06/11/10

La vecchia della finestra

ovvero, i pensieri infantili di una scrittora qualunque

di Cristina Taliento

Erano i giorni del Catechismo, quando stavo imparando ad attraversare le strade da sola, guardando a destra e a sinistra, senza mai riuscire a ricordare quale fosse destra e quale sinistra. Passavo davanti la casa di una vecchia che era affacciata alla finestra e non sapevo dire se filava o, semplicemente, piangeva in silenzio. Mio cugino mi aveva detto che si poteva piangere in silenzio anche stando seduti intorno ad un tavolo superaffollato e si poteva fare in modo che nessuno se ne accorgesse. Questa vecchia mi guardava ogni volta e le volte in cui ricambiavo lo sguardo, mi dispiaceva di essere ancora piccola e lei no. Piano piano andavo al Catechismo e se sbagliavo era colpa mia, e di nessun altro, ma non succedeva mai perché homo faber suae quisque fortunae. Ripeti: homo faber suae quisque fortunae. Brava.
Avevo scritto un racconto intitolato: “Hanno sparato al mio amico Jay”. Il nonno chiedeva al suo cane perché io fossi tanto pessimista ed un'altra parola strana che finiva con –errima-. Allora il cane guardava prima me e poi il nonno ed io zitta, ma pensavo “che vuoi”. Poi correvo al pero selvatico e intrecciavo braccialetti con fili di lana e mettevo il filo bianco sopra quello rosa e poi di nuovo bianco sul rosa, ma poi non riuscivo a fare il nodo finale e pensavo alla vecchia affacciata alla finestra. Il giorno di Pasqua andai dalla vecchia e dissi “signora vecchia mi puoi annodare le punte di questo braccialetto?”. E la vecchia tossì forte ed io guardai giù, mentre aspettavo di sentire la sua voce che non arrivava. Le passai il braccialetto dalla finestra e lei lo prese con le sue mani ossute e lucide. Allora io volevo vedere come faceva il nodo e mi aggrappai alla finestra con le punte dei piedi sul marciapiede ed entravo solo con la testa nella sua casa di minestra. Era odore di minestra.
“Puoi fare il nodo strettissimo?” chiesi. “Non tirare la tenda” disse. Liberai il tratto di tenda che tenevo premuto tra le mani e il marmo della finestra. Aveva le unghie lunghe e muoveva le dita lentamente. Faceva per prendere il filo, ma quello sfuggiva. “Non fa niente” dissi e lei me lo restituì.
Il nonno giocava con il cane e le mie scarpe di vernice marrone non stavano ferme, allora andai da mio cugino che giocava a pallone contro un muro. Mi tolsi le scarpe ed andai in mezzo alle due sedie perché quella era la porta e dovevo parare.
“Prendila”.
“Si, si, tira.”
Poi tirava.
“Non così fortAhia.”
“Che ti sei fatto?”
“ Niente.”
“Come niente, fammi vedere. Sta sanguinando il naso”
Guardavo il soffitto e vedevo il cielo, con le stelle e gli angeli ed i santi e Maria con Giuseppe, e tanti vecchi che suonavano e c’era pure la vecchia della finestra.
“Non te l’ho rotto io”
Ahia, non mi toccare… sei proprio uno scemo di merda”
“Guarda in alto… don Alfredo deve sapere che usi queste parole”
Ma non piangevo perché o ti scende il sangue dal naso o ti scendono le lacrime. Due sono le cose.

8 commenti:

stealthisnick ha detto...

meravigliosa come sempre

Adriano Maini ha detto...

Delicata, attenta, precisa, ispirata. In poche parole: grande vera scrittura!

gattonero ha detto...

Ma da quando 'o scende il sangue o scendono le lacrime'?
Nei miei lontani ricordi, un pugno o una pallonata sul naso facevano scendere in abbinata sangue e lacrime.
E non per niente, soprattutto in politica e in economia, per non dire 'saranno cazzi acidi', si promettono 'lacrime e sangue'.
Però alla vecchietta alla finestra potevi almeno farglielo fare 'sto nodino: lasciandola così, hai evidenziato una inutilità più marcata di quanto fosse nella realtà.

Il Ballo dei Flamenchi ha detto...

@nick: thankyou :)

@Adriano Maini: grazie :)

@gattonero: “Questo non è un romanzo. E neppure un racconto. Questa è una storia. Inizia con un uomo che attraversa il mondo, e finisce con un lago che se ne sta lì, in una giornata di vento. L’uomo si chiama Hervè Joncour. Il lago non si sa. Si potrebbe dire che è una storia d’amore. Ma se fosse solo quello, non sarebbe valsa la pena di raccontarla. Ci sono di mezzo dei desideri, e dei dolori, che sai benissimo cosa sono, ma un nome vero, per dirli, non ce l’hai…”

Flaubert poi era il maestro dei bianri morti. I binario morti sono un lusso, non un intralcio alla narrazione. Almeno questo io credo.

Alfa ha detto...

Sempre molto delicati e sognanti, pervasi però da un perenne "mal di vivere" i tuoi racconti.
O sbaglio?

Il Ballo dei Flamenchi ha detto...

che strano sentirselo dire...

Zio Scriba ha detto...

Il paradosso di noi artisti è che dobbiamo essere "grati" al nostro mal di vivere: senza di esso saremmo bistecche da discoteca.

Il Ballo dei Flamenchi ha detto...

bistecche da discoteca... uau