck e dei casi limite”. Non capii subito, ma poi pensai che forse era per quella frase che avevo sparato prima e dissi che non lo sapevo, anzi, a dire la verità, non ne avevo la più pallida idea. Intrecciò le dita sottili e sagge sul vestito e, senza gridare, incise parole di ferro in quell’aria stantia che sapeva di farmaci e incenso. Disse: “Soltanto gli sciocchi usano a sproposito concetti di cui non conoscono che il nome, di cui ignorano parte o, come presumo, gran parte dell’esistenza”. Annuii piano mentre un raggio di intelligenza attraversava le rughe della sua fronte ampia e si riversava nelle iridi per qui brillare ed espandersi. Tornai a giocare a scopa ed era il mio turno e per la confusione volevo prendere con il dieci di spade un sei più un cinque. Mi fecero no col dito.
Quando l’orologio suonò le sette, le vecchiette si alzarono per andare a dire il rosario in una stanza resa ancora più religiosa delle altre con il doppio delle statue e il triplo dei lumini rossi. Gli altri ragazzi del gruppo mi salutarono e se ne andarono perché il nostro turno era finito ed io presi il cappotto e nell’attesa che venisse qualcuno a prendermi mi sedetti su una robustissima sedia di legno con teste di angelo intagliate ai lati. Controllai il cellulare come un movimento meccanico. Poi alzai la testa e di nuovo quegli occhi. Seduta accanto alla finestra, respirava piano e mi studiava. Non mi meravigliai di non sentirmi porre le solite domande del tipo quanti ragazzi avessi tutti insieme. Feci un cenno con il mento per dire ehi, ma mi sembrò da maleducati e quindi aggiunsi:
“Lei non dice il rosario?”.
“Tu dai per scontato che io non sia atea. Vedi, è per questo modo di non porre il dubbio che c’è stato il Medioevo”.
“Lei insegnava, non è così?”
“Ed ecco che continui- disse con voce calma e sostenuta- Formuli affermazioni e dai loro un’intonazione di domanda. Mi chiedo… non otterresti più informazioni introducendo la frase con che cosa o perché?”. Poi sorrise e mi sembrò grande. Fu allora, proprio allora, che nacque l’amicizia.
Mi raccontò che aveva studiato biofisica e per un certo tempo aveva lavorato al King’s College collaborando con la Franklin. Risposi che a questa cosa, con tutto il dovuto rispetto, non ci avrei creduto nemmeno ad avere le prove, ma lei alzò le spalle e sospirò come presa da un ricordo lontano. Divenne per certi aspetti la mia Musa, l’incarnazione della vecchiaia, quello che la vita lascia e che, tuttavia, non riesce a togliere. Anticipai in un mese tutti i turni di volontariato previsti in due anni, anche se in realtà, non mi valevano nulla. Un giorno mi disse che per colpa sua non stavo studiando il pomeriggio ed io risposi che avevo imparato più con lei in un mese che in un anno di scuola e che non si doveva preoccupare perché io ero abbastanza egoista e se continuavo a venire a trovarla era più per il mio interesse che per il suo. Ma siccome lei insisteva, proposi di sfruttare il lato utilitaristico di quelle visite approfondendo la meccanica quantistica. Mi vedevano uscire per andare a trovarla e sentivo che dicevano tra loro: “Finalmente si è innamorata”. “Non ci posso credere”. “Sul serio credici, si è presa una cotta per una vecchietta di cento e passa anni”. E gli anni erano quelli, infatti: 103. Eppure certe volte mi sembrava che ne avessimo entrambe otto; quando per esempio le infermiere si entusiasmavano a spiegare i meccanismi dell’azione di un farmaco ripetendo quello che avevano letto chissà dove, lei, che sapeva tutto come nessuno altro, mi guardava per cercare il mio sguardo complice e ce la ridevamo senza che gli altri se ne accorgessero. La sera in cui fu portata all’ospedale mi chiamarono sul cellulare. Capii che sarebbe morta e per uno strano collegamento associai la fine di quell' amicizia con la fine dell’adolescenza.
Mentre era stesa sul letto ed io seduta a lato, indicò una borsa e mormorò: “Aprila”. “Okay”. “La tasca interna”. “Okay”. Era una foto. La riconobbi al centro, più giovane di mezzo secolo e più. Accanto a lei c’erano un uomo e una donna e li guardai. “Oh mio Dio…” fu quello che riuscii a dire. La sentii ridere piano come chi l’ha appena avuta vinta su qualcosa. E poi questa mia lacrima idiota cadde sulla fotografia, precisamente tra la spalla di Wilkins e quella della Franklin. Mi scusai, dissi che non meritavo di essere lì, ma lei non si arrabbiò e invece disse: “Raccontami perché sei triste”. Lei faceva sempre così: voleva che io usassi tutti i che cosa e i perché di questo mondo, ma mai una volta che fosse lei a porre delle domande. Sapeva sempre tutto. Allora dissi che una donna di scienza, senza offesa, non poteva saperne proprio un bel niente di quello che era accaduto in un solo minuto nel mio cervello e che probabilmente erano state violate un sacco di leggi fisiche eccetera. Anche questa volta non se la prese perché era troppo saggia e intelligente per offendersi e rispose: “Forse la fisica classica no, non potrà mai farlo, ma mi chiedo… che ne dici di considerare la meccanica quantistica?”
6 commenti:
Uno dei racconti più belli che abbia mai letto.
Ti ringrazio :)
Solitamente sono un po' più leggera e tento di buttarla sullo scherzo, ma questa volta non ho davvero parole. Intenso e leggiadro, agrodolce, un Giano bifronte tra passato e presente che mi ha lasciato col dubbio se sia totalmente fantasia o ci sia un pizzico di realtà. Spero più la seconda ipotesi, poiché mi farebbe riacquistare fiducia nell'umanità e, non ultima, nella senescenza che almeno per una volta non si vota ai rosari. È uno di quegli scritti che ti fa esalare un sospirone a metà tra il dispiaciuto e l'intenerito. Una delle tue magie più riuscite.
Un bacio immenso, tesoro. Posso prendere un pezzetto citandoti?
Io (me medesima)[Sarah] {che faighe le parentesi}
nuuuoooo le parentesi graffe, come le fai??? tre ore a contemplare la tastiera, non le trovo :)
Però ho trovato questo: §. E questo anche: €. Se mi dici come si fanno, io ti perdono l'esagerazione che hai scritto e ti concedo la citazione. Okay, qual è? Perchè la prima parte va dai 0.04 ai 0.07 centesimi, ma con il finale si sfiorano i... 0.13! Con autografo in omaggio, però! Comunque, siccome sei mia amica, facciamo che è gratis.
Ma che sto scrivendo?! Confido nel tuo senso dell'umorismo :)
Mi manchi
ha ragione lo Zio!
un saluto
L'ultimo dei neuroni ringrazia :)
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