(Evening marsh landscape, Emile Nolde)
Dopo un periodo post-laurea di onnipotenza, credersi Dio, giovani dentro, giovani fiori, Ego pompato, muscoloso, spavalderia e saccenza, dopo un periodo pieno di tutte queste balle mescolate alla rinfusa a mo' di quei cocktail che mi sparavo la sera con i miei dannatissimi amici e conoscenti, ritornai a spalare limiti e paure in un vecchio ospedale di provincia.
Mi si chiedeva di dover fare la gavetta, giustamente.
Non fu facile accartocciarmi quello stupido illusorio e magnifico ego per farlo entrare all'interno di una nuova vita di stenti. Ma alla fine, vi dirò, fu un sollievo. Di farmi la splendida ne avevo abbastanza, d'altronde fin da piccola provavo entusiasmo per attitudini strane come il sacrificio degli eremiti e i pesanti silenzi dei monaci medioevali.
Una cosa che mi rincuorava erano i raccattapalle, un gruppo di ragazzini, le schiappe della squadra, addestrati a raccogliere le palle che venivano calciate al di là della rete.
Dalla grande vetrata dell'Ospedale li guardavo, quei poveretti. E tutto sommato li ammiravo.
Non è forse una grande dote correre da una parte all’altra con un bel mazzo di umiltà e coraggio indossando una maglietta con su scritto Il Team della Palla?
Beh fatto sta che alla fine chiamarono anche me. Chiamarono anche me per fare la raccattapalle.
"Che diavolo vi salta in mente, buon Dio?" dissi sconcertata sulla porta dell'ambulatorio.
"Fai la gavetta, spala" mi risposero.
Così presi l'ascensore con la zaino che mi pendeva sconsolato da una spalla come sconsolati erano i miei sogni di gloria. Tasto meno uno. Giù, agli inferi.
Imboccai uno di quei corridoi nelle retrovie dove esce sempre del fumo da qualche parte indefinita del soffitto e dove uomini vestiti di bianco spingono pesanti carrelli pieni di cibo d'ospedale.
Alla fine arrivai in quello strano posto. Un campo da calcio. Si fa per dire. Un quadrato di polvere e sabbia, due reti, una sola panchina.
Me ne stetti lì ferma vicino alla ringhiera strizzando i miei occhi miopi per mettere meglio a fuoco i giocatori e tutta quell'enorme messa in scena architettata a posta per farmela pagare, per farmi dannare.
Non ero arrabbiata. Come ho detto mi piaceva la vita dei monaci medioevali, zero gratificazioni, zero capricci, zero storie. Era solo che avevo un po' di nostalgia dei vecchi tempi, del vento sul mio sorriso quando ero io a guidare la barca. Avevo anche un cane all'epoca. Un alano che mi seguiva ovunque. Si chiamava Bob. Poi morì. Io mi laureai e la mia vita cambiò.
Così aspettai in silenzio. Dopodiché andai dal capitano.
Dissi: "Buongiorno, sono la nuova raccattapalle"
"Buongiorno, non ha la divisa, signorina".
"Nossignore, in effetti non ce l'ho"dissi guardandomi i jeans.
Mi toccò andare avanti e indietro per tre volte in un lontano posto chiamato Guardaroba. Dimagrivo a dismisura, per lo stress e sempre per lo stress poi aumentavo inevitabilmente di peso. Ma nel frattempo le sere mia mamma al telefono mi cantava che gli eroi erano tutti giovani e belli.
"Gli eroi son tutti i giovani e belli".
E passarono in fretta quei primi quattro mesi a rincorrere i palloni mandati fuori campo. A volte mi sembrava di non star imparando nulla, di star sprecando il mio tempo.
"Voglio battere un rigore" un giorno me ne uscì con questa frase mentre il capitano si allacciava le scarpe.
"E' un mestiere per uomini. Sei un uomo tu?"
"No, sono una tenera femminuccia, ma sto facendo la mia gavetta. Non la faccio bene se non mi fa battere quel rigore".
Giustamente, per colpa della mia arroganza dovetti lucidare innumerevoli scarpe. Non calciai nessun rigore, s'intende.
Eppure, certe volte, solitaria e ostinata, con le scarpe piene di fango e di melmoso liquido amniotico, lì ferma a bordo campo, magari dopo una partita dove avevo corso parecchio, dove mi facevano male milza e orgoglio insieme, beh, quelle volte mi dicevo che, in fondo, non volevo stare da nessuna altra parte, che quella era la mia strada e me la sarei fatta anche a piedi.
Poi un giorno un giocatore si ammalò. Io me ne stavo a spolverare i palloni con una pezza di cotone.
"Gioca tu" disse il capitano. Lo guardai, con la testa inclinata, gli occhi appesi alla bocca morta.
Non solo giocai, ma mi fu chiesto anche di tirare un calcio di rigore.
Come era nel mio stile, lo cannai. Figurarsi.
Tuttavia, quella sera me ne andai fischiettando come Huckleberry Finn nelle sue Avventure.
Beh fatto sta che alla fine chiamarono anche me. Chiamarono anche me per fare la raccattapalle.
"Che diavolo vi salta in mente, buon Dio?" dissi sconcertata sulla porta dell'ambulatorio.
"Fai la gavetta, spala" mi risposero.
Così presi l'ascensore con la zaino che mi pendeva sconsolato da una spalla come sconsolati erano i miei sogni di gloria. Tasto meno uno. Giù, agli inferi.
Imboccai uno di quei corridoi nelle retrovie dove esce sempre del fumo da qualche parte indefinita del soffitto e dove uomini vestiti di bianco spingono pesanti carrelli pieni di cibo d'ospedale.
Alla fine arrivai in quello strano posto. Un campo da calcio. Si fa per dire. Un quadrato di polvere e sabbia, due reti, una sola panchina.
Me ne stetti lì ferma vicino alla ringhiera strizzando i miei occhi miopi per mettere meglio a fuoco i giocatori e tutta quell'enorme messa in scena architettata a posta per farmela pagare, per farmi dannare.
Non ero arrabbiata. Come ho detto mi piaceva la vita dei monaci medioevali, zero gratificazioni, zero capricci, zero storie. Era solo che avevo un po' di nostalgia dei vecchi tempi, del vento sul mio sorriso quando ero io a guidare la barca. Avevo anche un cane all'epoca. Un alano che mi seguiva ovunque. Si chiamava Bob. Poi morì. Io mi laureai e la mia vita cambiò.
Così aspettai in silenzio. Dopodiché andai dal capitano.
Dissi: "Buongiorno, sono la nuova raccattapalle"
"Buongiorno, non ha la divisa, signorina".
"Nossignore, in effetti non ce l'ho"dissi guardandomi i jeans.
Mi toccò andare avanti e indietro per tre volte in un lontano posto chiamato Guardaroba. Dimagrivo a dismisura, per lo stress e sempre per lo stress poi aumentavo inevitabilmente di peso. Ma nel frattempo le sere mia mamma al telefono mi cantava che gli eroi erano tutti giovani e belli.
"Gli eroi son tutti i giovani e belli".
E passarono in fretta quei primi quattro mesi a rincorrere i palloni mandati fuori campo. A volte mi sembrava di non star imparando nulla, di star sprecando il mio tempo.
"Voglio battere un rigore" un giorno me ne uscì con questa frase mentre il capitano si allacciava le scarpe.
"E' un mestiere per uomini. Sei un uomo tu?"
"No, sono una tenera femminuccia, ma sto facendo la mia gavetta. Non la faccio bene se non mi fa battere quel rigore".
Giustamente, per colpa della mia arroganza dovetti lucidare innumerevoli scarpe. Non calciai nessun rigore, s'intende.
Eppure, certe volte, solitaria e ostinata, con le scarpe piene di fango e di melmoso liquido amniotico, lì ferma a bordo campo, magari dopo una partita dove avevo corso parecchio, dove mi facevano male milza e orgoglio insieme, beh, quelle volte mi dicevo che, in fondo, non volevo stare da nessuna altra parte, che quella era la mia strada e me la sarei fatta anche a piedi.
Poi un giorno un giocatore si ammalò. Io me ne stavo a spolverare i palloni con una pezza di cotone.
"Gioca tu" disse il capitano. Lo guardai, con la testa inclinata, gli occhi appesi alla bocca morta.
Non solo giocai, ma mi fu chiesto anche di tirare un calcio di rigore.
Come era nel mio stile, lo cannai. Figurarsi.
Tuttavia, quella sera me ne andai fischiettando come Huckleberry Finn nelle sue Avventure.