di Cristina Taliento
(Friday nights, Deborah DeWit Marchant, 2006, pastel, Portland, Oregon)
Erano forti e calmi. Modelli d’integrità morale e coraggio. Erano: cuori di quercia e intelligenti muscoli di ghepardo, denti bianchi chiusi intorno a bastoncini di liquirizia, dita sottili appese a corde di chitarre, capelli morbidi sempre legati, tagliati corti o nascosti dentro sciarpe di lana. Vedevano loro stessi come gladiatori sprezzanti della morte e degli anni diciannove, come i centauri taciturni delle solitarie pianure del sud; profili di ragazzi persi a guardare il mare. Erano per di più figli maggiori severi e primogenite arrabbiate, riflessive, prudenti. Vivevano in robuste fortezze costruite con la carte da gioco del pensiero e non avevano paura delle raffiche di vento o di vedere quelle carte volare via come uccelli. Pazienti, all’indomani della tempesta, camminavano con sguardi bassi nell’alba e ricostruivano, dalle macerie, i muri delle loro personalità senza chiedere aiuto a nessuno. Erano tra i migliori studenti del Paese, gli inconsapevoli pilastri di una società nuova, potenziali giornalisti e futuri medici, biologi, matematici, scrittori. Ridevano sinceri ai matrimoni, alle feste organizzate per gli amici e, sebbene preferissero i solenni boschi del silenzio e della solitudine, era proprio in quei momenti che svelano il proprio essere; dopo una risata, per esempio, mentre gli altri cambiavano argomento o si versavano altro vino nel bicchiere, loro continuavano a sorridere come di un sorriso nostalgico e piano si toccavano la fronte. Osservare questi dettagli poteva essere quasi come rompere la loro intimità, entrare pubblicamente nel loro privato. Poteva essere come vedere i nodosi rami della loro esteriore, salda, dignità farsi più lunghi e flessibili, allungarsi muti verso fantastiche mete a sonagli di cui mai nessuno degli uomini seduti al tavolo avrebbe sospettato. Spesso erano creduti come giovani dai polmoni di ferro, troppo assenti dal fumo della vita e dai suoi giochi, lontani da ogni sorta di romanticismo e, in definitiva, poco inclini a lasciarsi amare. La sicurezza nel loro incedere, infatti, sembrava eliminare quella vulnerabilità da cui alle volte si innestavano i rapporti, le relazioni. La riservatezza delle loro spalle suggeriva, poi, a quelli che li guardavano da lontano a guardarli solamente, appunto, reprimendo l’impulso di gridare il loro nome per fare così la strada insieme. Oppure era l’emozione suscitata dalla leggera allegria schiva dei loro occhi a provocare negli altri un maggiore desiderio di fuga. C’erano delle sensibilità, soprattutto, che tenevano nascoste alle indagini serali dei loro genitori o nelle confidenze per i fratelli. Nessuno le vedeva, queste sensibilità, anzi i più dubitavano dell’esistenza, però se ne avvertiva il peso quando venivano silenziosamente ferite. Una parola detta per sbaglio ed ecco che il loro cuore si contrae, i loro sguardi si abbassano e scivolano nell’acqua di uno stagno. Una frase! Una frase basta a calpestare la delicata neve bianca che in molti avevano scambiato per marmo. “Ho detto qualcosa di sbagliato?” capita che chiedano i più attenti notando l’impercettibile vibrare del labbro. Oh no, niente. Eppure qualcosa si ritrae, si accorcia; il mento si appoggia deluso su una spalla e gli occhi si arrossano. Le gambe fuggono lontane giù per la campagna accompagnate dalle zampe di un pastore tedesco. Le braccia lanciano arrabbiate una palla che, dopo un po', un muso canino restituisce con tacita discrezione.
Erano dei ragazzi vincenti, come dicevano i presidi con orgoglio, ben educati, come ripetevano le loro zie versando il tè alle vicine, e feriti, come avrebbero detto loro se avessero avuto voglia di parlare. In segreto, offesi dal mondo. Non lo davano a vedere, dopotutto. Nessun desiderio di sparire, nessuna canzone disperata per consolarsi, pagine di diario annerite prossime a zero. Camminavano invece alti e sicuri e magari gli anziani si inchinavano alla loro preziosa gioventù, forse alcuni coetanei, al loro passaggio, si sentivano stringere il cuore al pensiero di quanto fosse difficile, in fondo, imitarli, così com'erano, così liberi. Ma loro non si accorgevano di nulla e ogni tanto si interrogavano sul perché di quella spropositata sensibilità da occultare. Incolpavano i ricordi di infanzia, il funerale dei loro nonni, il giardino, i cartoni animati tristi, le poesie nascoste dietro le odiate foto sul camino, le illusioni volontarie, le ragioni che avevano portato a quelle illusioni, le paure, le estati trascorse a guardare con finta disinvoltura il cielo distesi sul prato e gli inverni passati sul letto a fissare senza pudore un immobile soffitto bianco, quasi sempre troppo bianco. Eppure non piangevano mai, nè si lamentavano per i mal di testa; rifiutavano analgesici e antinfiammatori. Si giravano sul fianco e prendevano sonno.
8 commenti:
Buona serata Cara Cristiana, e bello passare e leggere dei buoni racconti.
Tomaso
Salve salve!
Magari mi chiamassi Cristiana, mi è sempre piaciuto di più.
Rendo la visita e trovo un blog intelligente e dallo splendido layout, magnificamente illustrato. Complimenti!
Popinga
Grazie prof!
La tua resa espressiva é sempre più sorprendente, anche se non oso dirmi il senso della metafora che ricavo da questo racconto.
Criptico Adrian
Ho riletto e ho concluso che: troppe enumerazioni, l'uso dell'imperfetto a lungo andare appesantisce e rende lo stile una cantilena liturgica a tratti priva di senso. Troppi aggettivi. Attenta, ne usi anche due per volta e tre periodi (tre!) introdotti con lo stesso "eppure", forse non te ne sei accorta. Troppe coordinate. Ogni tanto una subordinata anti-sbadiglio ce la puoi mettere, ragazza. Ho intravisto dell'egocentrismo emotivo, poi. Si verifica quando credi che gli altri siano nella tua testa e leggano nelle righe così come lo fai tu. No.
Va bene, basta. Sai che non è mia abitudine commentare gli scritti altrui...solo perchè me l'hai chiesto. Mi devi un favore.
Tanti saluti,
Cristina Taliento
Grazie per la sincerità Cri, ci si vede in giro! A presto!
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