(Hiroshige Utagawa, 1797-1858)
Il treno arrivò, inghiottì la stazione; le ombre ritte sul binario quattro arretrarono d’un passo e si coprirono i lunghi nasi con i baveri delle giacche per non aspirare i vapori. Fiuuuuu strillò il treno. Crepa, idiota brontolò qualcuno. Una nuvola di gentaglia uscì dalle porte, tutti con gli occhi bassi, tutti santi criminali e mangiatori di carne. Bleah, che schifo il peccato, luridi bastardi- biascicava un barbone con un sorriso da cane- verrà un giorno, verrà un giorno… io dico, verrà un giorno. E in quella nebbia di pensieri comuni, propositi vani, ossessioni perverse, profumi sovrapposti ai fumi e alle bugie che inventavano di continuo i rossetti rossi e i baffi dei gentiluomini, Francesco si faceva strada con il suo bastone di legno, con il suo passo lento e rassegnato di chi ha smesso di bere per mancanza d’ispirazione. Tossì schermandosi la bocca con il manico della sua chitarra ed intanto andava dritto fra le occhiate della gente che dicevano “adesso sei un fallito come noi”. E se avesse avuto un attimo, un attimo soltanto per intonare una canzone forse avrebbe riposto a quelle occhiate con La ballata del successo oppure con Quando i lupi scesero a valle, ma la voce non gli bastava più neanche per dire “sto cercando Via fratelli Verri” e così stava zitto. Un artista senza fama che nelle tasche aveva le mani e non oro e non incenso, neppure un rimorso, nessuna idea, non un dilemma, una questione da risolvere, non un’isola da raggiungere. Neppure lei. Ma lei se n’era andata a sessantaquattro anni dopo una vita intera dietro un grembiule e Francesco all’inizio aveva aspettato con le mani appoggiate sui braccioli della poltrona. Poi aveva messo i suoi quattrocentotrent’anni dentro la custodia della vecchia Fender ed era andato a comprarsi un biglietto. “Per Roma” aveva detto piano.
In un altro tempo, in un altro spazio il giovane Cesco affilava le pietre che lanciava nel fiume. “Cesco, ci vieni al torneo di scacchi?”
“Si, ci vengo”
“Don Sebastiano però ha detto solo quattordicenni. Tu ce li hai quattordici anni? ”
“No, quattordici no…”
“Bella schifezza! Quanti ne hai?”
“Io, dodici”
"Oh... e com'è che non le prendi da quelli più grandi?”
"Mordo"
"Ah. Io vado"
Cesco annuì e rimase a guardare il fiume pensando che mai avrebbe avuto il coraggio di tuffarsi sul momento. Quindi, preso da uno spavento improvviso di restare un vigliacco a vita, indietreggiò di tre passi e si lanciò nell’acqua gelida pensando che se non l’avesse fatto sarebbe stato più gelido lo stesso. Auuuuuu gridò con la sua bella voce di rabbia. Auuuuuu gli rispose un pesce buffone da dentro l’acqua. Qualche ora più tardi camminava spavaldo con i vestiti inzuppati di fiume e le vecchie che uscivano dalla messa si davano il gomito e criticavano la presunta noncuranza di sua madre. Cesco fischiava; fischiava scontroso come un uragano. E al tramonto tornò a casa con un pacco di sigari nella giacca. Un pacco di sigari rubati a dodici anni. “Non fare il ribelle con me” aveva urlato sua madre. “Mamma, io parto domani” aveva risposto lui una settimana dopo. Sarebbe andato in cerca del cantautore Francesco. Aveva sentito che si esibiva in Via fratelli Verri. Forse se prendeva il treno poteva arrivare in tempo.
Intanto, il vecchio Francesco vagava per le vie senza che nessuno gli chiedesse un autografo o una fotografia. Doveva trovare il teatro dove avrebbe cantato come ai vecchi tempi, con gente che si abbeverava dalla sua musica. Trovò via Verri, il teatro. Aggiustò i fili sul palco, accordò la chitarra e guardò l’orologio. Era tardi… non sarebbe venuto nessuno.
Intanto Cesco corse a perdifiato fino alla fine della via. Poi si fermò davanti al teatro. Si tolse il cappello ed entrò lentamente, vergognoso. La platea era vuota, ma sul palco, un fascio di luce chiara illuminava un uomo anziano e la sua chitarra. Cesco smise di respirare e si sedette all’ultima fila buia. Quella musica provava l’esistenza di un’anima. Estasiato, colpito allo stomaco, quel piccolo animaletto ribelle si curvò dall’emozione. Un rivolo di lagrima scendeva sul volto del ragazzino e le manine sporche di terra tendevano verso il palco come per afferrare quelle note dolci di musicista stanco. Si sciolse la rabbia, si sciolse come gelati in mano ai bambini al tramonto. Francesco dal palco non si accorse mai del ragazzino, dell’effetto che aveva avuto su di lui. Tuttavia, se Francesco avesse notato l’animetta guarita tra le file di posti, avrebbe visto soltanto un mezzo adolescente nell’ombra e mai avrebbe pensato che quel Cesco non era che lui qualche giro di lancette indietro.
4 commenti:
Potrei parlarti per un giorno intero delle mille cose belle che ho visto dentro questo racconto, sia come significati che come scrittura, ma... ci sono delle volte in cui non si può fare altro che alzarsi ad applaudire.
Un abbraccio.
ahahah magari esce fuori che sono una potenziale omicida :)
ma io lo dico sempre che non c'entro in quello che scrivo. Pensa, mi sento io stessa intrusa dei miei racconti. Il che è un sollievo, alle volte :)
Il giusto distacco dell'artista dalla materia trattata ...
Molto bello, concordo con Zio Scriba! Io però ho la sfiga che quei pochi raccontini che ho scritto hanno sempre qualcosa di autobiografico :)
Ciao:)
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