(Kingfisher flies over purple morning glories, Utagawa Hiroshige, 1850)
Sperare per qualcosa mentre un uovo bolle nell'acqua.
L'orologio segna le sette e mezzo di sera,
guardo fuori dalla finestra in cerca di una soluzione.
Sul balcone di fronte una donna fuma una sigaretta,
spera che sia l'ultima.
Che siano le ultime lacrime, le ultime medicine,
che magari quest'anno si ritornerà a nuotare.
E intanto le macchine sfrecciano,
sotto ai palazzi, sotto gli archi,
Mercedes, Panda, alcune station wagon
tracciano linee che si intersecano nel vuoto
sul ritmo di musicassette consumate come vecchie paia di scarpe.
In una di queste- sarà una vecchia utilitaria-
un padre guida da sette ore.
"Mi fa male la spalla" mi dice.
"E perchè ti fa male?" gli chiedo.
"Ho guidato tutto il giorno" mi dice.
"E perchè non ti sei fermato?" gli chiedo.
"Sono tutti i giorni che guido così tanto" mi dice.
"Roma-Lecce. Lecce-Roma. Lavori a Roma?" gli chiedo.
"No"
"E che ci vai a fare a Roma? Spacci?" dico per scherzare.
"Mia figlia è ricoverata al Bambin Gesù".
Una leucemia, credo.
E i chilometri scorrono come pioggia,
incontro alla speranza, alla storia naturale della malattia,
agli acquazzoni sul parabrezza,
al mio non saper che dire,
alle stazioni radio che parlano di cose strane
tipo in questo momento di come
preparare una maschera al cocco
per rendere
veramente
più morbida
la barba.
Sperare per qualcosa mentre rompo il guscio di un uovo,
in silenzio, nel piatto freddo di porcellana.
L'orologio segna le sette e quaranta di sera,
guardo fuori dalla finestra in cerca di qualcosa.
Un vecchio trascina i suoi passi lungo Via Emilia Est,
termina così il suo ultimo giorno di lavoro.
Dopo la festa, i biglietti, gli auguri,
alla fine ha perso l'autobus.
Il suo discorso di commiato faceva più o meno così:
"Ringrazio quanti di voi hanno voluto rendere omaggio
alla mia carriera con un ricordo, un gesto, un abbraccio.
Non è mai stato un mio pregio quello di
sentirmi comodo al centro dell'attenzione.
In realtà l'unico posto dove mi sia sentito comodo,
o per meglio dire, a mio agio, a posto eccetera...
beh, quel posto è stato la sala operatoria.
L'unico posto in cui abbia smesso di tremare
e francamente l'unico in cui non mi sia mai annoiato.
Brindo a voi che mi sostenete,
con l'augurio che tra qualche mese
non mi troviate a passeggiare per il parco
con l'aria da completo scimunito
e al guinzaglio il mio cane Bob".
Un vecchio trascina i suoi passi lungo Via Emilia Est,
pensa e ripensa,
ma in realtà ha solo fretta di tornare a casa.
Quarant'anni di carriera, duecento pubblicazioni...
eppure gli sembra ancora
di essere quel ragazzino dalle ginocchia ossute
con in braccio la sua piantina.
Non lo so cosa spera.
I chirurghi non sperano sul serio.
Soppesano le probabilità.
Tuttavia,
magari,
spera
un giorno
di ritornare.
2 commenti:
Cara Cristina, dimmi cosa sarebbe la vita, se non si sperassi!!!
Ciao e buon pomeriggio con un abbraccio e un sorriso:-)
Tomaso
I chirurghi sono un hic et nunc
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