24/08/11

Strambi e sospetti racconti

di Cristina Taliento


Mi trovai più volte ad ascoltare in piedi una storia curiosa che parlava di un tale Berti finito morto per inverosimili circostanze dovute, secondo chi narrava la storia, alla sfiga, al caso, anche se, a mio parere, niente l'aveva più coinvolto in quella fine della sua eccessiva ingenuità. Eh si... tale che chiamavano Berti, sei caduto sconvolto non appena hai visto la realtà che tu tanto credevi normale alzare le spalle come per dire "non mi dire proprio di aver fatto affidatamento su di me". Berti era un giornalista sui 45 anni, uno di quegli uomini che diresti "a posto", talmente "a posto" che è proprio questa la prima caratteristica su tutte le altre che gli altri notano di loro. Andava a lavorare tutte le mattine e scriveva articoli per diverse riviste, ma non si occupava nè di cronaca, nè di politica. Voglio dire, nessuno scoop, nessuna inchiesta, zero querele e zero minaccie di morte: una persona "a posto". Una mattina era andato a prendere sua figlia dalla scuola materna e dopo aver parcheggiato la macchina vicino al lago aveva preso una busta di pane grattato. La figlia allora capendo all'istante cosa comportava quella deviazione sulla via di casa, quella busta piena di pane, aveva esclamato: "Sono arrivati i cignoli!".

Iniziò in quel momento il suo tormento, la curiosa drammatica storia del tale Bertoli.

"Cignoli? Piccola Anna, si dice cigni. Dovresti saperlo" disse ridendo. La bambina non lo ascoltò poichè già gridava di gioia alla vista di quei grandi volatili dalle piume bianche. Intanto passò la prima mezz'ora senza che padre e figlia si stancassero di chiamare gli uccelli con lo stesso verso con cui la gente richiama di solito i gatti. Arrivò dunque una coppia di giovani, entrambi coi capelli rossi e le sciarpe di lana colorate. Salutarono. Poi il ragazzo chiese al nostro giornalista: "Lei sa da quanto tempo sono arrivati i cignoli in città?".

L'uomo rimase immobile per un attimo, poi alzò la testa e credendo di aver compreso male, rispose normalmente riprendendosi da quel breve silenzio: "Questi cigni- disse indicando con la mano davanti a sè- sono arrivati da poche settimane, io credo". I due ragazzi si guardarono e la ragazza trattennè un sorriso imbarazzato, poi si allontanarono in fretta.

"Papà mi compri un cignolo?" chiese d'un tratto sua figlia. Egli tossì, si aggiustò gli occhiali con il pugno chiuso.

"Piccola Anna, suvvia, si dice cigno e non cignolo. Ripeti."
"Ma tu hai sempre detto cignolo, anche prima!"

"Prima quando? Avanti, ripeti: cigno"

"Cigno"

"Bene".

Tutto sarebbe finito lì, se non fosse stato per la moglie che, sentito il portoncino chiudersi: "Siete andati a vedere i cignoli?". Berti non rispose e senza togliersi la giacca a vento andò nel suo studio, prese il primo dizionario della lingua italiana che vide-un tascabile alto dieci centimetri- e cercò: cigno. Non lo trovò. Sbuffò spazientito e, aperta la libreria di legno, prese il più autorevole dei dizionari in commercio, ma anche qui non ci fu nulla da fare. Pareva che la parola "cigno" non fosse stato che un vezzo momentaneo, come ad averla sognata per non sapere che altro inventare. Sentì la testa pesante e tuttavia non si trattenne dall'accendere il computer, aprire la pagina di Google e digitare con dita risolute la parola: cigno. Tirò un sospiro di sollievo quando vide quella parola scritta da altri, ma a ben osservare si accorse che i primi risultati del motore di ricerca non indicavano altro che cognomi: Giacomo Cigno, costruzioni ed edilizia; Luisa Cigno, fratelli Cigno e Co. Inoltre vide- e qui, tirò un urlo- che in alto c'era la scritta: forse cercavi cignolo. Da allora egli credette di aver perso se stesso, la sua ragione. Sentiva che qualcuno si stesse burlando di lui, della sua attività di giornalista, di uomo "a posto". Vorrei poter raccontare in queste ultime righe ch'egli si riprese dopo aver scoperto che non si era trattato altro di uno scherzo dei suoi colleghi i quali, magari, si erano presi la briga di ristampare due dizionari che ignoravano la parola "cigno", dopo aver naturalmente coinvolto la figlioletta e la moglie. Niente di tutto questo. Il tale Berti morì tre anni dopo, di crepacervello, non so come altro definirlo e morì, morì, così, semplicemente.

19/08/11

Talento zero

di Cristina Taliento

Quando mi sono trovata
seduta sulla spiaggia
nella pioggia come tramontana
capelli volati e mal di testa
briciole amare di chi se ne frega
residui di scogliera dietro
gli spazi delle mie dita
indifferente alla burrasca
e agli anni diciasette
finta sorda e finta muta
penna tra i denti
spirito fuori nell'acqua
ferita al braccio da una spada
bendata con una cravatta
niente mascara e vernice
talento e tecnica zero
fischiettando al vento
senza riconoscere il fallimento
vita parallela e astuta follia
offesa per nulla
borbottante e scadente
ho tracciato svogliata
disegni immaginari nel cielo
per poi alzarmi e andarmene.

16/08/11

L'educazione degli ammutinati

di Cristina Taliento



(Il giuramento degli Orazi, Jacques Louis David, 1784, Louvre, Parigi)


Venimmo accusati d'ingratitudine perché lasciavamo in disordine i nostri cassetti e dubitavano della nostra educazione, pur essendo giudicati allo stesso tempo come uomini e donne senza capacità di giudizio, privi d'analisi critica, inutili, dicevano, al miglioramento delle condizioni sociali del Paese. "Il dubbio non porta a niente! Lavoro! Lavoro!" ci gridavano alle spalle, dalle bocche dei tunnel in cui vivevamo. C'erano anarchici, intellettuali, spacciatori e antichi esattori delle tasse e nessuno, nessuno, che sapesse fare il caffè. "Ehi Francè, questa poltiglia mi fa schifo". Bleah. Ci trovavamo al centro esatto del mondo senza sapere che cosa fosse davvero il mondo, ma noi stavamo tra presente e passato con la testa bassa, l'aria tenera dei briganti, il mento sulle nocche, il freddo negli occhi. "Siete puliti, voi?". "Come ti permetti? Noi siamo gente apposto. Siamo gente apposto, noi. Ehi, come ti permetti". Quelli che ci guardavano ci dicevano vagabondi, bugiardi, ma non c'è bugia nelle mani di chi sbuccia un'arancia, di chi col naso cerca di sapere da che parte tira il vento, nelle mani rugose d'un vecchio che ti rispondono "non so, figlia mia, non so". E muti riuscivamo a camminare nell'incendio della Biblioteca d'Alessandria, assistevamo al suicidio di Lady Macbeth, all'attentato alle torri gemelle, cercavamo di mettere i libri in salvo dall'Arno in una giornata del '66 e facevamo tutto questo pur dovendo nascere mesi, anni e anni dopo. La grandezza della vita ci portava a studiare la sconfitta di Cartagine, la presa della Bastiglia, l'assassinio a Cesare, il processo a Giordano Bruno, ma poi finivamo attorcigliati come serpenti ai bastoni della filosofia e nessuno voleva questo. "Non voglio farti del male, avvicinati". "No, ti prego. Ho paura di te". "Hai paura di me?". "Si, ho paura". "Di cosa hai paura?". "Ho paura che tu mi possa confondere, prendere e uccidere ora". La filosofia non ha mai contato molto per noi, né per i nostri cani o per il nostro gregge. Dicevamo di essere innamorati dei campi, di Oliver Twist, Jane Eyer, delle barchette costruite con la carta, dei coleotteri, di Caravaggio, un quadro in particolare, di alcuni popoli decaduti nei secoli, della pioggia, di maggio e novembre, di una balalaica lontana di cui non ricordavamo il nome, ma, invero, l'amore non l'avevamo mai conosciuto e talvolta lo ignoravamo come fa una cattiva madre coi suoi piccoli. Scrivevamo poesie d'amanti che parevano filastrocche per bambini, ninna nanne cadenzate da ritmi infantili e noi fuggivamo la fanciullezza, quel sapere ancor meno, e per questo inventavamo d'essere cresciuti, così, all'improvviso, sotto un albero di oleandro, prima che il sole tramontasse, prima che venissimo chiamati per cena. "Dio è amore e il suo amore in noi è perfetto". "No, questo amore io non lo conosco". "Giuda! Traditore! Tu non sai quello che dici". L'amore era immobile, statico, qualcosa che rivestiva la religione e noi correvamo come tori e ragni, proiettili e fuochi d'artificio. "Vossignore- mi dice ad un tratto la Silvia-vossignore, ho da obbiettare. Che obbietti? dico io, qua tutto è lindo, fresco di bucato. No-dice e ripete-vossignore ho da obbiettare sulla vostra condotta di ciarlatano. Ciarlatano a me? Io tramando la mia conoscenza, ma che discorsi. Stai capendo la gravità di cotale irriverenza?". Molti di noi non credevano, parlavano nel sonno, ma mi avevano raccontato di qualcuno che pregava ogni sera, in ginocchio. Sentivamo il peso del nostro dovere e contraevamo i muscoli per simulare un affermato senso del rigore. Ed era per quello, io credo, che alla fine caricavamo i nostri bagagli sulle navi o sopra lunghissimi treni a due piani e poi qualcuno andava in guerra, altri prendevano a fare il medico, altri ancora diventavano marinai delle ultime file o bracconieri oppure scrittori, ma tra questi nessuno, nessuno, che sapesse fare il caffè. "Ehi Francè, questa poltiglia mi fa schifo". Bleah.