di Cristina Taliento
(No.3/No.13, Mark Rothko, 1949, MoMA, New York)
La comunità di quel piccolo paese
asseriva di sapere esattamente cosa passasse per la testa del vecchio John: che
era un vecchio pazzo accasciato dalle delusioni e dagli anni, incline ai vizi
tra i più temuti dalla società, dedito ad alcol, spaccio, erba buona, meno
buona, scrittore da strapazzo, eccetera eccetera. Non era vero.
Andai a fargli visita una sera di
settembre. Le campane della chiesa accanto alla casa dove vivevo avevano
suonato all’impazzata per tutto il pomeriggio, con cadenze prima allegre, poi
da funerale, allegre, da funerale. Mi ero affacciata più volte alla finestra. Prendendomi
appena un terzo dell’audacia socialmente consentita a una donna della mia età, avevo
chiesto con solerzia cosa diavolo stesse accadendo. Mi era stato risposto da un
passante: “Il giubileo!”. Contrariata, divertita e sconfitta, avevo allineato i
fogli dei miei appunti, avevo sbarrato con una penna le pagine; contenta era
invece la mia mancata ispirazione. Non se ne sarebbe fatto più niente.
Così, come dicevo, andai a fargli
visita. La prima cosa che mi disse quando mi vide fu: “ho una ferita sotto al
piede, quattro centimetri almeno!”. “Non sono mica il tuo medico”. “Sia ringraziato
il cielo”. Non aveva proprio nulla.
La seconda cosa che mi disse fu: “Stai
scrivendo, vero?”. Risposi: “Un po’ si, un po’ no, ho avuto da fare”.
Mi guardò
con sguardo severo come spesso si addiceva a un maestro. Mi chiese: “Che cosa è per te la letteratura”.
Risi, gli dissi che la cosa non
rientrava tra i miei pensieri elaborati nell’ultimo periodo e a dirla tutta nell’ultima
vita, che non mi occupavo di evanescente pulviscolo filosofico preferendo di
gran lunga a questo un -si sperava- duraturo soggiorno nelle liete lande dell’argentea
Scienza!
Alzò gli occhi al cielo. “Trovo limitante che
tu debba a tutti costi sentire così forte questo sentimento del bivio. Come se
una mente dovesse per forza amputarsi delle parti, come se due piante non
potessero crescere nello stesso vaso”.
“Ma tant’è” risposi alzando le spalle.
Nella stanza c’erano libri
dappertutto, accatastati per terra, sulle mensole, dentro il camino spento. Su
un tavolino di legno il vecchio aveva usato un bollitore come vaso per dei
girasoli.
“Che cosa è per te la letteratura”
ripetè quindi mentre versava dei croccantini nella ciotola per il suo gatto Bob.
“Non lo so, il desiderio
primordiale dell’uomo di comunicare all’altro i propri bisogni, necessità,
paure?”
“Questa è veramente una risposta
da scuola elementare” asserì accarezzando il gatto. “Comunicare, vedi… lo facciamo continuamente.
Il mondo è pieno di parole, fluttuano nelle strade, dritte come fili piombati,
a zig zag, in salita, in discesa, parole ovunque, parole in equilibrio sulle
spalline di giacche sartoriali, parole appese ai pali della luce, sospese e
diradate nel grigio cielo prima del temporale. La letteratura, mia cara, non
sono le parole. Quello si chiama cicaleggiare”
Continuava a mancare di rispetto
alla vita vera, alla lingua parlata. Incrociai le braccia.
“La letteratura è il resoconto sul
nulla, fatterelli, fattacci, nobili fatti che ci narriamo da secoli per aiutarci
a vicenda, per imparare a superare questa cosa, qualunque cosa sia”.
Dissi risentita: “Non esistono
risposte assolute a domande aperte”.
Così gli raccontai di quella
volta in cui il mio professore di Medicina Interna mi chiese al letto del
paziente, davanti a tutti gli altri studenti, la definizione di "fegato".
Io avevo risposto sicura di me: “un
organo parenchimatoso deputato a svolgere funzioni esocrine ed endocrine…”.
Lui mi aveva guardato con occhi di ghiaccio e molto lentamente mi aveva detto: “Niente affatto”. Ci avrei scommesso.
Aveva poi aggiunto: “Il fegato è una ghiandola
che produce albumina”. La cosa mi aveva sbalordita. Devo ancora farmela scendere. Non esistono definizioni assolute per sistemi complessi.
Lo sapevano tutti che né per la letteratura
né per il fegato sarebbe andata bene una sola semplice definizione.
2 commenti:
😊
Ciao Doc 😊
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