17/02/19

La fine dell'Università

di Cristina Taliento


Una mattina
apro gli occhi e cerco l’interruttore
la luce del neon appena accesa
si intensifica lentamente;
 i miei sogni
in un modo e in un mondo del tutto speculare
lentamente si dissolvono.

Così finisce l’Università,
non con la laurea,
ma una domenica mattina,
e le pantofole dove caspita sono andate a finire.

Sono finiti gli esami dentro le biblioteche dei reparti,
finiti i capitoli, finite le malattie,
finiti i professori vestiti da chirurghi
finite le camicie celesti, i jeans, le Superga bianche,
finiti i tramonti che famelici divoravano le strade di Parma,
finite le canzoni di Patti Smith: People have the power,
finito Bob Dylan che vinse il Nobel per la letteratura,
finita la radio che annunciò la morte di Bowie durante una laringectomia,
finite le briciole sulle magliette dei Pink Floyd,
finiti i discorsi sui gradini delle chiese,
finito il Battistero che se ci entri non ti laurei, dicevano.
Finito quel qualcosa di sinistra,
finite le corse sotto la pioggia,
finite le biciclette,
Finito quel campo di girasoli in cui ho voluto fermarmi a tutti costi,
in divieto di sosta, le quattro luci -proprietà privata-
per fotografare lui con la corona d’alloro e le voci e le luci.
Finito lo studio dopo il pranzo della domenica,
finiti i capotreni con tutte le stazioni,
finiti gli amori delle mie amiche,
finite le lacrime, il dolore.
Sono finiti i quadri di Picasso, i turni per lavare il bagno,
i gatti del teatro,
finite le rassegne dei film di Hitchcock,
le poltroncine rosse del Cinema d’Azeglio.
Finite le scritte scarabocchiate lungo il fiume
Balbo t’è pasè l’Atlantic, mo miga la Perma”,
finiti i ragazzi e le ragazze, i kebab, i venditori di rose.
Finiti i nostri capelli lunghi,
gli appelli di fine luglio e il ritorno a casa.
Finito il telo sul sedile posteriore che mia madre stendeva al ritorno dal mare,
finito il mirto sulle dune,
finiti i pomeriggi, le granite, le lezioni.


La sera stessa vado in discoteca.
Io e le mie amiche.
Nessuna di noi tre parte veramente domani,
ma c’è qualcosa che sta finendo
e sta cambiando o è già cambiato.

Così balliamo,
gli altri ci puntano
ma noi non spostiamo lo sguardo nemmeno per un secondo dai nostri giubbotti messi nell’angolo
E, ad ogni modo,
non avremmo molto da dire,
o molto da spiegare che possa essere compreso.

Non ci sentiamo un’isola,
ma siamo comunque Altrove,
oltre le dannate spiegazioni,
oltre l’esibizione dell’Io.

E qualcuno si presenta e dice:
“ma insomma ragazze, come siete serie”
noi tre vorremmo dire
arrivi adesso
ma che ne sai.






08/02/19

Persone che sperano

di Cristina Taliento



(Kingfisher flies over purple morning glories, Utagawa Hiroshige, 1850)



Sperare per qualcosa mentre un uovo bolle nell'acqua.
L'orologio segna le sette e mezzo di sera,
guardo fuori dalla finestra in cerca di una soluzione.

Sul balcone di fronte una donna fuma una sigaretta,
spera che sia l'ultima.
Che siano le ultime lacrime, le ultime medicine,
che magari quest'anno si ritornerà a nuotare.

E intanto le macchine sfrecciano,
sotto ai palazzi, sotto gli archi,
Mercedes, Panda, alcune station wagon
tracciano linee che si intersecano nel vuoto
sul ritmo di musicassette consumate come vecchie paia di scarpe.

In una di queste- sarà una vecchia utilitaria-
un padre guida da sette ore.
"Mi fa male la spalla" mi dice.
"E perchè ti fa male?" gli chiedo.
"Ho guidato tutto il giorno" mi dice.
"E perchè non ti sei fermato?" gli chiedo.
"Sono tutti i giorni che guido così tanto" mi dice.
"Roma-Lecce. Lecce-Roma. Lavori a Roma?" gli chiedo.
"No"
"E che ci vai a fare a Roma? Spacci?" dico per scherzare.
"Mia figlia è ricoverata al Bambin Gesù".
Una leucemia, credo.
E i chilometri scorrono come pioggia,
incontro alla speranza, alla storia naturale della malattia,
agli acquazzoni sul parabrezza,
al mio non saper che dire,
alle stazioni radio che parlano di cose strane
tipo in questo momento di come
preparare una maschera al cocco
per rendere
veramente
più morbida
la barba.

Sperare per qualcosa mentre rompo il guscio di un uovo,
in silenzio, nel piatto freddo di porcellana.
L'orologio segna le sette e quaranta di sera,
guardo fuori dalla finestra in cerca di qualcosa.

Un vecchio trascina i suoi passi lungo Via Emilia Est,
termina così il suo ultimo giorno di lavoro.
Dopo la festa, i biglietti, gli auguri,
alla fine ha perso l'autobus.
Il suo discorso di commiato faceva più o meno così:
"Ringrazio quanti di voi hanno voluto rendere omaggio
alla mia carriera con un ricordo, un gesto, un abbraccio.
Non è mai stato un mio pregio quello di
sentirmi comodo al centro dell'attenzione.
In realtà l'unico posto dove mi sia sentito comodo,
o per meglio dire, a mio agio, a posto eccetera...
beh, quel posto è stato la sala operatoria.
L'unico posto in cui abbia smesso di tremare
e francamente l'unico in cui non mi sia mai annoiato.
Brindo a voi che mi sostenete,
con l'augurio che tra qualche mese
non mi troviate a passeggiare per il parco
con l'aria da completo scimunito
e al guinzaglio il mio cane Bob".

Un vecchio trascina i suoi passi lungo Via Emilia Est,
pensa e ripensa,
ma in realtà ha solo fretta di tornare a casa.
Quarant'anni di carriera, duecento pubblicazioni...
eppure gli sembra ancora
di essere quel ragazzino dalle ginocchia ossute
con in braccio la sua piantina.
Non lo so cosa spera.
I chirurghi non sperano sul serio.
Soppesano le probabilità.

Tuttavia,
magari,
spera
un giorno
di ritornare.