(Rain, steam and speed, William Turner, 1844, oil on canvas, National Gallery, London)
Quella domenica mattina presi la giacca a vento rossa, un ombrello, la mia dispensa di Neurogeografia e partii per un grande volo di fantasia. Pensai se prendere l'autobus oppure no. Durante i giorni festivi ne passava uno ogni ora e io mi rigiravo tra le mani il blister vuoto di Travel Gum contro il mal d'auto. Guardavo la strada, il blister, la strada vuota, il blister vuoto, un bambino su una bicicletta con la catena che schioccava a ogni pedalata. Così mi alzai dal bordo del marciapiede dove mi ero seduta e decisi di farmi la strada a piedi per riempire con i miei passi quell'inconcludente deserto domenicale, per incontrare, cammin facendo, un cestino in cui buttare il blister, la dispensa, l'ombrello e me stessa. Infatti, è così che andò. Dopo nemmeno tre minuti di cammino in direzione Ovest trovai un cestino. Mi ci buttai. E dopo tre minuti ero arrivata in quel posto al confine... Al confine di cosa non lo sapevo, non l'avrei scoperto mai.
Arrivavo lì, su quella scogliera, insieme a uno stormo di uccelli migratori. Ero un uccello migratorio anch'io, in fondo.
Mi pioveva in testa l'acqua del mare che si infrangeva sulla roccia. Aprii l'ombrello non volendo fare nessun passo che mi allontanasse da quegli schizzi di Paradiso. Era così che io mi immaginavo da sempre l'Idrogeno.
Il cielo grigio balena era sbrindellato qua e là da lame affilate di luce boreale, verde, rosa. Non erano le mie latitudini e non sapevo che ora fosse. D'altronde la domenica non poteva che essere così.
E mi ritrovai all'improvviso felice, sorridente in quella specie di fiordo normanno, sull'oceano, tra tutti quegli scambi di elettroni. C'erano delle foche sulla spiaggia, file e file di foche ridenti che a turno si lanciavano tra le onde. Avevo messo il costume? Potevo andare a nuotare con loro?
Il vento disegnava nell'atmosfera il ritratto di una ragazza dai capelli lunghi castani. Ero io, mi sorrisi.
Dove fosse finita quella strada deserta da cui ero venuta non me lo ricordavo più e, lì, in quel momento nel Tempo, dove l'importanza delle cose svaniva nelle sfumature di quel cielo che mutava, capii che c'ero ancora e forse non me ne ero mai andata. C'era l'immensità dello Spazio e le campagne dell'entroterra, c'era l'eterna fragilità del mio essere giovane. I miei sogni, le mie paure e il terzo meridiano dopo quello di Greenwich.
Chiusi l'ombrello in segno di gentilezza e rispetto per quel posto al confine poichè non mi sembrava più giusto difendermi e proteggermi dall'acqua con un oggetto impermeabile inventato da chicchessia mentre l'Infinito si mostrava davanti ai miei occhi. Senza meritarlo, mi lasciai avvicinare, addomesticare dalla vastità dell'Oceano. Ero un pesce anch'io, in fondo.
Mi fu chiaro, forse più chiaro di quanto già mi era sembravo lo fosse in passato, che noi siamo esattamente quello che vogliamo essere, in ogni momento del giorno, in ogni istante, sempre. Siamo noi e non ce ne andiamo mai per davvero anche se alle volte ci sembra di non riuscire più a ritrovarci, a vederci. Mi fu chiaro, mentre il vento mi diceva di buttarmi in acqua e io gioivo, mentre mi toglievo le scarpe e correvo, correvo libera verso il blu in tempesta, che le nostre energie più profonde sono radici forti come cavi d'acciaio e che le nostre debolezze ci rendono belli, di una bellezza complicata, simile al pianto. I nostri posti al confine dormono dentro di noi; è da lì che veniamo davvero. Ed è lì che rideremo, che ci ci ritroveremo, più pazzi e spettinati e più invecchiati e belli dell'ultima volta che c'eravamo stati. Nei nostri luoghi interiori ci sono tutte le albe e i tramonti di cui abbiamo bisogno, i giochi di luce e i venti come li vorremmo e c'è sempre la voce di qualcuno che ci parla mentre noi sorridiamo senza capire... di qualcuno che ci dice: "io credo di essermi innamorato di te".
Nessun commento:
Posta un commento