di Cristina Taliento
Ed era il tempo, nuovamente il tempo, il suo pensiero dolce che usciva dalla moka insieme ai piccoli schizzi che macchiavano le piastrelle bianche della cucina. No, non voleva lasciarsi coinvolgere. Spegneva il gas. Versava il caffè nella tazzina, beveva nel silenzio. Un cruciverba, una matita, un orologio da polso che avrebbe messo. Che non avrebbe messo.
Era il Tempo, o meglio, il pensiero del tempo che sedeva a fianco a lei sull'autobus numero 5 delle sette e trenta. No, non poteva. Premeva il tasto che faceva lampeggiare la scritta "fermata prenotata". Scendeva. Si fermava all'edicola per comprare il giornale. Nessuno lo faceva più, ma lei, d'altronde, non avrebbe potuto smettere. Il Tempo, allora, diventava l'articolo che stava leggendo, la fotografia che stava guardando. Girava pagina.
Non voleva, c'era qualcosa di sbagliato nell'amare fortemente il passato, nel costruire ogni giorno un'immagine di sé che s'ispirarasse alla lei più giovane, alla lei di quando loro -tutti loro- erano stati giovani.
Non si poteva, non si doveva.
Non era facile, per niente facile, vivere il presente come se questo fosse già passato, idealizzarlo al punto da collocarlo nella perfetta cristalliera dei ricordi.
Gianni viveva come uno zingaro; mangiava i momenti senza curarsi di averli digeriti, era vorace, ma dimenticava. Si faceva trasportare da una strada all' altra dalla corrente delle occasioni, delle sue voglie, paure, ambizioni eppure si sbarazzava di un momento come di un pezzo di carta. Non aveva paura di accortacciare in un solo gesto tutti gli scontrini della sua esistenza, buttandoli semplicemente senza guardarli dopo, senza desiderare di non averlo fatto.
Elena non era come lui. Avrebbe preso quelle cartacce tra le sue mani spaventata dal pensiero di non poterle possedere, di non poter trattenere il mare che ogni anno avanzava sempre di più -sempre di più - rovinando la pittura della casa sugli scogli, dove tutto era stato una volta così bello. E sarebbe corsa laggiù con il vestito bianco, ci sarebbe andata anche in autunno a urlare contro il mare di andare via, via, di lasciare stare quella casa, la casa delle sue estati, di non rovinare niente. Avrebbe preso a calci le onde, maledette evanescenti macchine di rovina, per riprendersi indietro la sua vecchia spiaggia insieme ai suoni delle risate- le loro risate- che ancora oggi lei poteva sentire così vive tra le raffiche di vento. Ma tutto era serio, tranne lei. Tutto era sobrio e mal messo, tranne lei. Tutto così gravemente eroso dalla salsedine. E ciò che non era distrutto, era stato rinnovato, con uno stile molto diverso da quello del 1989.
Gianni aveva una sua visione del mondo, degli avvenimenti. Diceva che le piccole dosi di tristezza saltuaria, se non quotidiana, servivano per preservarti da più grandi sciagure che di solito si abbattevano nei periodi di quiete assoluta. Quando un suo amico era depresso, ripeteva questa teoria e poi se ne andava, lasciando però con il suo fare disattento molta più consolazione di quanto ci si potesse aspettare da un amico premuroso. E con Elena faceva lo stesso. Egli credeva che le menti fragili come quelle di Elena avevano bisogno di una boa a cui aggrapparsi per non annegare. Quella boa era la superstizione, il paradiso, e nel suo caso il pensiero che la tristezza a bassa frequenza andasse bene, che potesse addirittura proteggerla dalle catastrofi. Lei ci credeva, sospirando, borbottando, non voleva fare a meno di annuire perché, alla fine, tutta quella malinconia era il caldo cappotto che l'avvolgeva dandole un'identità e una memoria. Vi era, infatti, in quel suo modo d'essere lontano e distante, la storia della sua vita, la testimonianza che lì era passata la gioia, l'amore, l'avventura e poi il tempo aveva asciugato ogni cosa, prima di sgretolarla, frantumarla fragorosamente nei tuoni e nella burrasca di quel presente in cui ella non riusciva più a riconoscersi, dove per quanto potesse piangere, le lacrime non erano le sue lacrime, i sogni non erano più i suoi sogni e niente che facesse e vivesse si sarebbe potuto paragonare a quel periodo in cui il meglio doveva ancora venire. E detto ciò, si sarebbe potuto festeggiare a lungo, stappando champagne, conversando amabilmente con le mogli dei suoi vecchi amici, ma questa era la sua consapevolezza, quella di non ritornare indietro, di non rincontrarlo più.
Elena viveva nel Tempo. Alcune sere era il suo unico amico, tutto quello che aveva, quello che le era rimasto. Rispondeva al presente accendendosi una sigaretta perché non avrebbe saputo cosa dire, che, che... si, era stata felice, che probabilmente poi dopo non si era sentita più così viva. Il fumo che la circondava ne sfumava i contorni, come se ella stessa non fosse stata reale.
Io la guardavo con dolore. Ella era quella a cui non avrei mai voluto assomigliare.
"Gianni non ti amava. Ha sposato un'altra" ho detto con la schiena appoggiata alla ringhiera del balcone.
Gianni, poi. Esisteva davvero?
"Accidenti, come fai, come fai a rimanere così vittima dei tuoi sentimenti? Perché non li tratti con meno rispetto? Perché non accetti che qui siamo tutti un usa e getta generale dove si vive e si muore e si dimentica e si va avanti?"
Mi guardò.
Continuai: "Non puoi ricordare così forte. Così sei un fantasma".
E lei che lo sapeva. E lei che avrebbe voluto non saperlo.