(Ben Olson, Untitled 40)
Qualche volta, all'ora di cena, l'adolescente si sedeva sulle scale di marmo freddo e appoggiava i gomiti sul gradino dietro la schiena e ascoltava i loro discorsi lontani scanditi dai suoni sordi delle posate. Uno stuzzicadenti restava appeso alla bocca morta, la miopia e quelle voci familiari che salivano dalla cucina. Era per lui l'attimo della vita, la realizzazione della preziosa fragilità dell'essere giovane, la disperata calma di un giorno che passa. Pensò ai vecchi quando erano giovani, vestiti di verde con un fucile in mano. Suo nonno beveva l'orzo mentre tutti bevevano il caffè e aveva fatto la guerra in Russia. Raccontava sempre di un proiettile che gli aveva sfiorato l'orecchio."Figlio mio, devi avere più coraggio! Non sai quanto vale davvero la vita se un proiettile che sta per farti saltare in aria la testa, poi non te la fa saltare più da nessuna parte". Se il nonno fosse morto giovane lui non sarebbe nato e sua nonna si sarebbe sposata con un altro e allora al posto suo un nipote diverso si sarebbe seduto sui gradini a pensare a lui, lui, l'adolescente che, a quel punto, neanche esisteva. Pensò a Livia che cantava in inglese le canzoni della radio e si ricordò di quell'ultima volta che l'aveva salutato prima di partire. Vide di nuovo quella mano sospesa che non capiva e lentamente si chiudeva dietro il finestrino. Si accorse che stava piangendo e aveva freddo. Voleva essere più piccolo di qualche anno, con il viso imbrattato di lacrime e la mamma che gli accarezzava i capelli. Oppure essere quel tanto più grande da indurire la mascella e girare con fermezza le chiavi della macchina. Perché era triste? Era triste?
"Perché sei triste?" chiese il fantasma ora accanto a lui.
"Lasciami stare" disse nascondendo gli occhi dietro i polsi.
"Stai sempre a piangere. Ti devo chiamare Quel-povero-sfortunello, ma a che pensi?"
"A niente, vattene. Dai, sul serio, lasciami stare..."
"C'era un bambino ai miei tempi. Nessuno ha mai capito perché piangesse così tanto..." disse mentre gli dava un fazzoletto.
"Ma che me ne importa!" esclamò e si soffiò il naso.
"Perché sei triste?" chiese il fantasma ora accanto a lui.
"Lasciami stare" disse nascondendo gli occhi dietro i polsi.
"Stai sempre a piangere. Ti devo chiamare Quel-povero-sfortunello, ma a che pensi?"
"A niente, vattene. Dai, sul serio, lasciami stare..."
"C'era un bambino ai miei tempi. Nessuno ha mai capito perché piangesse così tanto..." disse mentre gli dava un fazzoletto.
"Ma che me ne importa!" esclamò e si soffiò il naso.
"Si chiamava Agostino ed era magro, magrissimo. All'epoca io ero un gran pallone gonfiato. Giravo in paese con la canottiera bianca e guardavo tutti come per avvertirli che se poco poco avessi voluto li avrei fregati tutti all'istante. E per questo non mi sono mai chiesto che avesse quello da piangere tanto. Però, per farla breve, ad averlo ora sotto mano, ora che, tu sai, ho fatto la guerra, ho figli e nipoti, sono invecchiato e tutto il resto, ora, lo prenderei sulle ginocchia e direi: figlio mio, devi avere più coraggio! Non sai quanto vale davvero la vita se un proiettile che sta per farti saltare in aria la testa, poi non te la fa saltare più da nessuna parte".
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