26/04/11

Il Felicitiere - Capitolo uno

di Cristina Taliento


Il consueto silenzio nelle alte sale del palazzo venne infilzato dal secco rumore di una porta che si spalancava e da una voce femminile che gridava:

"Corri, corri Giacomo! Chiama quella donna in fondo alla via, corri!".

Il ragazzino, che stava intrecciando fili di rafia, si alzò da terra e uscì con la camicia fuori dai pantaloni.
"Oh, oh! Dove vai giovanotto?" chiese un vecchio che tornava dalla campagna.


"Aiutami! Aiuto! Quella donna, dove sta?"
"Chi dici... uè, che donna, che vai dicendo?" farfugliò il vecchio mentre alcune lavandaie raddrizzavano la schiena e si mettevano in ascolto.
"Sta nascendo, presto! La mamma mi ammazza se quella lì non va subito dalla contessa".
Una delle lavandaie si mise la mano sugli occhi come per proteggersi dal sole delle tre.
"Ragazzo, devi bussare a quella porta dove ci stanno i gerani rossi"
Il bambino indicò e la lavandaia annuì. Diede tre colpi con il braccio e pochi istanti dopo la porta si aprì.
"Dovete venire. La contessa..."
Quella non perse tempo e, afferrata una borsa di tela, seguì il bambino con passo svelto.
La levatrice entrò nella stanza della contessa accolta dalla madre del ragazzo e da altre figure frenetiche ai lati del letto. La porta venne chiusa con la stessa forza con cui era stata aperta.
Il ragazzino rimase in piedi a guardarsi le scarpe mentre ascoltava ansimando i lamenti che provenivano da dietro quella piccola porta di legno che ora aveva preso a fissare con spavento.
"Prepara della camomilla con l'alloro, Elvira" decise qualcuno.
La porta si aprì e si richiuse. Venne riaperta e si richiuse di nuovo.
"Calma, calma. Verso il basso, avanti" disse una voce decisa.
Le grida divennero più forti.
"Verso il basso, verso il basso".
"Sarà bene preparare un panno caldo e acqua di malva"
"Acqua di malva! A che diavolo...?"
"Dio mio, fate quello che vi dico"
"Bene"
La porta si aprì, ne uscì la madre del ragazzo.
"Giacomo, che stai facendo qui? Vai a raccogliere della malva! Corri!"
Il ragazzino tornò con le mani sporche di terra ed un fascio di malva ancora con le radici.
"A che mi serve tutta questa? Ne bastavano due foglie. Dammi."
Riaprì la porta e se la sbatté alle spalle.
"Avvicina il braciere, Lucia" continuavano le voci.
"Basterà il calore di maggio a scaldare i dolori"
"Avvicina il braciere, Lucia. Poi passami l'olio."
Giacomo camminava nella grande sala che precedeva la stanza da letto della contessa. Guardò il lampadario ed il grande tavolo su cui erano ammassati fogli con numeri e parole che lui non sapeva leggere. Stava cercando di decifrare quei segni quando sentì che alle grida si era aggiunto un nuovo lamento e la voce della levatrice diceva:
"La forbice. E' pulita?"
"Si. Pater noster qui es in caelis santificetur nomen tuum adveniat..."
"Passami il piatto."
"Ecco... regnum tuum fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra..."
"L'acqua! L'acqua!"
"Si... Panem nostrum cotidiano..."
"Cotidianum"
"Signora contessa, eccovi vostro figlio".

E fu allora che il conte Ferdinando Giuseppe Filippo Luigi Bartoli conte di Salenzia si ritrovò, per la prima volta, nato.

10/04/11

L'adolescente arrogante

di Cristina Taliento
(Jean-Baptiste Greuze, Un écolier endormi sur son livre, 1755, oil on canvas, 65 x 64 cm)

Correva giù per la collina sparpagliando le braccia tra le piante alte e inforcava la bicicletta di ferro senza fermarsi per prendere fiato. Poi pedalava incontro alle rondini, incontro al tramonto, sprezzante per quei fasulli carpe diem professati, non da lei assolti, durante le lezioni di vita del "Santo Compendio di Esistenza e Asinità". C'era qualcosa nel suo animo che potremmo definire come un'avversione verso le regole del Vero, una spregiudicata riluttanza a comprendere le convenzioni, le dottrine filosofiche. Era come se una sagoma nera di dubbio la prendesse tutte le volte per la giacca con l'intento di scompigliarle i capelli a dimostrazione del fatto che ordine e rigore non erano parole da scriversi, escludersi del tutto. Si fermava sotto un albero di Giuda come un poeta romantico, pur aborrendo il Romanticismo e le correnti letterarie, e si stringeva le tempie chiedendosi se fosse giusto rinnegare il sentimento, se fosse giusto disertare la scuola per leggere libri che altrimenti non avrebbe mai letto, ma che avrebbe tuttavia finito e poi gettato al fiume nell'esplosione di un ghigno di assoluto non rispetto verso l'autore. Arrancava, non parlava, fino alla casa del glicine selvaggio e lì bussava alla porta dell'acclamato pittore. Quello apriva, non derideva, tutt'al più prendeva zitto quei fogli scribacchiati che lei gli porgeva e senza dire una parola quella si voltava e se ne andava col ginocchio destro traballante e l'animo preso da scosse. Sul sentiero che portava all'alveare sputava critiche verso gli esseri viventi, ma, sebbene si sforzasse, non riusciva ad inventare soluzioni ai problemi e dunque soffriva, si contorceva nei pensieri convulsi del suo cervello, ma continuava a camminare assente e, dopotutto, indifferente a quel tetano che la atterriva. A dire la verità, quell'andare furibondo senza meta era uno dei tanti modi per evitare la scrittura che secondo lei era causa di tutti i suoi morbi e malanni. Faceva tutto questo per evitare, mai più provare, quel suo strisciare silenzioso verso lo scrittoio, quell'impugnare languidamente la stilografica, quel sudato svisceramento dei pensieri che una volta fuori dalla sua testa, rischiarati dalla lampada, diventavano specchi di verità infinita, vermi illegittimi la cui esistenza disturbava il tatto del lettore cosiddetto coscienza. Era convinta che la scrittura, quella sventurata ossessione, l'avrebbe costretta a vagare per le campagne come una fuorilegge, un'assassina, una specie di Jessie James al femminile. "Mani in alto"-avrebbero gridato i gendarmi a cavallo vedendola dormire nell'erba. "Mani in alto, ragazzina! Getti a terra la baionetta; noi qui la condanniamo per aver ucciso con la sua scellerata, nonchè indecente, arroganza la sacra logica della ragione!".

08/04/11

La vera grafia di Genda Antonio, pittore e scrittore

di Cristina Taliento
Il matto Genda, pittore e scrittore, era morto, seppellito, decomposto ed io andavo le domeniche a lasciargli i fiori sulla pancia e non chiedevo al vento, nemmeno piangevo, neanche stridevo. Povero Genda, al suo funerale c'era solo il prete e quattro chierichetti, due colombi spennati e un vecchio dalla barba rossa che batteva la punta del bastone sui marmi grigi. La gente del paese lo odiava, giurava su Dio che lo odiava e sulla parete della sua casa avevano scritto sputi di parole tossiche, vendette superbe, minacce assassine. Il paese era pieno di psicologi arroganti che l'avevano giudicato un santo peccatore, fasullo damerino, un tipo, insomma, da salutare e poi beffeggiare, imitare, spingere, ferire, affondare. Ma lui ricopiava sempre i suoi scritti con una bella grafia che mi assomigliava al moto di una gabbianella sul mare. "Signore-gli dissi- mi fai vedere quei fogli che nascondi con la mano?". Era una mano tremante, piena di rughe e tagli, tagli e solchi profondi. Genda disse di no ed il giorno del suo funerale la sua casa venne aperta dalla polizia ed i curiosi fecero folla masticando chewing-gum e sprezzo verso Genda. A terra, sparsi, c'erano quei fogli che mai avevo visto. Erano pieni di una grafia incerta, traballante. Mi ricordai di quello strano modo di aggrapparsi alla penna, come se questa fosse stata una mano dall'alto che lo afferrava da un mare pieno di squali famelici con le zanne piene di carne. Quella grafia rideva sui ghigni della Psicologia mentre i polli e i neuroni rotolavano sui tappeti rossi dell' ostentata sobrietà. C'erano parole incomplete, frasi che si dissolvevano senza nemmeno un punto e talvolta si vedevano macchie d'inchiostro che parevano rondini morte o pellicani rimasti imbrigliati nel petrolio. Le lettere erano state calcate con così tanta forza che girando il foglio sentivo il rilievo con il polpastrelli e sebbene mi sforzassi di interpretare le fiamme serpentine delle esse, mi accorgevo che ogni lettera era diversa dalle altre, come se ogni convenzione o abitudine fosse stata bandita per sempre dal sigillo di quelle pagine stregate. Mi accorsi che non comparivano parole come "dopotutto", "semmai", "tuttavia". Non c'erano segni sicuri, ma solo schiaffi e sputi di qualcuno che mai nessuno conobbe fino in fondo.