27/09/25

Riparare le scarpe

 di Cristina Taliento


Una tipica finzione letteraria dello scrittore che per anni ha scritto romanzi di formazione è quella di andare a trovare i Personaggi inventati durante la propria adolescenza. Non è poi rimasto molto di loro: l'Adolescente Arrogante è diventato un adulto accondiscendente, i suonatori di flauto hanno lasciato l'orchestra, il medico di Alessandro Magno è stato morso da un ramarro, lo specializzando di chirurgia lavora adesso nel privato, i fiori sono tutto sommato appassiti e così via. Un'altra tipica finzione letteraria, è immaginare l'astio che questi Personaggi provano verso il narratore che gli ha abbandonati, come giocattoli ammucchiati in soffitta, dimenticati. I luoghi dove sono stati, le praterie, i porti e le grotte, non esistono più. Il narratore è desolato, ma non può farci nulla. Qualcosa nel frattempo è accaduto, a lui/lei, al suo Ego, che prima era grande, poi forse si è rimpicciolito. Alza le spalle, inizia ad accampare scuse, nomina la guerra in corso, poi si interrompe. Infine dice che è andata così. I Personaggi sono talmente tanto privi di vita, che la loro risposta è il pezzo di vernice che si stacca dalle loro scarpe e cade sul pavimento senza nemmeno fare rumore. Senza trama, senza finale. 

Questa finzione letteraria a tratti dolorosa nasce da un'accusa interiore che il narratore rivolge a se stesso: ho mancato in qualcosa? Ho barattato le storie, il pensiero filosofico, i dubbi, le domande, per un soggiorno più agiato nell'argentate lande della gaia Scienza? La fantasia è ancora un posto dove ci piove dentro? - per citare Calvino. Il narratore, un po' corrucciato, non sa cosa rispondersi, se fumasse, si accenderebbe una sigaretta, ma grazie al cielo non fuma e sa solo che le domande sono dappertutto. Pensa alle parole di Kafka ne Il Castello: "[..] basta pensare alle piccole questioni burocratiche che ti riguardano, quelle inezie che un funzionario liquiderebbe semplicemente con un’alzata di spalle; bisogna soltanto comprenderle a fondo, e allora avrai abbastanza da occupare la mente per tutta la vita senza mai restare a corto di idee."

Quindi si alza e prende innumerevoli direzioni, tutte quelle che può prendere, poi torna indietro, ne prende ancora infinite. Passato e presente si incontrano, il Sè bambino, il Sè di adesso, gli oggetti smarriti, e tutti i fuochi sparsi per la strada, i destini generali e via dicendo. A un certo punto, non ne può più e va a farsi un risotto in quel rifugio che si affaccia sul lago di Ontario. La città è misteriosamente deserta, anche per gli standard di una nazione già in partenza scarsamente popolata. Il narratore, in qualche modo, attribuisce a se stesso le colpe anche di questo, come se tale silenzio fosse la causa di una sua dimenticanza, della sua dipartita. Infine, si dice che così non è. E che il sole sorge anche senza il suo errare. 

Non è nemmeno mezzogiorno quando inizia a mangiare il risotto fumante, guardando la luce che si abbatte tangente sul lago. La torre - un tempo la più alta del mondo- si innalza bella e sola sull'orizzonte degli eventi. Una barca a vela - chissà se pilotata veramente da qualcuno - traccia una linea perfettamente diagonale, mentre la fabbrica di zucchero spegne all'improvviso i macchinari al suo interno. Il narratore sussulta e pensa "oh no, anche questo per via della mia assenza". Poi, menomale, si ricorda che è sabato pomeriggio. 

In quella città invisibile, la finzione letteraria menzionata all'inizio raggiunge il suo apice. Il narratore si confronta finalmente con quello che ha perso lungo il percorso e, inevitabilmente, il pensiero ritorna ai suoi Personaggi trascurati, alle idee che non hanno germogliato, alle strade facili inesplorate. 

Rivede il moose, l'alce americano, gigante come non mai, che attraversa University Avenue nonostante il semaforo rosso. In memoria di sè, il narratore gli fa un cenno del capo. Il moose ricambia. Poi riprende il suo cammino scomparendo dietro i grattacieli. 

Ma all'improvviso - (e nonostante tutto questo vagare, il narratore introduce ancora i paragrafi con "ma all'improvviso") - la sagoma curva del vecchio Genda si staglia rassicurante dietro la vetrina di un negozio al piano terra, una bottega nella metropoli, una montagna di scarpe rotte sul pavimento. Il narratore riconosce con stupore il suo personaggio. Come mai egli è ancora in vita? Come mai non giace come gli altri avvolto dalle ragnatele di tutto quello che il narratore avrebbe potuto dire e non ha detto, di tutto quello che il narratore avrebbe potuto creare e non ha creato?

"Non esiste la creazione, nè il creatore, la strada giusta o la cattiva strada, esiste il tuo essere mortale finchè dura e quella torre, finchè non sarà abbattuta" dice Genda, leggendo nel pensiero del narratore, indicando la CN Tower, la cui punta si intravede dalle finestre del negozio. 

Il narratore fa un passo verso la montagna di scarpe. "E che cosa sono queste?". Non capisce. Per quanto ne avesse memoria, in passato Genda era una specie di scrittore, poeta, o giù di lì. 

"Non lo vedi? Sono scarpe rotte!" esclama dando un colpo di martello alla suola. Poi prende l'ago e inizia a cucire. 

Era chiaro che quello fosse il suo nuovo mestiere. Il narratore lo fissa, a tratti sollevato (perchè il sole era sorto senza di lui), a tratti infastidito (per lo stesso motivo). Era pur sempre un suo Personaggio. Uno dei migliori. Un solitario. Alla deriva. 

"Credevo scrivessi poesie" dice allora il narratore. 

"Prima che tu te ne andassi" risponde Genda, ma senza rancore. E poi aggiunge: "Suona le campane che ancora suonano, dimentica l'offerta perfetta". Anthem? Leonard Cohen?

Il narratore tentenna. I solitari - pensa- sono sempre loro a tentare nuove esperienze, a liberarsi. E poi dice: "Perchè lo fai, perchè adesso ripari le scarpe?"

"Perchè così possono vivere più a lungo"

"E qual è il senso di farle vivere più a lungo?". 

"Perchè esistono" risponde Genda. 

Al narratore quella risposta piace. Pensa che non faccia una piega. "Bene, dunque..." e fa per andarsene, ma mette una mano nella tasca del giubbotto e ritrova un oggetto che aveva perso. Un piccolo saturimetro da dito. Se lo rigira tra le mani guardandolo, e pensa "che buffo, da dove salta fuori". Quando rialza la testa, Genda non c'è più, così come le scarpe, la città sul lago di Ontario, la sua torre, tutti quei grattacieli. 



(a Fausto e a Tomaso, che hanno letto per anni questo blog, che la terra vi sia lieve)



18/01/25

Il bosco di notte

 di Cristina Taliento 


Verso i trent'anni ci perdemmo nel bosco di notte, non tanto perché la diritta via era smarrita, ma semplicemente perché ci andava, con il nostro modo personale di scendere a fondo nei fatti della vita. Si erano soffermati in molti sul significato allegorico del "bosco di notte", alcuni citavano De Andrè ricordando la sua "Cattiva Strada", altri "Les Fleurs du mal" di Baudelaire. Malinconia e ideale. Dunque, ci avventurammo. Perché era nella nostra natura. C'era da dire, poi, che era qualcosa di non totalmente inaspettato. Ovvero, si sapeva che verso i trent'anni, come Achab avremmo fatto un passo verso quella grande Balena Bianca, non con l'intento di farne, dopotutto, qualcosa, ma con la limpida curiosità di vederla sfilare da vicino, nel suo splendore, per ammirarne in solitudine il Mezzo, senza il finale. E riderne, sorriderne. 

Se qualcuno volesse invitare un altro ad andare nel "Bosco di Notte", potrebbe ispirarsi all'annuncio pubblicato su un quotidiano locale nel 1914 da sir Ernest Shackelton per reclutare personale per una spedizione in Antartide: "Cercasi equipaggio per viaggio pericoloso. Paga misera, freddo intenso, lunghi mesi di oscurità totale, ritorno incerto". Oppure ad Alice. Alice in Wonderland. Quando lei chiede allo Stregatto: "Che strada devo prendere?". E lo Stregatto rilancia "Dove vuoi andare?". "Non lo so" risponde Alice. "Allora- risponde lo Stregatto- non ha importanza". Ma Alice vuole andare "somewhere", e allora chissà forse non c'è una strada giusta e una sbagliata.  

Quindi, scegliemmo di andare nel bosco di notte, perchè di tutti gli "ovunque" era quello più sconosciuto. Gli alberi erano alti, gli animali dopotutto dormivano. In più, il bosco sembrava più riservato della Itaca di Ulisse. Non splendeva, non era circondato dai mari. Rimbombavano le parole di un giovane montanaro, George Mallory, ai piedi del monte Everest che, alla domanda "Qual è il senso di scalarlo?", risponde: "Because it's there" ("Perchè è lì"). 

L'immagine del bosco non può non essere legata a quella del Piccolo Casolare lungo la strada, il rifugio con il camino accesso, un cane che dorme sul tappeto. "The Shelter from the storm". La promessa di un luogo tranquillo che viene continuamente tradita. L'angelo del focolare domestico che aspetta sull'uscio il tuo ritorno: "Ritornerai?" chiede. Con buona probabilità, sì. Ulisse e Penelope potrebbero essere la stessa persona, l'intenzione e l'azione, fare e disfare la tela per paura che tutto si compia e poi, andare. Il moto di Penelope è circolare, meditativo, prudente, ha in sé la sicurezza del tentativo non definitivo. Quello di Ulisse invece è disordinato e irreversibile.  Egli può solo sbagliare. Sbagliare ancora, sbagliare meglio (Samuel Becket). Il viaggio racchiude il desiderio di entrambi i moti, il Casolare, la tela, il ritorno e poi il naufragio, il fallimento e la scoperta. Senza il Piccolo Casolare che fa capolino di tanto in tanto lungo la strada, il bosco sarebbe meno spaventoso e affascinante. E' proprio il continuo tradimento del porto sicuro, che fa di un mucchio di alberi, la direzione giusta.