29/11/12

Il Felicitiere


di Cristina Taliento


...e sarà dedicato ai terrestri soltanto



      (Totten Bryce, Ninolou, Alexander Jansson, 2006)


Un giorno scriverò questa storia. E poi potrò prendere per sempre il mare oppure un super gelato con tre gusti più panna. Forse entrambe le cose se il capitano della nave che accetta nuovi marinai è anche il capitano della Grande Gelatiera Baltica. Ci sono buone possibilità che per quel giorno avrò superato i quarantacinque anni e i miei capelli si saranno abbastanza ingrigiti senza contare le rughe e una tosse cronica per via della pipa. Si, perché nel frattempo avrò iniziato a fumare, anzi a quarantacinque anni sarò già con un quindici anni di fumo alle spalle. Oppure con quindici anni di zucchero filato alle spalle. Non lo so, dipende. Però per quel giorno avrò scritto La Storia. Non una vera. Una finta. Questa qui di cui parlo, per l’esattezza. Titolo: Il Felicitiere.
Esistono diversi abbozzi di questa storia. Il primo risale a quando avevo nove anni. Si trattava di una serie di disegni che avevo fatto con i colori a cera. C’erano disegnate delle figure alte più o meno quanto la casa a lato e potevano essere la mia famiglia oppure un gruppo di quei saltimbanchi che mi piacevano tanto. Una volta venne per una  visita un signore inglese e guardando i disegni con gli occhiali sulla punta del naso ripeté più volte “remarkable” indicando con il mignolo un piccolo gnomo che spuntava nei disegni, ora al centro, ora affacciato ad una finestra senza prospettiva.
“What’s his name?” mi domandò come per rubarmi un segreto.
“Il Felicitiere” risposi ad alta voce per far capire che non c'era nessun segreto.
“Il Fieliccittiere? The happy man?” chiese mentre mi osservava da sopra gli occhiali a mezzaluna.
“I just… Well, I think The Happinessier would be more appropriate, sir”.
“Remarkable” disse lui per tutta risposta facendo oscillare l’indice per aria.
   
Quello che non chiese e che probabilmente non sarei riuscita a spiegare in inglese era il ruolo di questa figura, questa specie di folletto con la pelle verde e il cappello viola. Le settimane successive a quella visita, tuttavia, mi concentrai sulla risposta che in un ipotetico passato avrei potuto dare con molta sicurezza e che, in realtà, non avevo dato. Così presi un quaderno a quadretti e scrissi:
“What’s his name, little girl?”
“Il Felicitiere, sir”
“Oh, how wonderful! And may I ask you a question? Who is him? You can certainly explain it in italian”
“Thank you, sir. Il Felicitiere è… quello che mette allegria al quadro e si assicura che va tutto bene e asciuga le lacrime a chi è caduto dalla bicicletta oppure ai grandi quando i grandi stanno male perché magari hanno quei problemi che i bambini non possono capire”.
“Very interesting, indeed. You should write about him”
“Non so se mi piace scrivere veramente”
“Okay. Now…Do you smoke?”
“Not very often, sir. I lost my personal tobacco plant....Can I have a pipe, please?”
“Obviously. Here you are, little girl”.

Non fu una presenza costante questo Felicitiere. Niente di nemmeno lontanamente simile a un amico immaginario  o all’orso di peluche morto di infarto fulminante all’insaputa di tutti (tranne che della mia) il giorno del mio decimo compleanno. Il vecchio orso… credono che sia ancora vivo, lì, seduto rigido sulla spalliera del letto.
  Il Felicitiere entrò per un certo periodo nelle storie che inventavo per i miei cugini, ma nemmeno allora aveva quelle caratteristiche fisse che servivano per identificare un personaggio. Anche il nome: non c’era mai una volta che fosse lo stesso. Per di più erano nomi russi dato che non facevo che leggere libri di scrittori russi. E poi mutava forma, di continuo. A tratti era un fantasma, poi diventava un moschettiere del re, poi ancora un pirata se, per esempio, in quel periodo avevo L’Isola del Tesoro sul comodino. E, a seconda di come mi girava, poteva stare dalla parte dei buoni o da quella dei cattivi. Se metteva la felicità per altruismo o per fare un dispetto, non contava. Non doveva mica essere per forza un timorato di Dio. Più crescevo, più la sua pelle da verde diventava come la mia. Desiderio di conformarsi alla massa, io credo. Ma io lo lasciavo fare.

Al momento non esiste lo  “scheletro della storia” perché è tutto molto invertebrato, ovvero formato per gran parte di idee evanescenti e sentimenti di molluschi marini. Però a tratti ho come delle visioni del suo carattere, di questo personaggio, intendo. Per farvi un po’ capire il tipo, lui è quello che riproduce il rumore della pioggia con le dita sulla carta quando non piove da settimane, quello che balla il tip tap davanti alla televisione quando siete molto tristi o molto soli. Oppure immaginate di essere ad una cena importante di lavoro e state facendo una gran bella figura impressionando tutti con la vostra brillante conversazione quando all'improvviso vi va del cibo di traverso e gli occhi vi iniziano a lacrimare. Gli altri ancora non se ne sono accorti, ma il Felicitiere, seduto a uno dei tavoli a fianco, si alza e simula un abbraccio ridicolo prendendovi alle spalle, ma in realtà vi sta facendo la manovra di Heimlich che, a quel punto, riesce con successo. Tutti si girano, lui sorride, voi siete un po' confusi, ma anche all'incirca salvi. Un altro esempio potrebbe essere quello dell' etichetta. Già, l'etichetta dei vestiti. Capita di camminare da lottatori vincenti su ring-marciapiedi, del tutto ignari di avere l'etichetta della giacca ancora appesa al collo. Beh... lui, il Felicitiere, in quei momenti arriva con una forbice e con un veloce movimento del polso taglia il cartoncino. E il punto è che non vi accorgete di nulla. Così come quando una cosa sparisce, ma come mai...eppure era lì, coma ha fatto a nascondersi. Poi, riappare. Il Felicitiere, che non deve essere per forza un angelo custode o un fantasma, l'ha trovata e siccome non sopporta i ringraziamenti, ha preferito lasciarla sul tavolo, sul punto più visibile della casa. Lui è fatto così.

Io credo che il Felicitiere sia un personaggio di larghe vedute, se così si può definire, perché non è come quei personaggi impazienti che ti assillano una notte intera per avere una storia e quando gliela scrivi, anche abbastanza male, poi se ne vanno ignoranti e soddisfatti e non li vedi mai più, nemmeno nel cestino della carta straccia.
Il Felicitiere sa che forse adesso non ho l’esperienza giusta per parlare di uno come lui perché devo ancora dormire sul dorso di una balena, devo curare i canini dei lupi, devo prendermi un husky, coltivare ortaggi geneticamente modificati. Si chiama Propedeutica dell’Esperienza dello Scrittore Serio, abbreviato P.E.S.S., è un trattato, non è la panencefalite sclerosante subacuta. Molti pensano che sia una scusa inventata da certi scrittori per prendere fiato dalla scrittura e da loro stessi. Infatti, si sa benissimo che se c’è  l’immaginazione non serve altro, solo una penna,  ma questi scrittori che hanno inventato questo trattato si danno un cinque anni circa di vita vera: si tuffano dai ponti, se ne vanno in giro per il mondo, fanno figli, diventano medici. Ciascuno ha il suo programma personale di studi. Così poi ritornano a scrivere belli e vissuti con un sacco pieno di esperienza e scatole di sentimenti intercambiabili. Ma la verità è che hanno ingannato la loro indole e sono piuttosto contenti del fatto. E il Felicitiere questo trattato lo conosce benissimo. Vuole essere scritto da una quarantenne o da una sessantenne perché gli piacerebbe essere scritto talmente bene da essere riadattato per il teatro addirittura. Già se lo immagina: Atto I, Scena I.

Questa storia inizierà così:
un giorno scriverò questa storia e poi potrò prendere per sempre il mare oppure un super gelato con tre gusti più panna. Forse entrambe le cose se il capitano della nave che accetta nuovi marinai è anche il capitano della Grande Gelatiera Baltica…


23/11/12

Barbie è morta

Doppiaggi per intrattenere un pubblico di bambini in gamba


scritto da Cristina Taliento

     (Barbie, Andy Warhol, 1985, synthetic polymer paint and silkscreen ink on canvas)

VOCE FUORI CAMPO: Benvenuti bambini e bambine, sedetevi anche se siete già seduti e spegnete i cellulari anche se non li avete. State per assistere ad un breve spettacolo intitolato "Barbie è morta", per di più uno scambio di battute. I contenuti possono influenzare le vostre idee, pertanto fate attenzione e valutate bene, se è vero, come dicono, che siete svegli , ma sono certa che comunque capirete. Sipario! 

BARBIE: "Ken?"
KEN: "Barbie?"
BARBIE: "Ti ho tradito. Si chiama Ken"
KEN: "Oh, mi hai tradito con me. Che dolce..."
BARBIE: "No, con K-Ken... Shiro"
KEN: "Ken Shiro?! Ken detto Il Guerriero?"
BARBIE: "Ken Il Guerriero, si"
KEN: "Maddai! Vado a farmi un panino" (esce)
BARBIE: (a parte) "Mettici dentro sigarette, antidepressivi e una foglia d'insalata...come sempre"
KEN: (voce fuori campo) "Non capisco ancora come tu abbia fatto! Non ti credevo una ragazza facile, Barbie. Lo sai bene che quando la mia fiducia è tradita, è tradita per sempre"
BARBIE: "Lo so bene che non t'importa, invece. Smettila con questa farsa, ti prego. (a parte) Come se non lo sapessi che per tutti questi anni ti sei lavorato tutto lo scaffale delle bambole:  Barbie Magia delle Feste, Barbie Rockstar, Barbie Veterinaria, Barbie Questo, Barbie Quello".
KEN: (entra) "Però mi infastidisce che tu abbia scelto Ken Il Guerriero, tutto muscoli e niente cervello!"
BARBIE: "Tu invece sei sempre stato così profondo".
KEN: "Beh... si beh! Siamo insieme per questo, accidenti! Sono stato bravo a comprenderti in più situazioni altrimenti chissà quante volte avremmo rotto il nostro amore".
BARBIE: "Ken, santoiddio, come fai a dire certe cose, come fai a chiamarlo amore? Il nostro è un amore di plastica!" (parte la canzone "Un amore di plastica", Carmen Consoli)
KEN: "Che cavolo è 'sta roba?"
CARMEN CONSOLI: "...tu sei quello che non sa quando è il mio compleanno, quando vago nel..."
BARBIE: "Sarà la radio-sveglia, non so".
CARMEN CONSOLI: "...volevo essere più forte di ogni tua perplessità, ma io non posso accontentarmi se tutto quello che sai darmi è... un amooore di plaaastica"
KEN: "Benissimo. (Estrae la pistola e spara la radio) Ecco fatto. Stavi dicendo qualcosa?"
BARBIE: "Proprio questo! Che sei un essere plastificato e inopportuno. Io sono infelice!"
KEN: "Si, ma per quello hai sempre avuto l'alcol. Non ne vorrai fare un problema ora, immagino. Non dopo aver vuotato le riserve del mio whisky".
BARBIE: "Non posso continuare così. Voglio andarmene".
KEN: "Diventeremo gli zimbelli del quartiere. Pensa a cosa diranno i nostri amici". 
BARBIE: "Chi? Quei vermi schifosi che vengono alle nostre feste per commentare i riflessi della mia tintura?"
KEN: "Ma se usi la stessa gradazione di biondo dal 1961".
BARBIE: "Eppure chissà come i loro giudizi cambiano in continuazione! Magari a seconda delle convenienze!"
KEN: "Oh Barbie, Barbie, Barbie... Dolce, fragile, Barbie. Resta. Non vorrai partire con quel Ken Il Guerriero... non pretenderai che la sua figura si abbini ai sedili del tuo camper rosa".
BARBIE: "L'ho venduto. Anzi, ho venduto tutto, anche questa casa. A proposito, devi andartene entro la fine del mese".
KEN: "Stai scherzando?! Che senso ha? Sei una... una... arghhh! Stai, per caso, attraversando la crisi di mezz'età?"
BARBIE: "Dovrai trovarti una sistemazione. Ti ho lasciato la lista dei posti dove stare sul tavolino del telefono. Scegli tu, non mi interessa".
KEN: "E che cosa intenderesti fare dopo?"
BARBIE: "Ho comprato una parte della biblioteca di Oxford".
KEN:  "Una biblioteca. Tu? Barbie? Dimmi: a chi l'hai vista? A Krissy Gambelunghe? La vuoi copiare?"
BARBIE: "Non puoi capire. Fatti da parte. Sta per iniziare il mio soliloquio".
KEN: "Ma io non capisco come parli! Chi diavolo sei tu?!" (esce)

(Si abbassano le luci)


BARBIE: "Millenovecentosessanta. Millenovecentosettanta. Millenovecento ottanta. Novanta. Anni duemila.
Come sei in forma, Barbie! Sempre più bionda, Barbie! Che trucco magnifico, Barbie! Credono ancora che mi trucchi da sola... Ma quando è stata l'ultima volta che ho fatto qualcosa da sola? Ho parlato, forse. A meno che non ci fosse una di quelle voci registrate impiantate nella mia schiena. E allora si trattava di ripetere sempre la stessa frase ogni volta che a un bambino girava di premere il pulsante rosso. "Ti posso offrire del the con il mio fidanzato perfetto?". "Ti posso offrire del the con il mio fidanzato perfetto?". Ti posso offrire del the con il mio fidanzato bastardo, egoista e pallone gonfiato? Questa dannata parola: perfetto, perfezione. Esiste il troppo e il troppo poco,  ma non mi riguarda. Io: perfezione. Insomma, loro ti prendono, ti legano le mani e i polsi ad un cartone, chiudono questo cartone con plastica trasparente e ci mettono l'etichetta Barbie, ma lo sanno tutti che  sotto sotto ci volevano scrivere: perfezione. E lo sanno i bambini, le mamme, le nonne, i papà, gli amici degli amici. Lo sa il mondo. E diventi una specie di modello da prendere in considerazione quando si parla di canoni e misura, una specie di metro in plastica rosa. Che buffo. Tu sei il modello del canone occidentale. Una bella responsabilità, non c'è che dire. Vieni regalata alle feste di compleanno, per i natali e, in fondo, è un augurio: "ti auguro, cara bambina, di diventare così! Ma, mi raccomando, non lasciare la pasta nel piatto altrimenti mi arrabbio eh!".  E che importa se nel frattempo, dall'alto di uno scaffale, vedi generazioni di adolescenti che guardano prima te e poi lo specchio, prima lo specchio e poi te, specchio, te. E uno e due; e uno e due. Che importa se nel frattempo non riesco a togliermi questo stupido sorriso perfetto dalla faccia quando, invece, vorrei digrignare i denti e urlare a tutti che è uno stupido sbaglio, che io non sono la regola, ma che hanno voluto che lo diventassi? Ma il giorno è arrivato e io mi sono ribellata al successo, alla storia della mia vita. Sono stanca di entrare nelle ossessioni dei cervelli degli altri. Io domani metto tutto in valigia e parto. Dove non so. Però prima di farlo prendo un cartoncino bianco e, con il pennarello rosa, ci scrivo sopra: "Barbie è morta". E poi lo attacco al frigo con una calamita". (esce)

(Sipario)

Scritto e diretto da Cristina Taliento

Cast:

-Barbie nel ruolo di....................... Barbie
-Ken nel ruolo di..........................  Ken
-Risate registrate........................... bambini del pubblico
-Voce fuori campo........................ Cristina Taliento
-Personaggi nominati...................... Ken Il Guerriero
-Musica........................................ Carmen Consoli
-Luci e suono................................ bambino con l'apparecchio
-Addetto al sipario......................... bambina con le trecce
-Immagine di copertina...................Andy Warhol
-Per gentile concessione di...............©Mattel
-Dedicato a...................................Sarah fan di Tarantino Quentin

Si ringrazia per i fiori, gli applausi, i fischi, oh non preoccupatevi per il pomodoro, si smacchia.

17/11/12

Gioventù armonica in Re minore

di Cristina Taliento




Classe 1956: potevate essere comunisti e fratelli proletari anche con due ville al mare. Voi due, seduti sulle scale del liceo classico guardavate le vostre scarpe ricoperte dalle foglie rosse di tutti gli autunni del mondo. Avevate un accordo, occhi pesanti, il ritratto di un  Leopardi pensieroso piegato a quattro come segnalibro e adolescenze senili trascorse a indugiare, conservare, fumare lentamente, baciare lentamente, ostentando strafottenza per Orazio e per i suoi ripetuti carpe diem. La prima volta che l'hai vista era spettinata, piegata ad aggiustare la catena di una bicicletta modello maschile. Ti eri avvicinato e avevi coperto il sole con la tua testa dicendo un imbarazzato "ciao, come ti chiami". E lei, con le mani sporche di grasso, ti aveva risposto senza nemmeno alzare la testa: "Una come me lo sconvolge uno come te". E tu: "Non te ne devi preoccupare. Io sono già sconvolto di mio". Che commedianti eravate. Però ti aveva chiesto di restare, non fosse stato altro per l'ombra  che le facevi. Quanto vi sembrava scontato il barocco delle chiese del centro, scontate le promesse di non lasciarvi mai. Che importava se lei volesse vestirsi con le tue giacche blu a doppio petto o che dopo averla aspettata per tre ore seduto per terra, mentre deluso e triste facevi per andartene, lei sbucasse da qualche parte per prenderti alle spalle con un "ehi, tu, coglione" gridato a distanza. E per un certo tempo, un certo anno, siete stati voi ovunque, voi sulle giostre le sere d'estate, voi visti camminare da lontano, voi che vi abbracciate ridendo, voi inquadrati di spalle mentre osservate un quadro impressionista, che dite cheeeese con gli occhi chiusi, che cercate di imitare un passo di danza classica, voi sulle altalene con gli occhiali da sole, voi che litigate sui meriti del '68, che mangiate pastiglie Valda commentando critici le sceneggiature dei film ("è un finale per polli, dovevano farla morire con più pathos"; "vero... sarebbe bastata una promessa, un rimpianto confessato e anche noi avremmo pianto"; "peccato"),  ancora voi travestiti da annoiati aviatori giapponesi ad una festa, voi che stringete le chitarre con Santa Croce sullo sfondo, che salutate con il sole negli occhi . "Silviaaaaaa!- le gridasti una volta con solo il tuo fiato contro tonnellate di vento e pioggia-  Silviaaa, ricordi ancor quel tempo della tua vita mortale quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitiviiii e tuuuu- ululando su quel tu come un lupo alla luna- lieta e pensosa il limitar di gioventù saliviiiii?". E lei: "Cooosa? Non ti sento, grida più forte". E tu: "Nienteeee, che ti amoooo". E lei: "Non ti sentoooooo".

Venticinque anni dopo,

quando l'hai trovato seduto nel tuo reparto di rassegnazione e morte, quando, pur riconoscendolo all'istante anche dietro il cancro, senza dire una parola hai appoggiato il fonendoscopio sulla sua schiena sposata con la professoressa altra e hai mormorato, poi, "fai un respiro grande", hai auscultato il Leopardi, la sua voce sulla voce di Battisti, l'ultimo verso di quella poesia di Prévert, quel verso che faceva "noi facevamo il male/ Il male era fatto bene". Si, faceva così... quanto fumo e quanta vita. Hai indietreggiato per tenerti al muro e raggomitolarti nel camice e piangere di un pianto disperato e soffocante. Sei riuscita a dire dietro i polsi che ti nascondevano e gli strazianti singhiozzi: "Quel tempo della nostra vita mortale...".
Ha risposto: "Lo so". 


Fine.

"Perchè adesso non fai che scrivere dell'adolescenza?"
"Mah... forse perchè  mi sono accorta che se n'è andata e sono triste"
"Tempus fugit sicut nubes... "
"... quasi naves, velut umbra"
"Già"

11/11/12

Fisicastrolla delle particelle

o "Fisicastrocca", se gradite le C e non la pasta frolla.


di Cristina Taliento

      (Coffee, Sketches, Kumi Matsukawa, 2012, watercolor, from Urban Sketchers)


1930. "Gentili Signore e Signori radioattivi..."
scriveva Pauli riguardo concetti per niente visivi.
Si parlava del decadimento beta e di un'anomalia
che rischiava di portare persino  Bohr alla follia!
Tutti, infatti, si aspettavano che l'asocial neutrone
trasmutasse in due figlioli: il protone e l'elettrone.
Tuttavia con gli esperimenti questa certezza si perse
poichè gli elettroni avevano energie molto diverse...
Per ipotesi se ne spararono delle grosse per davvero
come quella che l'energia non si conservasse sul serio.
Menomale che Fermi prese la faccenda seriamente
e disse "allarme nuova particella, oh bella gente!"
Che fosse di carica nulla era già stato intuito,
la chiamarono neutrino e il gioco era quasi finito,
ma possiamo ancora ricordare tra i fermioni
la classe dei leptoni con i muoni, i tau e gli elettroni.
Quest'ultimi, è risaputo, sono degli spiriti ardenti
che se non prendono o si danno, non sono contenti.
Appartengono alle stessa specie anche i piccoli quark
il cui nome viene dalla penna di Joyce, what a fuck!
Mi rammarico per la nota anglosassone parolaccia,
ma con quark, a parte Mark, fare rima è una faticaccia.
Insomma, essi rispondono alla forza del campo elettrico
cioè la legge di Coulomb, per dire il nome tecnico.
Infatti i quark odiano a morte la solitudine
ed è per questo che si attraggono in ogni latitudine
e nemmeno di stare soltanto in due se ne parla
chè la forza del protone devono essere in tre per farla!
Up (u), down (d), charm (c), strange (s), giù, su...
di elencare le varietà dei quark non si finisce più.
Se poi con uno di essi c'è l'antiquark, ecco il mesone,
ipotizzato da Yukawa, detto pure (non ridete) pione.
Han raggio corto e il mesone π, specialmente
ha carica nulla oppure... prossima a niente!
A cavallo tra le due guerre non ci fu rivoluzione,
bensì quel biennio chiamato "fisica della disperazione".
Quel genietto di Dirac aveva scritto un'equazione
bella sì, ma, molto strana, con molteplice soluzione!!
In realtà, anni prima la fisica classica non era bastata
e ora anche la quantistica era bella e superata.
Vabbè, si esagera, sapete come sono fatta,
eppur l'Antimateria s'imponeva come una prozia matta.
Però quando l'esistenza del positrone fu dimostrata,
questa parente della fisica venne, invero, accettata.
E rimanendo in tema di esempi sulla famiglia
secondo voi, il protone che gemello si piglia?
Non sto parlando del suo cugino scemo neutrone,
ma di antimateria e segno 'meno'. Chi? L'antiprotone!!
Bravissimi, la risposta direi che è esatta,
un'ultima particella ancora e poi è cosa fatta.
Dopo mezzo secolo dalla sua iniziale supposizione,
LHC e CERN ne hanno dato approvazione.
Il bosone di Higgs finalmente ce l'abbiamo in sacco
anche se non si vede e potrebbe ancora farci scacco.
Queste particelle, difatti, solo la matematica le descrive:
nessuno le vede, eppur qualcosa lì dentro vive.
Eeh bravo Peter Higgs, anziano ragazzaccio intelligente
ma con il Nobel, poi, Peterino, non si è fatto più niente?
Ignoranti quelli svedesi! Amico, non ci pensare!
se non quest'anno, il prossimo ce la puoi fare...
Se ho imparato qualcosa da questa fisicastrocca
è: "inverti il gioco e la parola chè la rima poi si sblocca".
E la vita è più bella se stai al ritmo e non ti Fermi;
e per chiudere la metrica, Higgs, scegli: germi o spermi?



"...Perché, secondo l’opinion mia,
A chi vuol una cosa ritrovare,
Bisogna adoperar la fantasia,
E giocar d’invenzione e ‘ndovinare..."

(Galileo Galilei,1590)

07/11/12

Il Somaro

di Cristina Taliento

     (Gli scolari, Felice Casorati, 1928, olio su tavola, Galleria Civica d'Arte, Palermo)


Accadeva che barattassi la teoria per l'esperienza e che interrompessi gli astratti e pazienti  studi per andare a trovare un chimico, una specie di saggio pelle e ossa con la barba bianca e la sciarpa intorno al collo anche in casa. Non aveva mai insegnato, ma io e gli altri lo chiamavamo professore perché a guardarlo non ci sentivamo di rivolgerci a lui  nè con signore o dottore, nè solamente con prof. Professore, quest'esercizio che mi ha assegnato... Professore, questo passaggio, così. Questo punto qui, io non so come fare... ho creduto per un attimo... no, non poteva essere giusto. Poi un giorno- pioveva, i capelli umidi-  dissi: "Professore, il risultato che mi ha dato è sbagliato, perché il mio  procedimento è giusto e ho fatto i calcoli sette volte e ne sono stra-sicura" . Appena lo dissi mi pentii perchè lo conoscevo e anche se era girato di spalle in piedi alle mie spalle, io la vedevo quella metà di sorriso dove si sarebbe dovuta specchiare la mia faccia e pensai che doveva sembrare bella, a quel punto, lì riflessa, la mia arroganza. E allora aggiunsi per non sembrare troppo saccente che poteva esserci un piccolo sbaglio oppure uno troppo grande per essere visto nel suo insieme. Come suonava ancora più sciocca quella spiegazione davanti ai suoi libri, poi...
Silenzio. Scartò una caramella. Doveva essere una Rossana, carta rossa e scritta bianca, gusto miele. Non faceva che scartare caramelle Rossana durante quei lunghi silenzi in cui aspettavo un suo chiarimento e, non sapendo che fare, ricontrollavo io stessa. Guardavo la gigantesca tavola periodica incorniciata sopra la scrivania. Il mercurio. Simbolo: Hg. Mercury. Freddy Mercury. Freddy Hg Mercury. Freddy Hedgehog Mercury... Poi si avvicinò all'improvviso e restando in piedi, senza nemmeno aspettare due secondi, sbatté il dito indice su un punto preciso del foglio e disse: "Qua.  Che hai combinato". Che non suonava proprio come una domanda. Avvicinai la testa al foglio e dissi: "Qui?". "Questo numero, si". "Ho approssimato".
"Uh!" esclamava e già si allontanava verso un mobile su cui erano impilati alcuni suoi fogli. Era un esercizio lungo  che mi aveva dettato l'ultima volta che ci eravamo visti.
"Non è quello il punto. Me ne sarei accorta se il risultato si fosse avvicinato di un po', ma..."
"Ma! Ma! Stai sempre a dire ma, senza neanche sapere che dire. Ti devo chiamare La-comiziante. Hai fatto sessanta e passa approssimazioni su questi fogli e ti meravigli di essere in alto mare con il risultato! Che ti insegnano a scuola?"
Senza fiatare presi la matita e ricominciai a riscrivere daccapo numeri lunghissimi e, a mio avviso, inutili.
"Non mi piace che usi la matita. Correggi con la penna rossa altrimenti non imparerai mai". Feci come aveva detto senza mai alzare le sopracciglia anche se sapevo che non era un errore e nessun professore mi avrebbe mai abbassato il voto per quello.
"L'errore cresce al crescere delle approssimazioni e la Verità si allontana con le parole degli idioti".
Freddy Hg Mercury. Mi veniva da ridere.
"Gli uomini approssimano, non fanno altro che approssimare. E anche i migliori eh, non ti illudere! Approssimano un geoide a una sfera, approssimano l'individuo all'umanità, la paprika al peperoncino e se lo fanno, lo fanno per difetto oppure per eccesso. E se è per difetto sono atei, se è per eccesso evvivano gli angeli e i santi e il Paradiso! Ma io dico, non si potrebbero lasciare tutti i numeri dietro la virgola e tutt'al più comprare quaderni più spessi e teste tanto spaziose da riuscire a contenere la precisione senza tuttavia escludere il dubbio?" 
Lo ascoltavo con la penna rossa in mano, ma poi la penna cadeva sul foglio e mettevo le mani in tasca. Mi sentivo come una bambina di seconda elementare a cui è stato richiesto di trovare alcune parole contenenti il suono  -gn e che, nel chiedere aiuto a un grande, si sente dettare esempi come agnostico, ignominia, gnoseologia, antesignano al posto di gnomo o, semmai, di agnello. Che cosa potevo saperne io. 
"Ho paura che i quaderni di cui parla non siano in commercio, professore... e che certe teste..." mi permettevo di dire- che certe teste non siano state contemplate nella Genesi". E mi pentivo per averlo detto.
Sapevo, come si sanno alcune cose segrete mai dette, che era un uomo pieno di dubbi, un uomo nudo e viveva in quella sua stanza come per dire l'America. Un porto di mare: contraddizioni che urtavano le spalle a pensieri filosofici discriminati, ancore di ferro nero inchiodate sulle sue scarpe di scienziato stanco,  talenti sospesi tra l'infinito e il limite, desideri di grandezza coloniale per grandi insicurezze, amori rinnegati in nome dello Studio, canzoni di cantautori, menestrelli stonati e poi di colpo Schubert, ombre di fede, Darwin, gli extraterrestri, i fullereni, la morte, il dubbio di nuovo, il non aver mai pianto, la collezione di minerali, il ricordo del primo pugno sul naso, il primo "niente", il primo "riprovo", il secondo "niente". E lui che passava le giornate sulle carte e lui che per le feste si trasferiva in biblioteca, che non accettava di non sapere, che imprecava nel sentirsi riconoscere la conoscenza. "Ma quale conoscenza e conoscenza... ". Per questo io non gli dicevo mai che era un grande o, nel mio lessico, una bomba. Però aspettavo che fossero gli altri a dirlo. Per esempio una volta venne alle sette un ragazzo alto con gli occhiali e aveva la lezione dopo la mia. Disse: "Professore, ho passato l'esame, lei è un genio, lei sa tutto, lei è la Scienza scesa in terra".  
E sentivo che lui borbottava qualcosa, sempre girato verso il mobile dove erano disposti i suoi appunti. Il ragazzo con gli occhiali mi domandava a bassa voce che cosa avesse detto da laggiù e io alzavo le spalle. Ma lo sapevo che aveva detto a se stesso: "Un somaro... un somaro...". 

01/11/12

Bagno nel mare d'inverno

di Cristina Taliento


(Veduta in un porto, Caspar David Friedrich, 1815, olio su tela, Staatliche Schlosser und Garten, Potsdam-Sanssouci)


Stesse scarpe di tela rossa per entrambi, stessi jeans chiari strappati sulle ginocchia. Quindici chilometri su strada di una radio locale più un cd masterizzato di Bob Dylan e già si vedeva il mare, una spiaggia infestata da fantasmi di gabbiani e albatross e venti freddi del polo nord. Disse che a salire sulle dune più alte, nei giorni limpidi, si potevano vedere le montagne dell'Albania. Disse che l'università li avrebbe invecchiati e divisi per sempre e che tra qualche anno sarebbero diventati come i loro genitori, lei avrebbe messo le perle e lui la cravatta, già si vedeva padre. Che, a volerlo, la fine dell'adolescenza si poteva ricordare per sempre in quel pomeriggio e che i ricordi si imprimevano meglio se accompagnati da un atto di affermazione assoluta dell'essere. Il bagno nel mare d'inverno oppure un giro rubato su una di quelle barche verniciate di verde e blu, concluse che si potevano fare entrambi, ma si doveva correre per non farsi scoprire dal buio e dai guardiani del faro. Era quella la solenne fragilità dell'essere giovani, la taciturna consapevolezza che il tempo avrebbe travolto gli innumerevoli novembre insieme, la spontanea realizzazione che lui l'aveva amata per tutti quegli anni di lacrime individuali ed egocentrica rabbia, ma che la proiezione finale e segreta dei loro sogni comuni era, in fondo, proprio quello, un sogno soltanto. "Al tre ci tuffiamo". "Inspiro e salto in nome dei moschettieri del re!". "Dammi la mano e stai zitto". "Alterius Jovis altera tela! Uno, due e..."