La delusione era un velo di lutto calato sul suo viso bianco di morte. La mascella contratta, gli occhi assenti non guardavano più la luna, ma soltanto trapassavano l'aria distratti e come uncini rimanevano impigliati in ciò che sporgeva nello spazio: il rigido schienale di una sedia, un gatto, una scala di legno. Quegli occhi si chiudevano taciturni e lasciavano qualche volta libere le lacrime che egli non era riuscito a combattere. Aveva scritto Flaubert: "Non c'è nulla di così umiliante nel vedere gli sciocchi riuscire nelle imprese in cui noi abbiamo fallito". L'adolescente pensava dentro di sé che l'umiliazione stava nell'aver sottovalutato gli altri, nell'aver scambiato i loro nomi con comici appellativi e bonari compatimenti, nell'aver, più di tutti, creduto di essere, in qualche modo, migliore. E al nobile suono di quella confessione, piangeva più forte perché si commuoveva all'immagine di se stesso che soffriva e che nel dolore correggeva finanche Flaubert in virtù di un più illustre e raro sentimento. Premeva i palmi sulla fronte promettendosi una vita ai confini del mondo. Voleva essere ora un emarginato, uno di quei lebbrosi del Vangelo oppure il guardiano di un faro lontano dai villaggi e dalle città abitate. Desiderava espiare in riva al mare la colpa più grave che avesse mai potuto commettere: essersi sovrastimato. Si afferrava i capelli scompigliati criticando le sue abitudini. Ah! Se avesse rischiato di più! Se avesse teso di meno alla perfezione e di più al godimento sfrenato, alla bottiglia, agli amori! Digrignava i denti pensando a quanto insensate risultassero chiaramente ora le sue limitate perseveranze, la sua obbedienza, l'impegno sociale, il rispetto, il duro lavoro, la prudenza. Non erano che arbusti contro cui aveva per lungo tempo appoggiato la schiena mentre s'illudeva di essere sempre stato dotato di un portamento ritto per natura. E poi quegli alberi se l'era portati via la burrasca e lui si vide come un piccolo ramoscello incagliato nei legni spiaggiati di una vecchia barca. "Vorrei non aver dato mai tanto valore a quello che ho amato tanto" si disse a bassa voce. "Non si può amare qualcosa senza legarsi indissolubilmente ad essa" gli ricordò piano il fantasma alle sue spalle. Le sue mani tremarono appena attraverso i capelli. "Quei progetti, quelle cose in cui ho creduto!-gridò voltandosi l'adolescente- Non mi sono mai appartenute e mai mi apparterranno. Ingenuo, ho aspettato che questa delusione mi convincesse che ho sbagliato ogni scelta, ma perché non me ne sono accorto prima? Oh fantasma, perché tu non mi hai avvertito?". Ma il fantasma era scomparso già. Probabilmente, se fosse rimasto, gli avrebbe detto: "Bada, chi può mai sapere quale strada sia più giusta o più sbagliata, quale illuminata dal più grande sole d'oriente, quale, invece, accompagnata dal più bel tramonto?". E sospirando avrebbe aggiunto:"Ragazzo, non devi fare della tua nuova delusione la critica delle tue scelte passate, ma la lente che meglio analizza quelle da prendere in futuro, è questa l'esperienza...". L'adolescenze, tuttavia, si sarebbe alzato e l'avrebbe interrotto: "Lasciami stare!". E sotto lo sguardo di disapprovazione del fantasma, a dispetto della sua evanescente debolezza, avrebbe aperto la finestra sbattendo le ante contro il muro e fatta uscire la testa nell'aria fredda, avrebbe poi gridato con tutta la voce giovane e arrabbiata che aveva in corpo: "Ballate burattini! Ballate, belli scemi, chè vi vogliono contenti!".
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