Chi lo guardava, guardava il segreto. Non lo conoscevano il segreto, quegli altri, ma vedevano lui e sapevano che nei suoi occhi si era impressa una luce non svelata, qualcosa che, nel buio, lontano da tutti, l'aveva cambiato talmente tanto da essere diventato la sua postura, le sue rughe leggere, il suo modo di voltarsi, annuire, appoggiare il mento sul palmo.
Lui era il suo segreto. Gli altri non facevano domande.
Era successo, talvolta, che qualche ragazza, passeggiando, si fosse innamorata di lui scoprendo più tardi, con sincero dolore, di non poter competere con il segreto, ingombrante come una terra senza nome, più rivale di un tradimento; oppure accadeva che, dopo anni dall'abbandono, quella stessa ragazza si accorgesse che, in realtà, quell'amore per lui non era che amore per il segreto, adagiato sulle sue spalle, così magico come un velo trasparente, figlio di un altro tempo, dimensione.
Alcune di loro si innamoravano del suo segreto. Ed era buffo, perchè, appunto, non lo conoscevano. Altre volevano a tutti i costi guarirlo, confessarlo per sempre, liberarlo per poi vederlo felice, ma poi finivano per stancarsi di quei sorrisi nostalgici, così difficili da capire, malinconici come note di flauto solitario su un fiume.
Senza dire niente, se ne andavano. Senza sbattere la porta, uscivano per sempre dalla sua vita e la cosa che più le faceva soffrire era l'idea che in quella vita, malgrado gli attimi insieme, i baci e le stelle- in quella vita, mai, in fondo, vi erano davvero entrate.
Così, invecchiò. Da solo, come un albero in mezzo alla savana, come una casa in balia del vuoto. Invero, intorno alle sue caviglie cresceva l'edera; l'edera si attorcigliava, poi, sulle gambe della sua sedia a dondolo, i capelli cadevano come l'intonaco, le ossa presero a fare gli scricchiolii delle porte, ma la sua casa non era vuota. Chi, d'altronde, avrebbe potuto pensarlo? Nella sua casa vi era il suo segreto, solenne, seduto sul trono di velluto del piccolo, modesto, salotto. Eppure era di velluto rosso. La sedia più importante, rispettata, di tutte. Perchè chiunque sapeva entrando in quella casa, che poteva essere il vecchio rudere in Via degli Artisti o più semplicemente la sua persona, che non si doveva gridare, nè dire qualcosa capace di ridestare il segreto.
"Tutti hanno segreti- lo aveva sgridato, una volta, la sua prozia Matilde Terza la Svedese- Smettila di fare tanto il coinvolto. La vita coinvolge, che bella scoperta! Lo sappiamo tutti! Ti colpisce, ti atterra, bravo. Smettila, ho detto, di fare quella faccia". Ma lui si era tolto gli occhiali per pulirseli con il polsino della camicia. "Con permesso" aveva detto e poi era uscito.
Un'altra volta, invece, un insegnante di filosofia in pensione, gli aveva mormorato dietro la barba bianca: "Ad avere un segreto, certe volte, è come prendere troppo sul serio il passato... Lei non crede?"
"Che razza di uomo è quello che lo dimentica?" aveva risposto con la paura negli occhi, ma era il segreto che parlava.
"Un uomo che vive il presente, suppongo"
"Io sono anche memoria, professore".
"Eh... Perchè non prova ad aprirsi. Parlarne, intendo. Lei non deve dimenticare il passato; la strada giusta è accettarlo, elaborarlo, guardarlo da un'altra prospettiva. Mi segue? ".
"E se non fosse mio questo segreto?"
"Allora perchè fa come se lo fosse?".
La risposta, se mai c'era stata, non doveva aver soddisfatto l'interlocutore più di un solo, pesante, sospiro.
Era andata avanti per anni quella storia, quel silenzio. Lui non la smetteva di morire. Ogni giorno, alle sette di sera, davanti al gioco a quiz del primo canale.
"Ma che gli costava parlare, benedetto uomo! Che gli costava parlare!" se ne usciva, di tanto in tanto, il ricordo di Matilde Terza che, nel frattempo, giaceva da anni in un cimitero in Svezia.
Sebbene gli uomini taciturni e schivi spesso siano guardati con diffidenza, lui, al contrario, forse per la svelata onestà dei suoi occhi tristi, venne trattato con un più accennato rispetto.
Divenne per gli altri, con suo stupore, una specie di leggenda. Se, ad esempio, dei bambini avessero giocato a calcio vicino la sua finestra, magari una signora, passando da lì, avrebbe detto: "Andate più lontano, non qui! Qui c'è un uomo che vuole riposare...- e tra se e se si sarebbe detta- povero uomo, che coraggio, che sopportazione".
E poi alla fine, un giorno, così, chissà perchè, all'improvviso, un quarto prima delle sette, a un ragazzino:
"Il mio segreto... mi piacerebbe raccontartelo".
Il ragazzino smise di respirare, iniziò a sudare, spalancò la bocca, gli occhi, le narici. Conosceva la storia di quell'uomo e del suo segreto. L'aveva sentita sulla veranda di sua nonna tante volte, aveva immaginato omicidi, suicidi, vendette, figli nascosti, cospirazioni, spionaggio, fughe, rapimenti, richieste di riscatto, gioco d'azzardo, debiti, massoneria, illuminati, ordine dei Templari. Aveva giocato con un cavallo di plastica pensando al segreto di quell'uomo. E quando quell'uomo, che era diventato un vecchio, si era seduto a fianco a lui, tutta quell'immaginazione, il rispetto per il segreto, risalirono con impeto alla sua vista.
"Perchè io. Io..." iniziò il vecchio.
Ma il ragazzino era lontano. Vedeva lotte, spade che si scontravano, campi di battaglia, pistole, sangue. E quando il vecchio lo scosse per un braccio chiedendo- "E' buffo, vero?"- il ragazzino annuì, senza aver ascoltato una sola parola. Mentre il segreto sbiadiva nel vento come sbiadiscono gli anelli di fumo.
Senza dire niente, se ne andavano. Senza sbattere la porta, uscivano per sempre dalla sua vita e la cosa che più le faceva soffrire era l'idea che in quella vita, malgrado gli attimi insieme, i baci e le stelle- in quella vita, mai, in fondo, vi erano davvero entrate.
Così, invecchiò. Da solo, come un albero in mezzo alla savana, come una casa in balia del vuoto. Invero, intorno alle sue caviglie cresceva l'edera; l'edera si attorcigliava, poi, sulle gambe della sua sedia a dondolo, i capelli cadevano come l'intonaco, le ossa presero a fare gli scricchiolii delle porte, ma la sua casa non era vuota. Chi, d'altronde, avrebbe potuto pensarlo? Nella sua casa vi era il suo segreto, solenne, seduto sul trono di velluto del piccolo, modesto, salotto. Eppure era di velluto rosso. La sedia più importante, rispettata, di tutte. Perchè chiunque sapeva entrando in quella casa, che poteva essere il vecchio rudere in Via degli Artisti o più semplicemente la sua persona, che non si doveva gridare, nè dire qualcosa capace di ridestare il segreto.
"Tutti hanno segreti- lo aveva sgridato, una volta, la sua prozia Matilde Terza la Svedese- Smettila di fare tanto il coinvolto. La vita coinvolge, che bella scoperta! Lo sappiamo tutti! Ti colpisce, ti atterra, bravo. Smettila, ho detto, di fare quella faccia". Ma lui si era tolto gli occhiali per pulirseli con il polsino della camicia. "Con permesso" aveva detto e poi era uscito.
Un'altra volta, invece, un insegnante di filosofia in pensione, gli aveva mormorato dietro la barba bianca: "Ad avere un segreto, certe volte, è come prendere troppo sul serio il passato... Lei non crede?"
"Che razza di uomo è quello che lo dimentica?" aveva risposto con la paura negli occhi, ma era il segreto che parlava.
"Un uomo che vive il presente, suppongo"
"Io sono anche memoria, professore".
"Eh... Perchè non prova ad aprirsi. Parlarne, intendo. Lei non deve dimenticare il passato; la strada giusta è accettarlo, elaborarlo, guardarlo da un'altra prospettiva. Mi segue? ".
"E se non fosse mio questo segreto?"
"Allora perchè fa come se lo fosse?".
La risposta, se mai c'era stata, non doveva aver soddisfatto l'interlocutore più di un solo, pesante, sospiro.
Era andata avanti per anni quella storia, quel silenzio. Lui non la smetteva di morire. Ogni giorno, alle sette di sera, davanti al gioco a quiz del primo canale.
"Ma che gli costava parlare, benedetto uomo! Che gli costava parlare!" se ne usciva, di tanto in tanto, il ricordo di Matilde Terza che, nel frattempo, giaceva da anni in un cimitero in Svezia.
Sebbene gli uomini taciturni e schivi spesso siano guardati con diffidenza, lui, al contrario, forse per la svelata onestà dei suoi occhi tristi, venne trattato con un più accennato rispetto.
Divenne per gli altri, con suo stupore, una specie di leggenda. Se, ad esempio, dei bambini avessero giocato a calcio vicino la sua finestra, magari una signora, passando da lì, avrebbe detto: "Andate più lontano, non qui! Qui c'è un uomo che vuole riposare...- e tra se e se si sarebbe detta- povero uomo, che coraggio, che sopportazione".
E poi alla fine, un giorno, così, chissà perchè, all'improvviso, un quarto prima delle sette, a un ragazzino:
"Il mio segreto... mi piacerebbe raccontartelo".
Il ragazzino smise di respirare, iniziò a sudare, spalancò la bocca, gli occhi, le narici. Conosceva la storia di quell'uomo e del suo segreto. L'aveva sentita sulla veranda di sua nonna tante volte, aveva immaginato omicidi, suicidi, vendette, figli nascosti, cospirazioni, spionaggio, fughe, rapimenti, richieste di riscatto, gioco d'azzardo, debiti, massoneria, illuminati, ordine dei Templari. Aveva giocato con un cavallo di plastica pensando al segreto di quell'uomo. E quando quell'uomo, che era diventato un vecchio, si era seduto a fianco a lui, tutta quell'immaginazione, il rispetto per il segreto, risalirono con impeto alla sua vista.
"Perchè io. Io..." iniziò il vecchio.
Ma il ragazzino era lontano. Vedeva lotte, spade che si scontravano, campi di battaglia, pistole, sangue. E quando il vecchio lo scosse per un braccio chiedendo- "E' buffo, vero?"- il ragazzino annuì, senza aver ascoltato una sola parola. Mentre il segreto sbiadiva nel vento come sbiadiscono gli anelli di fumo.