un racconto di Cristina Taliento
Tutte le estati, all'infuori di quella, erano state dei circhi di sole e tramontana nei capelli, sale sulla pelle, palloni da calcio sgonfi alle tre del pomeriggio sul campo rovente. Canti, soprattutto. E fisarmoniche notturne, gridi di rondini e grida di ragazzi, fichi lasciati seccare lungo le pareti.
Quell'estate dopo il diploma, invece, fu diversa. Cambiarono i suoni, il modo in cui essi venivano uditi. All'improvviso fu come se le strade, le spiagge con i loro falò, fossero state sepolte dall'acqua e io nuotavo con la maschera in mezzo ai semafori sommersi, tra le cabine telefoniche e, sempre nuotando dentro il mare, capitava che entrassi in qualche bar con la porta socchiusa, mossa dalle correnti marine. Le poche onde sonore viaggiavano veloci, svanivano subito. Intorno a me non c'era che silenzio. O forse ero io che avevo smesso di ascoltare oppure stavo solo crescendo. Girava voce che le peggiori, devastanti, metamorfosi avvenissero d'estate, nei campi, al morso secco di una taranta e che i sintomi si sfogassero in una danza irrequieta di muscoli in tensione, mascelle serrate, occhi spalancati, spaventati, posseduti. Io lo sapevo che mi stavo trasformando, che dovevo iniziare a incamminarmi sulla strada che avevo scelto, ma mi sentivo anche piuttosto calma e spesso, su una sdraio, mi sedevo sbadigliando con le dita intrecciate dietro la nuca. Ma dovevo andare. Comunque, bisognava che andassi, lontano da dov'ero.
Per placare le mie velleità eroiche cercai la benedizione di qualche vecchio saggio e andai da uno zio di mio padre, andai nella sua campagna all'inizio di luglio, zucchine e melanzane sulle file di piante, un capanno degli attrezzi dietro l'antico, enorme, albero d'ulivo.
"Buonasera" dissi alle tre del pomeriggio, sole dappertutto, sole fino alla morte.
"Buonasera" disse alzando la mano con il sigaro.
Era mio dovere di ragazzina allegra e loquace, quale si supponeva che dovessi essere per via dei diciott'anni e della mia maglietta fucsia, intrattenere il vecchio perdendomi in convenevoli e sorrisi o, almeno, riempire il silenzio con qualche discorso sulla scuola o altre chiacchiere del genere. Accadde che me ne stetti zitta, sospirando di tanto in tanto, mentre contavo e ricontavo tutte le sante piante di zucchine per ogni benedetta fila.
Il vecchio fumava lentamente e qualche volta tossiva per niente spaventato da quel silenzio.
"Sono uscite le pagelle?" chiese poi.
"Veramente mi sono diplomata" risposi.
"Sessanta su sessanta?" tirò ad indovinare girandosi a guardarmi con un mezzo sorriso sulla bocca.
"Cento su cento, veramente"
"Uh! E la lode no?"
"No, la lode no"
"E adesso che vuoi fare?"
Ma il punto era proprio quello. Io volevo la sua benedizione per quell'impresa.
"Studi sull'uomo" risposi sul vago.
Da vecchio saggio qual era non chiese altro.
"Il fatto è che sono pochi quelli a cui è permesso studiare questi Studi sull'Uomo" aggiunsi, pregando perchè mi sommergesse dalla sua lunga esperienza di vita in merito al coraggio, alla fede, all'essere giovani. Alla determinazione, eccetera.
"Mmm" disse.
"Infatti, magari adesso sto dicendo che voglio fare Studi sull'Uomo, poi magari non mi prendono e vado a fare, che so, falegnameria, che io adoro eh! Però, insomma, è giusto specificarlo perchè voi me l'avete chiesto e quindi... Comunque non è il mio sogno, peggio. E' il mio male, il mio ossigeno, voglio sapere tutto di questi studi, sniffarli, mangiarli, non lasciare niente nel piatto, vivere di quei libri e basta."
"Studi sull'Uomo..." ripeteva il vecchio con il sigaro al lato della bocca.
"Esatto. Io è da quando avevo sei anni che sono fissata con l'umanità" dissi, ma a quel punto avevo parlato troppo.
"E che bisogna fare per fare questi Studi sull'Uomo?"
"Passare delle selezioni, tipo"
"Mmm! Si, ma che bisogna fare?"
"Studiare, io credo"
Mi lasciò un po' di tempo per farmi accorgere che io ero lì, in una campagna di luglio, quando avrei fatto meglio a studiare.
"Bene!" disse alzandosi dalla sedia e andando verso il capanno degli attrezzi. Ma io presi quel "bene" come la benedizione che cercavo.
E quindi, quella sera stessa, partii, andai lontano da dove mi trovavo. Ferma, seduta alla scrivania, imparai in un'estate nozioni di scienza, formule, definizioni, fenomeni biologici. Sentivo su di me lo strano peso delle cose che non avevo, che non sapevo, della mia ignoranza e per non essere indifferente, mi venne spontaneo tacere. Mi chiusi in una stanza, ma in realtà in quella stanza c'era il mondo, la materia. Pagine e pagine di chimica organica, matematica, Archimede. Non volevo altro che tempo e non il mare, non il divertimento.
Alcune volte mi vedevo battere le spalle contro i limiti. La paura mi spingeva ad accendere piccoli fuochi, speranze nella notte. Dubitavo di me con la stessa sfiducia riservata ai figli peggiori. Nec speraveris sine desperatione, nec desperaveris sine spe. Mi ritrovai a cambiare le mie idee, potenziarle. Quei grandi cambiamenti esprimevano l'essere e lo esaltavano, lo facevano vibrare di una nuova adrenalina perchè non stavo andando ad aggiungere ricordi, ma conoscenza. E quello che imparavo era così perfetto da non essere preda delle interpretazioni del senso comune, nè soggetto ai pudori del popolo. L'anatomia non si doveva coprire, ma scoprire. La fisica aveva forze che seguivano precise direzioni. Era dato che un corpo soggetto alla forza di gravità cadesse verso sempre e solo il basso. L'immaginazione era immaginazione. La fantasia permetteva il volo, ma la scienza alzava gli aerei nel cielo, permetteva voli reali per altri grandi voli immaginati.
Io, alla fine di quell'estate, mi sentivo addosso la mia nuova, sudata, ricchezza e pensai, di fronte al mare, in piedi sulla scogliera, che era proprio una figata pazzesca.
2 commenti:
sai sono davvero felice che una che voleva fare studi sull'uomo e non studiare le malattia sia stata presa a Medicina, secondo me sono quelli che studiano l'uomo i medici migliori
mano sul cuore :,)
darò me stessa, ogni energia...
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