30/12/13

Il ragazzo che voleva impiantare le branchie ai gatti - Prima parte

di Cristina Taliento


(Ritratto di giovane con libro, Lorenzo Lotto, 1526, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano)


Quando, sui gradini della biblioteca, Steve Pirotecnico venne lasciato o meglio, quando venne mollato come una molla e scaricato come uno scarico, la sola cosa che volle veramente dire fu: "Oggi avevo finalmente compreso i meccanismi biochimici dell'ittero e tu mi hai rovinato questo momento. Perchè questa decisione di farla finita non l'hai presa martedì, quando ero alle prese con la cinetica enzimatica? Eh no, tu, subdola e egoista, hai aspettato pazientemente che io arrivassi a provare questo forte senso di soddisfazione personale per imporre lo stupido ricordo di te nella mia memoria, per il resto della mia vita, pensando con astuzia di farti associare al giorno in cui espugnai l'ittero e lo feci alleato del mio sapere".
E, quasi tutte le volte, stringendo il libro bianco e rosso in mano aggiungeva: "Aveva ragione Isacco a chiamarti volpe giuliva!". Dove per Isacco lui intendeva Isaac. Anacronisticamente, Newton.
"Ah bello! Te c'hai qualche problema" era, di solito, la risposta. Ma Steve Pirotecnico non aveva grandi problemi, se non una insolita tendenza ad esagerare gli eventi, i sentimenti, oppure ingrandire gli oggetti o addirittura la realtà, giocando con una perversa lente d'ingrandimento annessa di fonendoscopio per auscultare i suoni, si, auscultarli, invece che sentirli solamente. Da bambino era stato arruolato, per opinione dei più grandi, nelle nicchie affollate degli introversi e dei sognatori. Passava le giornate a scrivere racconti su una vecchia rubrica del nonno. A tredici anni pubblicò "Le foglie secche del vecchio Tobia", una ballata in onore di uno spaventapasseri malato di depressione che un giorno scappa dal campo con in spalla un corvo chiamato Crello.  L'insegnante d'italiano aveva fatto leggere il racconto a l'insegnate di storia e tutte e due, nella sala del caffè, avevano scosso la testa e alzato le spalle. "Povero figlio" aveva detto l'insegnate di storia. 
Poi, crescendo, abbandonò l'espressione riflessiva di quell'infanzia solitaria, per un carattere, chissà come mai, estroverso. Avrebbe potuto ridere di tutto, di un funerale, di un telegiornale, di una foglia lasciata in bilico su un muretto. "Era così chiuso in se stesso e ora... ora, guardatelo, come ride" mormorarono gli offesi, i commenti nell'aria. "In realtà, questo è un costante, quotidiano, esercizio di socialità che ho prescritto a me stesso per capire meglio le menti di voialtri" esclamava all'aria. 
A sedici anni e mezzo, comunque, passati i giorni delle risate sconnesse e insane, con lo stesso ardore con cui si era dato alla gente, si diede alla scienza. Ogni volta che qualcuno parlava di scienza, i suoi peli del braccio si drizzavano teatralmente e talvolta le sue mani iniziavano a tremare. I suoi genitori avevo smesso di farci caso da quando avevano compreso quale razza di commediante, esagerato, esaltato, iperattivo, curioso, fosse quel loro figlio. E allora preferivano assecondarlo con il labbro inferiore sovrapposto su quello superiore e un ciondolare ipnotizzato del capo. Lui, per tutta risposta, si mise a lavorare al Progetto, lo stesso del titolo: impiantare le branchie ai gatti. Iniziò una ricerca esasperata di atlanti inglesi dell'anatomia del gatto e del pesce. Ordinò online scheletri di felini. Le domeniche mattina andava a pescare pesci vivi per lasciarli nuotare in una vasca da bagno abbandonata a cento metri dallo stagno. Poi, si stancò degli animali. Così, dopo la maturità classica, si iscrisse al corso di laurea di medicina umana. Tuttavia, non smise mai di lavorare al Progetto. 
Uno dei pomeriggi delle prime settimane di luglio, una bambina, Meredetta Berta, si avvicinò al tavolo della biblioteca dove lui studiava quel giorno e dove aveva studiato per gran parte delle settimane degli ultimi anni.
"Ciao" disse la bambina.
Steve alzò gli occhi dal foglio, indurì la mascella infastidito per essere stato interrotto, respirò profondamente e, senza guardare altro se non l'orizzonte immaginario che si apriva nella stanza, tornò a rileggere la frase.
"Ciao" ripetè Meredetta Berta piegando la testa di lato.
"Vattene, bambina. Vattene, mosca" borbottò Steve Pirotecnico preso da altri pensieri.
"In realtà io ho dodici anni. Sono entrata con successo nella prima fase di quella che gli psicologi chiamano adolescenza"
Steve prese a tamburellare le dita con insistenza. Poi chiese di botto: "C'è qualche motivo in particolare per il quale tu abbia deciso di lasciare ciò di cui ti stavi occupando per venire a scassarmi così insistentemente la minchia?"
"Oh... ecco..."
"Ti sei persa? Vuoi dei soldi? Ti senti sola? Ti sei innamorata di me? Vuoi un gelato? Non sai fare le addizioni-sottrazioni? Cielo, le moltiplicazioni, giusto! Aiutami, no? Sto cercando di capire quali intenzioni possano spingere una bambina di dodici anni a disturbare un ragazzo di venti nel bel mezzo del suo sforzo cognitivo"
"Mi servirebbe l'Anatomia del pesce" disse la bambina indicando il libro che Steve aveva sotto il naso. Il ragazzo che voleva impiantare le branchie ai gatti sbattè le palpebre.
"Lo prendi in prestito tutti i giorni dalle quattro alle sei ed è proprio quando io posso venire in biblioteca perchè esco da scuola alle tre e mezzo, ma tu prendi in prestito il libro tutti i giorni dalle quattro alle sei..."
"Asp-aspetta bambina, ti stai ripetendo. Quando si esprime un problema, lo si deve fare nel modo pù sintetico possibile, scegliendo le parole più brevi e i costrutti meno articolati. E' ovvio che le ripetizioni sono bandite, al fine di dare all'interlocutore, in breve tempo, un piccolo database di informazioni pulite su cui può lavorare intellettualmente"
"Si si, infatti" constatò la bambina che aveva imparato a dire "si si infatti" quando le persone iniziavano a parlare velocemente.
"Un solo si, prego"
"Si"
"Bene. Dicevamamo. Il libro. Bene. Non so a cosa possa servire un simile libro a una bambina che ha appena imparato a leggere e scrivere. Io, personalmente, sto lavorando sull'impianto di branchie su mammiferi cordati, in particolare su Felis silvestris catus. E tu?" aggiunse sporgendosi in avanti e incrociando le braccia sul tavolo.
 "Uuh che bello!" esclamò la bambina appoggiando le mani sul tavolo.
"E' buona educazione-continuò Steve guardando quelle piccole mani con distacco- rispondere alle domande poste dall'interlocutore prima di aggiungere qualsiasi altro apprezzamento"
"Vorrei andare a pesca, ma non ne so abbastanza sull'argomento"
"Dunque io ti rispondo, bambina, che ti servirebbe un libro più semplice, nonchè adatto alla tua età, e possibilmente ricco di immagini" concluse Steve mentre le parole 'tua' e 'età' risuonavano nella stanza.
"Ho già letto gli altri libri, ma, sai, vorrei saperne di più sulla pinna natatoria"
"Bambina, parliamoci chiaro- disse Steve Pirotecnico togliendosi gli occhiali da vista e muovendoli nell'aria per argomentare meglio- Lo scopo dei tuoi studi è puramente egoistico e sterile e, se mi permetti, nocivo nei confronti della fauna marina e illegale se considerate le nuove normative restrittive in fatto di pesca nel nostro territorio. Al contrario, i miei scopi sono altruistici, inseriti nel contesto nobile della ricerca scientifica, per di più sono studi non retribuiti e avulsi dagli esami universitari che devo preparare. Io studio medicina e per studiare questo libro studio due ore in più la sera. Quindi, ti prego, non venire a pormi queste richieste e lasciami riflettere in pace".
"La cultura è un diritto" disse forte e chiaro Meredetta Berta che da piccola giocava ai guerrieri.
"E, come ogni diritto, può essere negato. Arrivederci".



25/12/13

Auguri da 'Il Ballo dei Flamenchi'




Per tutti i lettori che seguono questo blog, con vero piacere e affetto, ho spennellato i miei auguri di un sereno Natale e di un memorabile Anno Nuovo. E siccome questo è il terzo anno che apro la scatola degli acquerelli per pubblicare una cartolina, inauguro questa tradizione sperando, come si fa in questi casi, che continui!

Tanti saluti a voi che errate,
Cristina

22/12/13

Il pescatore, il panino e il narratore raffreddato

di Cristina Taliento


C'era questo pescatore. Sempre se sono in tempo a scrivere. Se non ho disimparato, cioè. Vediamo. Vediamo se sono ancora capace. (Un tempo, quand'ero giovane, mi dilettavo con la scrittura).
C'era questo pescatore - cappello di lana, sciarpa color del vino, occhi marroni- che aveva vent'anni. Ed era di sesso femminile, diciamo. Ma rimaneva comunque un pescatore perchè a sentirsi chiamare 'pescatrice' le sarebbe venuta in mente la rana pescatrice che da mangiare non era poi così buona. Secondo lei.
Ovvio che ho disimparato a scrivere. Ho scritto 'diciamo'. Va bene, fermarsi non mi aiuterebbe. Coda tra le gambe e si continua su questa riga qui. Questa qui, si. Allora, la ragazza... il pescatore non aveva nulla di che... si, nel senso che non era questo granchè, diciamo. L'avrebbe detto anche lei. ("Non sono poi questo granchè"). Ma suonava l'armonica, se può interessare. O anche se non può interessare, lei suonava l'armonica, era un dato di fatto nato non per destare particolare meraviglia, dopotutto. Dove, post scriptum, per armonica si intende l'armonica a bocca e non la fisarmonica come molte volte si potrebbe erroneamente pensare. 
Andando al punto o più precisamente al faro, la specialità di questo pescatore era, più del pesce, il panino al prosciutto. Niente di che. Insomma. Nel senso che. Nel senso che lei prendeva la barca, scioglieva i nodi. Anzi, scioglieva i nodi e prendeva la barca. Di solito, lo faceva quando il cielo era di quell'azzurro omogeneo che solo i pittori iperrealisti potevano capire. Tre, quattro colpi di remo ed era lontana abbastanza. E questa era una bella misura: abbastanza. Non era facile, per niente facile, capire quando si è lontani abbastanza dalla spiaggia. Sulla carta, a parole, si potevano perdere giorni interi a deciderlo, ma nel mare, coi remi in mano, uno lo sentiva quando poteva smettere di remare, quando poteva tirare su col naso e respirare, guardare la spiaggia e sentirla alla giusta distanza e sentire che così poteva andare, che così andava bene. E a quella distanza, il pescatore prendeva il panino incartato d'argento, spostava la carta con le dita e poi, in mezzo a quel mare, ci dava un morso. Perchè il panino era una di quelle cose che avevano senso. Nel senso che era nutriente. E questo bastava. A lei, dopotutto, bastava poco per dare un senso alle cose, senza nemmeno inventare scuse. Si insomma, quelle che per gli altri erano le 'piccole cose odiose' per lei erano più cose da arricciare il naso e poi magari sorridere e quelle che per gli altri erano invece le 'grandi cose odiose', per lei erano semplicemente grandi. Grandi cose. E anche l'odio, poi, aveva una certa grandezza che gli conferiva un certo, considerevole, senso. 
In mezzo al mare con un panino al prosciutto, a una distanza sentimentale decisa dall'istinto, era assodato (diciamo) che le cose avessero tutte un senso. Ma da laggiù, o da lassù, dipende, quello stesso senso si sfumava, saliva sulla creste delle onde e con esse se ne andava a largo, o a riva o chissà dove. A questo punto dei pensieri, di solito, il pescatore, buttava giù un altro morso. 
Una volta arrivò la Capitaneria di Porto e affiancò la barca del pescatore e il pescatore, tutto imbacuccato tra sciarpe e maglioni, disse, indicando il panino: "Favorite". E il capitano di porto, se così si chiama, disse: "Con piacere, signorina pescatore". E il pescatore, spezzò il panino e gliene diede metà, ovvero la metà che non era stata morsa. "Grazie". "Le pare". 
Il Capitano ancora non se ne andava. Il pescatore annuì due volte senza che fosse stato detto niente. Poi il Capitano disse: "Okay che tutte queste cose hanno un senso, ma qual è il senso che queste cose hanno per te. Tu vuoi queste cose?"
Il pescatore disse: "Mah, credo di si". Testuali parole. 
"E cosa vuoi tu, nello specifico?"
Il pescatore: "Innumerevoli cose, signore".
Il Capitano, allora, se ne uscì con la frase: "I migliori vogliono cose diverse, cose che magari nessuno vuole".
E allora la ragazza, che nel frattempo aveva dato un morso, mentre masticava, si mise a ridere e quindi si coprì la bocca con una mano. Poi dopo aver deglutito e tossito e deglutito ancora esclamò: "Caspita capitano, lei è un vero spasso!"