"Chi balla la pizzica non muore mai"
E c'è un campo di orchidee, un mare di orchidee bianche. Io m'immagino sempre che sia il silenzio, l'assenza del suono, la meraviglia. Una casa cantoniera in lontananza, una decina di pini in fila...
La canzone inizia con un lieve venticello che spira da destra, non forte, ma tenue come tutte le cose tenui e delicate, come settembre, i colori pastello, la domenica, i giornali sul tavolo.
Poi cresce, non che cambi del tutto, ma si trasforma dalla sua idea semplice, come l'idea semplice di un settembre che all'improvviso diventa un torrido settembre, ventilatori ancora accesi, gente che si lamenta del caldo negli uffici postali.
Un treno passa a un chilometro di distanza, i colori pastello vibrano sul tavolo. Il vento scompagina i giornali sul tavolo e tu sei di nuovo giovane, nel campo di orchidee del silenzio hai di nuovo diciassette anni e un nuovo amore, cento solitudini e un pugno di dadi da lanciare nel cielo.
E seduto sotto il portico della casa cantoniera c'è un vecchio che fuma sull'uscio e ti guarda lontano. Occhi di oceano, oceani di Novecento. Forse è tuo padre o solo il guardiano. Qualcosa di familiare, un leggero solletico come di giorni vissuti.
Quando arrivano i tamburelli- e nella canzone arrivano dopo- le orchidee diventano gabbiani, uccellacci di porto, sfacciati e vivi come la tramontana che pure in quella campagna prende ad impazzare, insieme ai ricordi, perchè la pizzica è nostalgia, il tuo volto giovane dietro lenzuola stese al sole, che schivo teme e pur desidera, sorride, si nasconde, che scappa ridendo saltando da un terrazzo all'altro con un vestito lungo che alzi con le mani per non inciampare e capelli lunghi biondi spettinati volano nell'argenteo Tempo, lontano dagli anni, nell'irriverenza di un antico pomeriggio, mentre rondini e gabbiani dipingono lo scenario del sogno numero quindici steso su vernice blu cobalto con strisce di blu oltremare e
pesci rossi nuotano
in verdi damigiane
di vino bianco
appoggiate sui muretti di casolari con gatti magri che ci camminano intorno, code rialzate, l'andatura lenta dell'attesa che non è altro che la pausa nel pentagramma, la mano che accarezza la pelle del tamburello e si riposa, il raggio di sole che esita sui vetri... e riprende, dopo la pausa riprende, cade un ramo, riprendi a correre, annaspando tra le extrasistoli, battere e levare,
trattieni il suo sguardo,
e dici scherzando,
e non sei mai stata così seria,
ritorniamo qui per sempre.
Alla fine tutto si riavvolge e sei di nuovo in quel mare di orchidee bianche. E poi inizia un'altra canzone.
(L'ultima volta, Francesco Guccini)
(L'ultima volta, Francesco Guccini)