di Cristina Taliento
Di quando la narratrice scrive e riscrive senza concludere un bel niente raccontandosi che, comunque, non è da questi particolari che si giudica un giocatore.
(…perché “Un giocatore
lo vedi dal coraggio, dall’ altruismo e dalla fantasia” Francesco De Gregori,
La leva calcistica del ‘68).
Al
mondo non devo niente, tranne che questa storia. E poi posso anche diventare un
medico per fatti miei e lasciare che questi
racconti se li porti via il mare. Una volta avevo promesso che l’avrei
scritta, avevo promesso… oh, sentite! Io non avevo promesso un cavolo a
nessuno, io nemmeno volevo arrivare a questo punto! La devo scrivere e basta
questa benedetta storia altrimenti muoio con il rimpianto… Ma no, quale
rimpianto e rimpianto... Altrimenti muoio e basta, muoio adesso, qui seduta e
basta. Punto.
Che
poi non è nemmeno una storia. E parla, piccina, che cos’è allora? Non lo so. Oh
mannaggia, al diavolo le influenze joyciane. Io per questa storia non so che
stile prendere. La mia voce narrante, imbarazzata, si ritrae nemmeno avessi di
fronte il vero amore. Ma il vero amore aspetta. Mi aspetti, quindi, storiella?
Mi aspetti mentre bevo un sorso di limonata,
mi asciugo le mani sudate e faccio grandi respiri?
Il
fatto è che quando penso a questo personaggio dall’anima ingombrante e schiva,
quasi quasi, tutte le volte, piango. Ha i contorni indefiniti, perché è solo
potenzialità, figurarsi se so com’è fatto fisicamente. Ancora deve nascere, ma
è un feto rock. Molto rock oh yeah, gente. Tantissimo. Già. Questa è, per caso,
la fase dove l’imbarazzo si traduce in un entusiasmo delirante? Eh beh, si,
forse. Fatto sta che non è facile parlare con la storia dei propri sogni,
nemmeno se manca di stile e di personaggi secondari.
Ad ogni modo, c’è già il titolo inglese per
eventuali traduzioni e trasposizioni cinematografiche: The Happinessier- Il
Felicitiere. Oppure The Adventures of The Happinessier, che sarebbe Le
Avventure del Felicitiere.
Ma
che sto scrivendo? Che Voce è mai questa? Se fosse una canzone sarebbe quella
che fa, c’era un merlo, craaaa, un merlo,
craaaaaa, un merlo, un merlo, cra, cra!! Mamma che James tarocco che sono.
Come
faccio a scriverla? Io non so più scrivere da sette mesi e dieci giorni. Perché
tutte queste domande? Appellati al potere delle falangi e piantala, per Giove!
Oh, falangi, falangine, falangette, battete forte su questa tastiera, battete
come pioggia senza ascoltare cuore e cervello, quegli impostori egocentrici.
Solo voi, umili, sapete prendere le cose con ritmo e suonate e operate e
battete. Perché, signori, gli scrittori che scrivono con il cuore e con il
cervello saranno pure i migliori, ma noi, mezzi scribacchini dalle falangi
rotte, siamo i più temuti campioni di Fruit Ninja 3 e Ruzzle. Mica scherzi.
E
comunque il Felicitiere è una donna. E che me ne importa se vi ho rovinato la
sorpresa.
Dice
la mia terza personalità: “Non è consigliabile assumere questo atteggiamento
con i lettori. Alla lunga si stancheranno di essere trattati a pesci in
faccia”.
Risponde
la mia seconda personalità: “Noi scriviamo solo per noi. Loro non capirebbero”.
Chiede,
ingenua, la mia prima personalità: “Perché? Ci sono lettori?”
Concludono
all’unisono: “Solo due, ma burlarci di loro ci fa sentire meglio e placa i
nostri complessi d’inferiorità”.
Dopo
questo slegato, inutile intermezzo, riprendo dicendo che il protagonista si, è
una donna, ma voi quando comprate il libro o quando, in generale, leggete il
titolo, non lo sapete, né lo immaginate perché siccome vedete l’articolo “IL”,
si attivano in voi quelle sinapsi del linguaggio che richiamano l’universo
delle parole coniugate al maschile. Certo, sarebbe stato davvero grande e
abbastanza sorprendente se, arrivati alla fine del primo capitolo, fosse
saltata fuori la verità sul genere del Felicitiere. Un po’ come nei
film con quei cavalieri che tirano dei colpi di spada pazzeschi, sono
fortissimi e poi si tolgono l’elmo e sono donne. Un po’ come quel rompicapo che
fa: “Un padre e un figlio hanno un incidente e il padre muore mentre il figlio
va in ospedale, ma il chirurgo esclama: non posso operare! E’ mio figlio!”.
Soluzione: era la madre. Era la madre il chirurgo, non era il padre ad essere
resuscitato. Ma la maggior parte delle persone non ci pensa.
Insomma,
certe volte non te l’aspetti che è una donna. E nemmeno qui ve lo sareste
dovuto aspettare, in teoria, ma questa è una storia che devo scrivere e basta e
non è che mi voglia ingegnare tanto per lo scopo di farvi tirare grandi oh di
stupore con il rischio che sbaviate anche sulle mie pagine. Quindi, per mio
ordine mentale, vi dico che è così. Andiamo avanti, questo, nossignori, non è
un bar.
Il
secondo punto o la seconda condizione molto importante da scrivere subito è che…
me la sono dimenticata. Ma vi giuro che era davvero importante. Non so se la
falangi aspetteranno la sciocca memoria. Si muovono così veloci sulla tastiera
che anche ora, mentre si parla di loro, sono così impegnate che non si fermano
nemmeno ad arrossire un po’.
Ah,
ecco! Il secondo punto è che io dovrò farmi da parte. Sparire, eclissarmi
completamente, dimenticarmi della mia presenza mentale. Se voglio narrare
questa storia mi devo costruire una voragine che, a cavallo tra l’introduzione
e il primo capitolo, mi risucchi fino all’ultimo capello, in modo che di me non
rimangano che queste confuse parole del cavolo con cui si aprono senza nessuna
gloria Le suddette Avventure. Una narrazione neutra è quello che ci vuole!
Com’è che era? Onnisciente. Io sono il narratore onnisciente. Io sono il
narratore tra la folla di schiaffi, il narratore in silenzio dentro la metro e
guardo in basso e in realtà vedo tutto e ora la mia fermata è questa e… ora
scendo… mi faccio largo tra le spalle… ora mi vedo ancora… ora no, sono sparita.
2 commenti:
alla prossima Felicitiere
Cara Cristina, sempre belli e interessanti i tuoi racconti!
Attendiamo il prossimo racconto.
Buon fine settimana cara amica.
Tomaso
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