23/03/10

Nel sole muore il laccio della scarpa sinistra

a Sarah Tafuro


Il suono delle orchidee
brilla nel lago
che porta a casa
per il sentiero delle api.

Dei pomeriggi passati
a studiare lo scheletro
delle verdi foglie rimane
il sussurro rosato di un ricordo

e la fragile scintilla
al lato delle amare labbra
si tuffa nel riflesso
del tramonto oscuro.

Non sono nuvole
quelle in cielo, ma uccelli
pionieri di grandi avventure,
solitarie.

Le libellule di sole
sorrideranno ai miei "non so"
in onore e per rispetto
del cantautore innamorato

e il mozzicone di matita
dorme fra le due metà,
domani, forse, si
alzerà per descrivere

quello che giovedì
uno starnuto d'aria sembrerà;
perchè nel sole muore
il laccio della scarpa sinistra.

Nel sole muore
il laccio della scarpa sinistra.

(C.T.)

20/03/10

Memorie di un cane sentimentale- VII cap.

di Cristina Taliento





(Schizzo a matita, Urban Sketcher)


Baltimore, Maryland. 1950 - Alle volte, noi cani, mentiamo a noi stessi e lo facciamo senza accorgercene. Inganniamo le nostre coscienze con infinite illusioni. Ci convinciamo che la pioggia non cadrà, che nessuna malattia colpirà i nostri amici. La sera ci raccontiamo che il giorno dopo, comunque vadano le cose, noi troveremo da mangiare. Siamo maledettamente bugiardi, ma questo è un modo per andare avanti... fingiamo di non vedere gli ostacoli per saltarli tutti in una volta.
Prima di quel momento della mia vita, prima di ammettere tutta quanta la vigliaccheria del mio animo, avevo vissuto con grandi e piccole bugie, pensando che sarebbe bastata una convinzione per affrontare i giorni, uno dopo l'altro. Ero stato superficiale, voi direte, ma lasciamo stare come mi sentii dopo, quando, atterrato dalla vergogna che provavo per me stesso, non riuscivo a piangere su nessun letto di sicurezze. Perché quello che trovai furono solo frottole, nient'altro che stupide, banali, infantili frottole. Non so per quante notti abbaiai alla luna e per quanto tempo, in quel bagliore, le mie lacrime brillarono come piccoli frammenti di cristallo. Non ho la più piccola percezione del numero delle mie passeggiate senza una meta precisa per i vicoli di Baltimore oppure dei numerosi tentativi di provocare l'ira della polizia. I miei sentimenti erano un annodato groviglio di fili e, sebbene
mi sentissi come un pesce sballottato dalle onde, non ero per niente intenzionato ad uscire da quella situazione. Ero stato un vigliacco, un cane meschino. "Come avevo potuto abbandonare Lisa proprio nel momento del bisogno, in mezzo a quei rottweiler famelici? Che razza di creatura lascia che l'orgoglio limiti a zero le probabilità di un immediato soccorso? " mi chiedevo sempre, ovunque andassi, qualunque cosa facessi.
Mentre camminavo, nella mia mente si costruivano spontanei dei monologhi sul coraggio, sulla sua importanza e sulle conseguenze della sua mancanza e arrivavo, il più delle volte, a questa conclusione generale: tutti credono di essere coraggiosi, ma solo pochi di essi lo sono veramente. La morale che mirava al mio caso specifico, invece, era unica e di gran lunga più dolorosa: ero un vigliacco, codardo e facevo schifo, di uno schifo profondo e raccapricciante. Mi dissi che un tipo come me non meritava di stare in questo mondo di infami perché io ero il più infame di tutti e superavo ogni limite di cattiveria ed indifferenza. Vedevo crollare tutto il mio passato. Dopo quell'episodio nessun giorno, nessuna azione, della mia vita passata aveva più un senso. Mi chiedevo a cosa fosse servito nutrirmi e crescermi se quello era il risultato della mia insignificante vita di cane bastardo. Mi rispondevo che ero solo una sagoma nell'oscurità a cui si sarebbe potuto trovare qualunque nome o titolo, se un nome e un titolo fossero bastati a coprire la sporcizia del mio animo animalesco. Poi, talvolta, preso da pensieri improvvisi, drizzavo le orecchie e mi mettevo in ascolto e immaginavo che Lisa venisse a perdonarmi. Lei, da sola, senza nessun rottweiler intorno. La vedevo nella mia mente farsi più vicina e darmi un bacio sul muso come quella volta sul fiume. E io rimanevo lì, con gli occhi chiusi, aspettando di sentire il rumore dei suoi passi, ma c'era tanto vento dentro le mie orecchie. Solo troppo vento che mi oltrepassava come se fossi stato invisibile, come una piccola foglia in autunno a cui piace essere trasportata dalla corrente.
Mi chiedevo cosa stesse facendo adesso, se fosse ancora viva. Non avevo più nessuna certezza riguardo la sua vita. Era l'alba e la strada deserta. Mi acciambellai sotto la debole luce di un lampione bagnato dall'umidità della notte. Credetemi quando vi dico che mi sentivo come l'ultimo degli esseri viventi. Desiderai essere una pianta, una formica, un gatto, una mela... tutto tranne ciò che ero e che avevo dimostrato di essere. Provavo pena nei confronti di ogni singolo muscolo che componeva il mio ignobile corpo, lo reputavo inutile... i miei occhi, oh Dio, i miei occhi! Che mostruoso sguardo da codardo che mai nessun cane dovrebbe avere.
Dicono che scatti un meccanismo ad un certo punto delle vicende, qualcosa di profondo e misterioso che ti spinge a fare tutto quello che non avresti voluto fare, qualcosa che ti parte dalla bocca dello stomaco e ti stritola...
Non so bene come spiegarvelo, ma se avrete l'occasione di parlare con un gatto ve lo spiegherà lui. Con chi? Con un gatto! I gatti hanno la mania di lamentarsi sempre per quelle palle di pelo che sputano in continuazione... bleah! E' uno spettacolo orribile! Ma sono convinto che sputare una palla di pelo è un po' come quella sensazione che ti stravolge dentro e, magari, tu non l'avevi previsto minimamente che mentre stavi sdraiato ti sarebbe venuto un rigurgito di emozioni così violento.
Improvvisamente mi parve di essere diventato matto, ma non matto per gioco, come le altre volte, ma questa volta ero impazzito davvero: come diavolo mi era saltato in mente di starmene con il muso sulle zampe mentre la mia Lisa era chissà dove? Ero stato un idiota per uno spazio di tempo sufficiente... ora bisognava sbrigarsi.
Alzai gli occhi verso i primi raggi di quel sole di primavera e trovai tutto quello che mi serviva. Non so se fu coraggio o indignazione, ma qualunque cosa fosse servì a farmi correre contro vento, a digiuno, su chilometri di asfalto americano. Più correvo e più mi mancava il fiato, ma mi dicevo che mi meritavo pienamente ogni singolo affanno, palpitazione accelerata, colpo di tosse. Mi meritavo tutto, lo sapevo, e correvo come un dannato verso il Baltimor River. Era lì, me lo sentivo... la immaginavo ferita a morte, distesa a contemplare le luci della città dentro l'acqua. Non andavo a chiedere perdono, non andavo ad implorarla, non mi interessava mostrarle quanto ero stato male, non avevo intenzione di fare sfoggio della mia vigliaccheria quasi per dire: "Non ci posso fare niente se sono un codardo". No, mi sentivo più sfacciato che mai... volevo guardarla negli occhi senza suscitarle la più schifa commiserazione e correvo a denti stretti con i polmoni che stavano per scoppiare e un principio di determinazione infilzato nel cuore. Sul rumore delle zampe che grattavano contro l'asfalto pensavo e ripensavo. "Corri- mi dicevo - corri bastardo, corri adesso, bastardo. Corri adesso, razza di vigliacco!!"
Ero un maledettissimo cane... Ero un maledettissimo cane che aveva capito che Amare significava sfondare le porte della vigliaccheria, amare significava non aver paura di non trovare le parole, amare stava nel trovare il coraggio che non sapevi nemmeno di avere, amare significava mandare al diavolo tutte le fisime mentali, ogni singola ipocrisia dell'animo. Amare, in quel momento, significava correre e fregarsene del cuore che era rimasto indietro, amore significava lottare contro me stesso.