di Cristina Taliento
(Busto di bambina di profilo, Giovanni Fattori, 1875-77, Galleria d'Arte Moderna, Torino)
Una delle tante professioni del matto del Genda era quella d'inventarsi avvocato. Non di essere avvocato, ma d'inventarsi. Il che era diverso, ma lui lo faceva con la stessa passione. Per questo, Certi Giovani andarono da lui affinchè venissero difesi contro l'accusa di Vita Non Vissuta da parte di alcuni loro coetanei.
Il matto Genda si disse onorato di prendere la causa in mano, alzò il cappello in segno di saluto e se ne andò senza, tuttavia, andarsene mai. Di nascosto, infatti, osservava i movimenti dei giovani, dividendo il foglio in due colonne, nominandone una "Grandi movimenti generali del corpo" e l'altra "Piccoli movimenti dello sguardo e dei muscoli facciali". Per intere settimane li spiò con l'intento di argomentare in modo convincente davanti al giudice. Già immaginava l'incipit del discorso. ("Signor giudice, ritengo che l'accusa sia improntata su una definizione di Vita estremamente soggettiva"). Ad ogni modo, soggettiva o non soggettiva, per essere preparato a eventuali attacchi della controparte, voleva capire se i suoi assistiti fossero innocenti o in qualche modo coinvolti nella Non Vita. Li seguiva dietro un giornale, seguendo il loro tragitto nascosto dalle macchine parcheggiate. Occhiali da sole. Si, aveva grandi occhiali da sole graduati. E il bavero della giacca alzato, anche quello, si.
Nella prima colonna del foglio scrisse: "Camminata composta da ampi passi controllati, spalle e collo rigidi e addominali contratti, pugni chiusi, schiena dritta. Muscoli pronti all'attacco". E più si allungava l'inchiostro sulla prima colonna, più la seconda rimaneva bianca. C'era qualcosa di impenetrabile nei loro volti, come un doppio strato di cellophane che sfumava le loro espressioni. "O forse- si disse il matto Genda mentre proseguiva in incognito- forse è il mio timore nei loro confronti che mi impedisce di intrappolare la loro essenza e assenza vitale". Quindi, per lunghe settimane, la seconda colonna rimase vuota. "Non può essere. Ma dove guardano questi? Ma che vogliono? Che diavolo bramano? Niente davvero?". Di colpo capì che non avrebbe potuto difendere dei colpevoli. Non per un fatto di onestà, ma per una questione di fantasia e di voglia. "No, non c'ho voglia di parlare a casaccio!" dichiarò all'ora di pranzo con la bocca piena.
Alle sette, li chiamò per avvisarli della sua decisione.
"Buonasera, sedetevi. Volevo discutere con voi sull'incarico che mi avete assegnato. Vedete, ho fatto le mie ricerche e io, ecco... non sono sicuro che voi vogliate essere davvero difesi dall'accusa di non star vivendo".
"Lo sapevamo che ci avrebbe abbandonati" risero amari.
"Niente di personale, eh! Ma non c'ho voglia di parlare a casaccio davanti al giudice! Voglio dire, se ci credo in una cosa, sono molto bravo, altrimenti rischio di diventare davvero mediocre in tutto".
Si fermò, tentò per l'ultima volta di afferrare il loro sguardo, poi continuò con le mani intrecciate sulla scrivania: "Secondo me il mondo si divide in chi vive e in chi non vive affatto! E sempre secondo me, voi non state vivendo".
"La dura verità, caro signore, è che il mondo si divide in chi vuole dividere il mondo a tutti i costi e in chi ha capito da tempo che i contorni sono talmente labili e cangianti che proprio mentre si sta operando il taglio essi possono muoversi e perdere traccia di loro stessi. Chi ha capito questo va avanti con la consapevolezza che i giudizi non potranno mai essere netti, che non ci siano strade più giuste da seguire o modi affermati di vivere o di non vivere".
E poi accadde il movimento. Il giovane che aveva parlato guardò il muro che il matto Genda aveva alle sue spalle. Il muro su cui era incorniciata la pergamena di laurea. Allora, capì. Prese il foglio, la seconda colonna su cui non c'era scritto niente e, cerchiando la parola, scrisse: "Lontano". Perchè lontano e raro era il loro sguardo.
"Signor giudice, ritengo che l'accusa sia improntata su una definizione di Vita estremamente soggettiva, nonché ingannevole e limitata. Di cosa sono accusati i miei assistiti? Leggo testuali parole: rifiuto del divertimento, rifiuto del sogno, rifiuto dell'amore, rifiuto del futuro inteso come pianificazione di vita, rifiuto delle parole vane, rifiuto di trovare il senso della vita, rifiuto di partecipare alla vita politica, rifiuto di accettare la tecnologia, rifiuto di iscrizione ai social networks..."
"Tutte balle!" gridarono Certi Giovani dai posti a sedere.
"Si contenga il linguaggio" ricordò il giudice condiscendente alle obiezioni.
"... rifiuto di accettare l'educazione impartita dalle scuole, rifiuto di lottare contro le estinzioni delle specie, rifiuto di prendere analgesici e antinfiammatori, rifiuto del Cinema, rifiuto della musica..."-
Il matto Genda abbassò il foglio e guardò il giudice da sopra gli occhiali da lettura.
"Queste accuse sono forzate, signor giudice. Sono rigide e riduttive. I miei assistiti non oppongono alcun rifiuto a queste cose. Essi, piuttosto, ne sono indifferenti".
"Peggio! Peggio!" urlò l'avvocato della controparte- "L'indifferenza è carente persino di quella carica vitale che distingue il rifiuto! Questi giovani non stanno vivendo, si prendano provvedimenti urgenti e duraturi".
Il matto Genda arricciò le labbra, preoccupato dalla piega che stava prendendo il processo. La sua incertezza momentanea venne colta dal giudice che alzò un sopracciglio e prese a fissarlo. Sotto quello sguardo inquisitorio sentì all'improvviso caldo, come se fosse a due metri dal sole. Le guance divennero rosse, i vestiti sembravano essersi ristretti di due taglie. Stava per scoppiare. Così, nello scoppio, esordì:
"Certi giovani!"
"Come prego, avvocato? Si sente bene?" chiese il giudice sporgendosi in avanti.
"Certi giovani!"
"Un bicchiere d'acqua per il signor Genda, per favore" disse, poi, alla segretaria.
"Certi giovani, che cavolo, nemmeno le vogliono tutte quelle robe! Nemmeno ci pensano!" riuscì a proferire Genda in uno strillo incravattato. Tossì. Due respiri profondi. Mise una mano sul fianco. Poi continuò dato che gli altri erano stati ammutoliti.
"Certi giovani guardano lontano. Più lontano della sociologia, più lontano del progresso, ma che nessuno si azzardi a chiamarli sognatori. Non vi permettete a licenziarli così alla buona, con un buffetto sulle guance e un carillon per conciliare il sogno del caro bambino! Inutili definizioni giornalistiche. Hanno le mani nella terra loro, tra le radici, accidenti! Certi giovani non parlano e se parlano lo fanno davvero e dicono cose vere, che diavolo! Perché può darsi che non vi rispondano subito, ma quando aprono bocca, sono semplici come colombe. E se si arrabbiano, è perché sono sensibili e la loro rabbia è sincera e pura, sofferta. Quindi se ne stanno là, seduti sui massi, con quell'espressione seria e voi, pronti a incolparli di rifiuto, di distacco e alienazione, ma come fate a non accorgervi che sono preoccupati e vivono nel dubbio di ciò che accade e si tormentano ogni volta che ascoltano il modo in cui ingannano le vostre menti spacciandovi tutte queste diagnosi per maledette cure. Perchè vi ostinate a volerli vedere pronti e scattanti nell'afferrare lo stupido fazzoletto dell'azione sociale? Meditate sul perchè stanno fermi, invece. C'è più senso nella staticità che in questo continuo correre in mutande con il fiato corto e le mani sudate. Guardateli meglio, io vi dico! Io l'ho fatto, guardateli meglio prima di accusare. Perchè mai vi ingegnate a ingigantirvi le menti e gli amici e i fisici e le competenze, le capacità? Affinate, io vi dico. Certi giovani tagliano i rami! Non si chiudono in loro stessi, nossignore, no, per Giove! Soltanto non si impicciano delle cose che non amano!".
Genda si chiese se avesse reso il concetto. Chinò il capo pensando che probabilmente non ci era riuscito.
"Ha concluso?" chiese il giudice.
"Già" disse Genda sconsolato.
"Anche noi, anche noi..." ripetè il giudice alzandosi in piedi. E mentre se ne andava mormorò: "Non ne posso più di queste pagliacciate. Che mi assegnino vere udienze d'ora in poi"