23/05/20

Amnios

di Cristina Taliento


Ha iniziato a piovere a dirotto
mentre ero seduta in un bar senz’anima
persa a far discorsi in cui non mi riconoscevo
rigirandomi la saliera tra le mani
invero distratta dal pensiero
di stare sprecando il mio Tempo.

E ho detto che dovevo andare in bagno,
ma sono uscita in strada
in shorts e maglietta,
senza nemmeno mettermi addosso la felpa
o altre forme di prudenza
e ho messo la testa sotto quella pioggia torrenziale
di giugno, incessante, incisiva,
richiamata dalla necessità di
ritornare ad essere Il Niente
o, se non quello,
la bambina,
il feto nel suo liquido amniotico.

E sono rimasta lì,
come qualcuno che si è perso,
o come qualcuno che si è ritrovato,
con i miei capelli lunghi bagnati fradici,
in mezzo alle auto ferme con le quattro frecce
e i tergicristalli alla velocità del
mio cuore che batte.

Poi sono rientrata,
magicamente ero asciutta.
Tuttavia per scusarmi ho detto:
“La notte sogno il mare,
non voglio che spiova”.
Mi ha stupito la risposta
che prevedevo vuota,
invece hai detto:
“Tranquilla, conosco i tuoi oceani”.


18/04/20

I corpi dei danzatori

di Cristina Taliento



(Peter Moore, Performance view of Trisha Brown and Steve Paxton in Brown’s Trillium, Concert of Dance #4, January 30, 1963. © Barbara Moore/Licensed by VAGA, New York)


E i corpi smisero di incontrarsi,
arti inferiori sconnessi, lontani gli uni dagli altri.
Continuarono da soli i discorsi
iniziati insieme, poi lasciati a metà,
e tu danzando ti allontanavi
e io restavo in un teatro vuoto che si faceva sempre più buio,
mentre lì fuori grida di rondini libere
rendevano paradossale
il tuo, il nostro, distacco.

I corpi smisero di sentirsi,
annusarsi, sollevarsi,
provare quei loro pas-de-deux,
estendere i tricipiti attorno al collo,
dimenticarono il ricordo del movimento,
divennero arbusti isolati, rigide statue di marmo.

Smisero persino di sentirsi artisti,
tramutati nell’oggetto statico della paura,
l’immobilità,
un raggio di sole sull’addome,
sulla clavicola che da pietra angolare
divenne un osso, un osso soltanto.

E tu ti domandavi che senso avesse
riguardare i video dei vecchi spettacoli,
urlare le antiche glorie sul web,
dal momento che il vento era morto
e la tua danza non sarebbe esistita più.



12/04/20

Conosco un malato di Alzheimer - Poesie in quei quaranta e passa giorni in solitaria

di Cristina Taliento


Su NON IO di Filippo Robboni – Giuseppe Genna
(Filippo Robboni, dalla mostra "Non io", 2011, Osart Gallery, Milano)


Anni che perdo sempre qualcosa
qualcosa dentro la tasca,
dentro questo mio berretto,
  -...ah, eccolo, era qui! (dietro l'orecchio).

Anni che ti guardo, mi guardi
e non so da che parte iniziare.
Siedi zitta davanti a me,
poi ti scazzi, mi chiedi dove mi fa male.

"Non lo so!- penso arrabbiato- non lo so!
dannata estranea, mi vuoi lasciar stare?"

Ma prima di andartene,
dopo aver raccolto armi e bagagli
e hai già baciato di fretta tua madre
e tutto quello che dovevi dire l'hai detto,
mentre stai per aprire la porta di casa,
voltati verso di me,
benedetta ragazza con le mie stesse mani,
voltati anche questa volta,
e fammi un sorriso
perchè,
quando sorridi,

ho come
il solletico
di sapere
chi sei.



06/04/20

Disse laggiù c’è un temporale - Cose scritte dall’esilio

di Cristina Taliento


(Evening landscape, Emile Nolde, 1948)



Disse laggiù c’è un temporale.
Dissi sono miope non vedo.
Disse cura la vigna quando sarò partito.
Dissi ho cento milioni di cose da fare.
Disse non trovo la scatola delle mie medicine.
Dissi cosa avrò in cambio, vecchio?
Disse se ritrovo la vigna come l’ho lasciata avrai dieci fiaschi di vino da cinque litri.
Dissi cinque per dieci cinquanta.
Disse abbine cura, è l’unico modo per fare sul serio.
Dissi tanto prima o poi tornerai.
Disse laggiù c’è un temporale.

Avere cura, ero giovane, cercavo l’effimero, ma mi sembrò il senso di tutto, delle azioni, del perché del giorno, della pioggia, del campo.





28/03/20

Anastomosi - Poesie dall’esilio

di Cristina Taliento


Athier Mousawi | Fade and Float 9 (2019) | Available for Sale | Artsy
(Fade and Float, Athier Mousawi, 2019, Contemporary Art Platform, Kuwait)


L'anastomosi in chirurgia è l'abboccamento, dopo resezione, di due parti delle stesso viscere o di due visceri diversi.
Stoma in greco è la bocca.
L'anastomosi è l'aurora dell'intervento.
Prima o poi arrivi a quell'attimo.
C'è il taglio, il distacco, lo spento
c'è la connessione, il ritorno, lo splendore.
Due universi rivali che si sfiorano
come due bocche al loro primo bacio.


25/03/20

I poeti nella stanza

di Cristina Taliento



(Jeffrey Larson)



Sono morti i giornali. Sono morti Cohen, Reed e le nostre Parigi idealizzate. Le frasi scritte sui diari, l’amore cieco, le gonne di stoffa leggera.
Sono morti i nostri discorsi su Israele e Palestina.
Sono morti i racconti che scrivevo in piedi nel capanno degli attrezzi. Sei morto tu che li leggevi con voce solenne per poi scoppiare a ridere.
Sono morti Catullo, Orazio, Allen Ginsberg.
Sono morte le feste in maschera e il mio costume da aviatore giapponese. È morto il martedì grasso, il venerdì santo, i canti di messa.
Sono ingrassati i calciatori e tutti i guardalinee.
Sono morte le tavole anatomiche del Netter, le notti prima degli esami, gli alberi intorno al padiglione di Clinica Medica.
Sono morte le lune piene, i motorini e le strade che ci portavano al mare.
Sono morti i cuccioli di volpe che io e te avevamo trovato in campagna. I tuoi occhi felici per quella scoperta, sono morta io che ti tenevo ferma la torcia per vedere meglio nella tana.
Sono morti i lacci annodati intorno alle caviglie, i maglioni messi al contrario, i piercing sul sopracciglio, le trecce colorate e tutti i nostri tentativi di dire al mondo che eravamo liberi.
Più liberi. Ancora di più. Rispetto a cosa non lo so.
Non c’è più rumore.
Non c’è più chi suona la chitarra.
Tutti dormono nella noia di un futuro che sa di passato.
E cosi,
scrivo perché
sento che devo vegliare,
devo
restare
sveglia.


Io e gli altri poeti facciamo una videochiamata.
Non so nemmeno io perché mi sono connessa su Skype.
Leggo questa poesia.
Il critico di Autori Esordienti Oggi mi dice con un tono un po’ da rimprovero a tratti compassionevole: “dal tuo modo di scrivere traspare molta malinconia, ma non una nostalgia leggera, più che altro una tristezza pesante”.
Sorrido alla telecamera.
Sei, sette persone in collegamento.
Accidenti.
Nascondo l’ansia toccandomi per un attimo la fronte (vorrei morire).
Così dico e non mi viene proprio in mente nient’altro:
“Purtroppo la mia scrittura è sempre stata un po’ nostalgica e triste,
ma non credo che mi sarei espressa in altro modo”.



22/03/20

Quando finirà la guerra

di Cristina Taliento


(Europe after the rain, Max Ernst, 1942, Wadsworth Atheneum, Hartford, Connecticut) 


Quando finirà la guerra,
sarà una domenica mattina,
io starò bevendo il mio latte con i cereali
leggendo qualche articolo di giornale
con addosso quella vecchia camicia a quadri.
Alzerò il volume della tv
per ascoltare la notizia
e rimarrò seduta al tavolo della cucina,
da sola,
con un pugno di paglia al posto del cuore,
una lacrima sulla guancia,
le mie branchie di piccolo pesce da cui esce del sangue.

Quando finirà la guerra,
sarai in piedi, al centro del tuo corridoio vuoto,
con il tuo ultimo paziente
e avrai dimenticato la tua offerta migliore,
le rose che coltivavi sul balcone.
Un’ infermiera da lontano ti urlerà
che è finita la stramaledetta guerra
e tu rimarrai, da solo,
vestito come il primo uomo sulla Luna,
con una palla di stracci al posto del cuore,
la tua pinna di squalo giovane che perde sangue.

Quando finirà la guerra
non diremo niente,
non sapendo più come mettere in fila le parole.
Prenderò le chiavi della macchina
chiudendomi ad agio la porta alle spalle,
senza correre, senza ballare.
Ti passerò a prendere.
Salirai su,
sporcandomi il sedile con il sangue
che esce dalla tua pinna ferita,
con tutte le emozioni soffocate
nei nostri occhi pieni di morte.

Raggiungeremo la spiaggia.
Apriremo un pacchetto di caramelle alla fragola
che mangeremo annusando le onde.
E piangendo ti ricucirò con del filo da lenza
quell’enorme squarcio che ti hanno fatto
nella tua,
-che poi è anche un po’ la mia-
amata pinna.

E torneremo a stendere il telo sul sedile posteriore
al ritorno dal mare.

15/03/20

Preoccupazioni di Gi

               di Cristina Taliento




(The Hope of the World. William Kurulek,1965. oil on masonite, 69.2 x 76.8 cm. Private Collection)

Giaceva, questa volta, nel letto della sua abitazione. La sua defunta moglie lo guardava da dietro una cornice con uno sguardo di rimprovero che taceva quella famosa tanto odiata domanda: "Gi, che hai?".
"Non ho niente, lasciami in pace!" rispondeva burbero e soporoso a chi di preciso non si sa. Il gatto infastidito si voltava di profilo.

Delirava, teso e accaldato
arrampicato in mutande sulle pareti
di chissà che razza di stanza fosforescente della mente.
Francamente dispnoico,
febbrile,
solitario.
E quell'orribile vaso di cartapesta davanti alla sua vista,
persino in punto di morte.
"Quindi è così-pensava-
quindi è così che me vado...".
Ma non era un pensiero,
era al più il solletico
di un pensiero,
il solletico di giorni vissuti,
di pioggia incessante,
fette biscottate,
amore.

"Toglietemelo davanti!" esclamava nella sua testa. Tuttavia nella stanza non si udiva che un lamento.

Se la prese con me. "Non posso credere che poni fine alla vita del tuo più amato Personaggio facendolo crepare per mano di un virus!".
Alzai la testa dalla mia macchina da scrivere. "Prego?"
"Non per mano di un virus"disse tossendo.
"Non morirai, è solo un mio modo per esorcizzare la paura" dissi tornando a scrivere.
E aggiunsi guardando dalla finestra le nuvole: "Laggiù c'è un temporale".

02/03/20

Lo sciroppo per la tosse più altre medicazioni

di Cristina Taliento


tratto da alcuni appunti che scrissi nel 2016 


Il vecchio Genda erano anni che non si arrabbiava. Si mormorava in giro che avesse un "brutto brutto male" al polmone. Un male talmente maligno da provocargli una disfonia organica da deficit espiratorio. Quando mi arrivò questa voce dalle vecchie del paese ero arrampicata su una scala nell’intento di cambiare la lampadina del mio lampione da giardino.  Per poco non mi ribaltai dalle risate.  Io lo conoscevo, sapevo che era tutta una copertura.
Così andai da lui.
"Ehi signor Codardo!" lo chiamai ridendo con le mani in tasca. Eravamo vicini di scogliera. Lui aveva una casa di legno sulla roccia, una casa ancorata alla pietra come un nido di rondine, invece io passavo il mio tempo sotto, sulla spiaggia. 
Non lo andavo a trovare quasi mai perchè ero troppo concentrata sul mio freddo, organizzato, tranquillo lavoro. 
Freddo,
organizzato,
tranquillo lavoro. Organizzato,
freddo, tranquillo lavoro. Almeno, questo era quello che in realtà mi raccontavo. Nella realtà dei fatti invece mi teneva in vita una strana forma di ansia frenetica ed estenuante.
Avevo un cane, un pastore tedesco a cui davo da mangiare mentre pensavo ai cuori degli altri. Era una vita silenziosa, solitaria, immobile e alquanto impegnativa. 
Lo chiamai dal basso. Quel giorno pioveva. 
"Ehilà, vecchiooo! Cos'è sta storia che sei afono?".
Lui si affacciò alla finestra, alzò le spalle. Non disse niente. 
Aspettai qualche minuto. Per un attimo mi venne la paura che fosse tutto vero.
Alla fine, sbuffò e disse con la fronte tutta corrucciata: 
"Diobò, ragazza! Hai perso l'educazione? Che diavolo, per quel concorso per idioti che hai superato ti credi un vero dottore, tu?".
Mi misi a ridere, non sapendo che fare di diverso oltre che essere felice, per lui, i suoi dannati polmoni, per me e per tutti gli interessati e i non interessati.
Non aveva niente di analcolico da offrirmi e allora bevemmo un bicchiere di sciroppo per la tosse, io dissi che non chiedevo niente di meglio, dati gli ultimi tempi. Sentivo di star covando qualche strano virus. Allungò  il suo sciroppo con tre dita di rum.
"In paese dicono che stai male" dissi tamburellando le dita sul tavolo mentre lo guardavo da sotto la visiera del mio cappello da baseball rosa fucsia.
"Mah, sai, io a certe cose non ci credo" disse bevendo un sorso.
"Manco io". Presi un libro di poesia dalla borsa. Raymond Carver. "Toh, era quello che volevi, no?"
Lo guardò per un attimo. "Grazie, ma non vorrei sottrartelo a lungo"
"No, vabbè, figurati, io non mi occupo più di poesia. Devo lavorare, non ho tempo. Ho chiuso con i sentimenti"
"Addirittura". Mi guardava dubbioso. "E che lavoro è?"
"Un lavoro di dedizione". Fece una smorfia. Sospirai. Poi dissi: “Un lavoro serio”.
"La dedizione comporta un certo coinvolgimento emotivo, ragazza! Comporta un sentimento"
"Si, beh- tentennai - diciamo che è un sentimento ben ponderato, abbastanza ragionato. Come dire: maturo, ecco.".
"Addirittura" disse spalancando la bocca in segno di finto stupore, con quel fare sarcastico che raramente si addiceva ai vecchi come lui. Così mi vendicai:
"E tu, dimmi, che ne è stato della tua rabbia?". Il vecchio Genda abbassò gli occhi e si guardò i palmi delle mani. Aveva ancora la fede. Per un attimo sentii il suo dolore, come una corrente fredda sul cuore. 
"All’epoca, quando ero piccola e ineducata, era bello sentirti inveire contro questa società un po' incasinata" sorrisi. "Era bello". 
Tirò su con il naso e mi guardò. Le sue rughe erano come la corteccia del vecchio ippocastano. Scosse la testa. 
"A volte penso che la nostra rabbia sia solo spirito di conservazione. Forse è la paura di qualcosa di rivoluzionario"
"Io per esempio- dissi- non pensavo di essere così conservatrice. Vorrei tanto tagliarmi i capelli e invece non ci riesco"
"Non è un caso che questa rabbia è tipica dei vecchi come me, abituati a un mondo diverso. Sai, io credo che noi siamo l'epoca in cui siamo stati giovani. Lo credo, davvero. Io sono e sarò sempre il Sessantotto. Io sono e sarò sempre certi ideali, certe spinte, energie silenziose che, a quell'epoca, mi crescevano dentro come un fiore che germoglia tra le ossa. Se a quei tempi mi avessero sezionato un polmone ci avrebbero trovato rose di innovazione. E' solo che un tempo si parlava dei colori e tutti avevano dei colori diversi, uno era rosso, l'altro era nero. Mentre ora io non lo so, è come se fosse tutto bianco, la gente se ne sbatte completamente le balle di tutto. Io non lo so".
"Magari- dissi io- è anche questo un ideale: vivere semplicemente senza pensare di conquistare la Dalmazia!"
"Eh ragazzina, la Dalmazia n'è mica il Sessantotto eh!". Per la prima volta rise anche lui. 
"Si, va beh, io dico che nei tempi di pace le persone sono più rilassate, parlano di come cuocere il filetto, coniano nuovi vocaboli, bevono nei weekend; sono cose concrete, voglio dire che te ne fai di un discorso sulla Democrazia quando l'importante al momento è farsi notare? Al più, il discorso sulla Democrazia, al giorno d'oggi, lo fai per far colpo". Però, come per la maggior parte delle volte, non ero mai del tutto convinta di quello che dicevo. Lo dicevo, comunque, per infastidirlo.
"Vedi? Vedi? E' questo modo di vedere le cose che non sopporto, questo addormentarsi pensando che va tutto alla grande. Ascoltami bene, Caterina, Clarissa, Cristina, non mi viene il tuo nome, devi smetterla, cazzo, devi piantarla di ragionare così, di scusare questa disattenzione collettiva. Internet è il più importante, potente, mezzo che il popolo abbia avuto in suo possesso, ma pfff, è come se tutta la sua potenzialità fosse annullata. Da cosa? Da cosa mi chiedi? Bene, da tutte questi diversivi, questi social network che accentrano l'attenzione, la spostano, la indirizzano del tutto sulla cosa più debole che esista: l'Ego"
"Non sono d'accordo che l'Ego sia la cosa più debole che esista" dissi.
"Oh, fandonie, è questo Ego sciocco e autoreferenziale che non sopporto, che mi ammutolisce, che mi fa rassegnare. Gli ideali nascono in risposta a forze contrarie che noi sentiamo di dover contrastare con lo spirito, con la parola, con tutta la forza e il fiato che siamo in grado di soffiare, ma se è tutto un vociare soffuso, un vivere veloce, impegnato, di corsa, se la questione non è più essere liberi, ma di che colore tingere le pareti della propria prigione, io perdo il perchè del mio parlare. Tu mi capisci?"
"Si". Presi dalla tasca una caramella e la scartai lentamente, facendo meno rumore possibile.
"Non si tratta nemmeno di un disinteressamento alla politica, chi parla di questo, a mio parere, ha sbagliato bersaglio. Si tratta di un'ipnosi collettiva, ecco. Ad esempio tu, che diavolo di lavoro fai? Prima mi hai detto che non hai tempo nemmeno di leggere un libro di poesie"
"Un lavoro di dedizione, sacrificio, te l’ho detto, una cosa molto impegnativa” dissi togliendo il braccio da sotto il mento e ritornando seduta composta.
“Ah-ah che ridere, peccato che ieri sono caduto dal motorino, i medici mi hanno detto che ho la paralisi del nervo facciale, quindi non te la prendere se ho questa faccia qua, un po’ interdetta”. Ancora con il suo prendermi in giro da quattro soldi.
Annuii, come si fa quando si accetta un rimprovero. A lui non era mai andato a genio questo mio fatto di abbandonare la Scrittura per la Scienza. Io gli avevo sempre detto che le due cose “mica s’escludevano”. E lui, mi aveva sempre detto: “al diavolo, va’ a sprecare il tuo stramaledetto talento lontano dai miei occhi”.

“Io sono scettico. Tu lo capisci?”. Era uno dei suoi tic riperetere “tu lo capisci” in continuazione.
“Sono scettico perché ci sarebbero tante cose da dire e non riesco ad esprimerle perché a volte mi sento io a esser sbagliato e non gli altri che vivono senza uno scopo. Io pensavo di cambiare la prospettiva sulle cose, vedere il nostro mondo con occhio più comprensivo e, invece, io a certe stronzate non mi abituo! Non mi va, non mi va di vedere correre tutti da una parte all’altra come se si trattasse soltanto di riempire il tempo, non mi va che la gente debba mostrarsi sempre con questa aura di Vittoria e Sbruffoneria, non mi piace la parola sfigato, vorrei prendere a schiaffi tutti quelli che la usano. Mi fa schifo il sushi.”
“Mmm buono” dissi io che nel frattempo mi ero persa.
“La vera salvezza di questi tempi è avere una cazzo di vocazione, qualcosa che ti salvi e che ti faccia amare il tempo. Qualcosa che ti spinga ad amare veramente anche un’altra persona, un amore che non sia niente di tutte quelle baggianate sullo status, sui canoni, una cosa pulita, salva da tutta questa fanghiglia”.
“Fanghiglia” ripetei piegando la testa di lato.
“Ti prego, almeno tu, salvati” mi disse e mi guardò con gli occhi disperati.
Io allora dissi: “sono apposto così”. Come se stessi rifiutando il dessert dopo una cena al ristorante.
Ma sperai con tutta me stessa che la mia anima non si fosse già fottuta. 
Fuori pioveva come non mai. 

25/02/20

The ball team - I raccattapalle

di Cristina Taliento

                                                        (Evening marsh landscape, Emile Nolde)



Dopo un periodo post-laurea di onnipotenza, credersi Dio, giovani dentro, giovani fiori, Ego pompato, muscoloso, spavalderia e saccenza, dopo un periodo pieno di tutte queste balle mescolate alla rinfusa a mo' di quei cocktail che mi sparavo la sera con i miei dannatissimi amici e conoscenti, ritornai a spalare limiti e paure in un vecchio ospedale di provincia.
Mi si chiedeva di dover fare la gavetta, giustamente.
Non fu facile accartocciarmi quello stupido illusorio e magnifico ego per farlo entrare all'interno di una nuova vita di stenti. Ma alla fine, vi dirò, fu un sollievo. Di farmi la splendida ne avevo abbastanza, d'altronde fin da piccola provavo entusiasmo per attitudini strane come il sacrificio degli eremiti e i pesanti silenzi dei monaci medioevali. 

Una cosa che mi rincuorava erano i raccattapalle, un gruppo di ragazzini, le schiappe della squadra, addestrati a raccogliere le palle che venivano calciate al di là della rete.
Dalla grande vetrata dell'Ospedale li guardavo, quei poveretti. E tutto sommato li ammiravo. 
Non è forse una grande dote correre da una parte all’altra con un bel mazzo di umiltà e coraggio indossando una maglietta con su scritto Il Team della Palla?

Beh fatto sta che alla fine chiamarono anche me. Chiamarono anche me per fare la raccattapalle.
"Che diavolo vi salta in mente, buon Dio?" dissi sconcertata sulla porta dell'ambulatorio.
"Fai la gavetta, spala" mi risposero.
Così presi l'ascensore con la zaino che mi pendeva sconsolato da una spalla come sconsolati erano i miei sogni di gloria. Tasto meno uno. Giù, agli inferi.

Imboccai uno di quei corridoi nelle retrovie dove esce sempre del fumo da qualche parte indefinita del soffitto e dove uomini vestiti di bianco spingono pesanti carrelli pieni di cibo d'ospedale.
Alla fine arrivai in quello strano posto. Un campo da calcio. Si fa per dire. Un quadrato di polvere e sabbia, due reti, una sola panchina.
Me ne stetti lì ferma vicino alla ringhiera strizzando i miei occhi miopi per mettere meglio a fuoco i giocatori e tutta quell'enorme messa in scena architettata a posta per farmela pagare, per farmi dannare.
Non ero arrabbiata. Come ho detto mi piaceva la vita dei monaci medioevali, zero gratificazioni, zero capricci, zero storie. Era solo che avevo un po' di nostalgia dei vecchi tempi, del vento sul mio sorriso quando ero io a guidare la barca. Avevo anche un cane all'epoca. Un alano che mi seguiva ovunque. Si chiamava Bob. Poi morì. Io mi laureai e la mia vita cambiò.
Così aspettai in silenzio. Dopodiché andai dal capitano.
Dissi: "Buongiorno, sono la nuova raccattapalle"
"Buongiorno, non ha la divisa, signorina".
"Nossignore, in effetti non ce l'ho"dissi guardandomi i jeans.
Mi toccò andare avanti e indietro per tre volte in un lontano posto chiamato Guardaroba. Dimagrivo a dismisura, per lo stress e sempre per lo stress poi aumentavo inevitabilmente di peso. Ma nel frattempo le sere mia mamma al telefono mi cantava che gli eroi erano tutti giovani e belli.
"Gli eroi son tutti i giovani e belli".

E passarono in fretta quei primi quattro mesi a rincorrere i palloni mandati fuori campo. A volte mi sembrava di non star imparando nulla, di star sprecando il mio tempo.
"Voglio battere un rigore" un giorno me ne uscì con questa frase mentre il capitano si allacciava le scarpe.
"E' un mestiere per uomini. Sei un uomo tu?"
"No, sono una tenera femminuccia, ma sto facendo la mia gavetta. Non la faccio bene se non mi fa battere quel rigore".
Giustamente, per colpa della mia arroganza dovetti lucidare innumerevoli scarpe. Non calciai nessun rigore, s'intende.
Eppure, certe volte, solitaria e ostinata, con le scarpe piene di fango e di melmoso liquido amniotico, lì ferma a bordo campo, magari dopo una partita dove avevo corso parecchio, dove mi facevano male milza e orgoglio insieme, beh, quelle volte mi dicevo che, in fondo, non volevo stare da nessuna altra parte, che quella era la mia strada e me la sarei fatta anche a piedi.

Poi un giorno un giocatore si ammalò. Io me ne stavo a spolverare i palloni con una pezza di cotone.
"Gioca tu" disse il capitano. Lo guardai, con la testa inclinata, gli occhi appesi alla bocca morta.
Non solo giocai, ma mi fu chiesto anche di tirare un calcio di rigore.
Come era nel mio stile, lo cannai. Figurarsi.
Tuttavia, quella sera me ne andai fischiettando come Huckleberry Finn nelle sue Avventure.